L’ultima uscita di TerraRossa, per la collana “Fondanti”, è Qui non crescono i fiori di Luca Giordano. Il primo romanzo dell’autore piemontese era stato pubblicato da ISBN edizioni nel 2013, due anni prima che la casa editrice chiudesse: basta uno sguardo alla loro edizione di Pesca alla trota in America per rammaricarsene.
La morte delle case editrici è uno strano tipo di morte.
Quando uno scrittore scompare possiamo continuare o iniziare a leggerlo. Una casa editrice, invece, muore di più: i suoi libri, nella maggior parte dei casi, usciranno dalla nostra disponibilità. Si nasconderanno, non ci verranno più incontro: dovremo conoscerli in anticipo per poi andarli a cercare su internet o nelle librerie dell’usato.
Spesso gli editori indipendenti, per raggiungere gli scaffali con le loro novità, a queste affiancano alcuni recuperi dal passato, ripescaggi illustri che in qualche modo rassicurano i lettori. TerraRossa ha fatto qualcosa di diverso.
Pescare vicino a riva non vuol dire pescare meno a fondo. È anzi, in questo caso, un tentativo più ardito: “Fondanti” intende riportare in superficie, tra i testi significativi degli ultimi anni, quei romanzi che rischiavano incolpevolmente di inabissarsi. «Romanzi recenti ormai introvabili di autori che hanno rinnovato il panorama letterario» – secondo le parole di Giovanni Turi e soci –, libri penalizzati dal metabolismo delle librerie, dove, salvo un immediato successo, «la vita di una nuova opera è oggi di circa un mese».
Qui non crescono i fiori perché fa troppo caldo e tutto è bruciato dal sole, e anche perché il male e la solitudine si accompagnano, su quest’isola al largo della Sicilia, e non possono esserci fiori a dare conforto o speranza. Protagonisti del romanzo di Luca Giordano sono tre maschi, un padre alcolizzato e i suoi due figli. Vivono in una casa sciatta accanto all’officina che dà loro da vivere. Anche Pietro, amico del maggiore dei figli di Mario, lavora per loro, e a volte manomette una delle poche macchine dell’isola perché si trovino costrette a recarsi in officina.
Sono molte le mancanze evidenti, per questi maschi dai dodici ai quarantacinque anni. La mancanza d’aria e di prospettive, in un’isola che dovrebbe essere aperta per sua natura a tutti gli orizzonti, e dove invece il vento non soffia mai. La mancanza di madri: Pietro è orfano – i genitori sono morti nel tentativo di portare soccorso a uno dei tanti gommoni che cercano di raggiungere l’Italia –, Damiano e Salvatore anche, e quest’ultimo non sa neanche da quanto né perché.
Su tutte, la mancanza di parole. Quando Salvatore viene morso da un cane randagio, il modo in cui Mario tenta di riparare è grottesco: in silenzio, portare con sé il figlio durante le ronde in Ape Piaggio sotto il sole, cercare i randagi per ucciderli uno a uno, insegnare a Salvatore come si imbraccia il fucile, come si punta e spara, nell’impossibile tentativo di far passare l’amore e la cura attraverso un gesto di morte. Dopo l’uccisione del primo cane, i due si mettono di guardia su una collinetta in attesa di altri randagi. Mario pensa che la complicità e l’affetto siano questo – i silenzi appaiati di una coppia di cacciatori – senza neanche sapere che Salvatore ha una sua idea dell’amore.
«Non serve a nulla dirgli che non ne sei capace. Spara, dice. Ti mette il fucile tra le mani e tu le senti diventare fredde, gelide. Quasi ti abbraccia ora che si è sistemato dietro di te per guidarti.»
Da quel giorno in poi Salvatore, senza dire niente a nessuno, andrà a cercare il cane che ha ferito per dargli da mangiare: l’unico rapporto umano che si configura in questo romanzo avviene la notte, in una cascina annerita da un tragico incendio di anni prima, tra un dodicenne con una ferita purulenta sulla gamba e un cane zoppo con i ciuffi di pelo calcificati da sangue e terra.
Il dodicenne Salvatore è il solo che, pur nel subire alcuni effetti di lungo corso del male, prova a non dare altri motivi al male per presentarsi: in questo libro, che a ragione è stato assimilato a una sceneggiatura (sceneggiatore è Luca Giordano, che nell’anno del suo primo romanzo aveva esordito anche al festival del cinema di Venezia con Il terzo tempo), le conseguenze delle azioni dei personaggi si fanno sentire con un tempo di ritardo, quando hanno ormai accumulato una progressione che non può essere invertita: questo vale per i freni tagliati da Pietro alle macchine parcheggiate, per ogni bicchiere in più tra le mani di Mario, per lo scherzo cattivo che Damiano architetta una volta scoperto dove va Salvatore ogni notte, non sopportando che il fratello ami qualcosa o qualcuno.
Qui non crescono i fiori, a quasi dieci anni di distanza dalla prima uscita, risente in vari modi del tempo trascorso: nei riferimenti al sogno televisivo del Grande Fratello – l’unica possibilità che Damiano concepisce per uscire dall’isola –, in alcuni tic stilistici e nell’immaginario dell’Italia periferica che vuole che su ogni muro ci sia muffa, che ogni macchina alzi polvere, che ogni bicchiere venga sbattuto sul tavolo quando si è finito di bere. Che tutto sia arido e immobile e il male non sia neanche una scelta.
Ma l’editore TerraRossa, che quest’anno debutta al premio Strega con La casa delle madri di Daniele Petruccioli (collana di novità, “Sperimentali”), chiede anche questo ai lettori. Oltre a rincorrere il nuovo e assecondare la peer pressure sui temi letterari del momento – scrive in questi giorni Giovanni Turi –, conviene recuperare ciò che sta per perdersi e capire se ancora ci parla: significa fidarsi dei libri, degli editori e della loro idea di catalogo. Anche il nuovo tra qualche mese non sarà più nuovo, ma non è poi così grave.