Ettore cammina piano sulla vita, non con leggerezza, ma per il terrore di sprofondare in quel magma che vede agitarsi intorno a sé. Ben protetto all’interno della teca che s’è costruito su misura, guarda attraverso il vetro le altre persone agitarsi, amare, soffrire, e ne prova in fondo un certo disagio. Non capisce le passioni di sua sorella Arianna, che si infiamma per persone e idee che lo lasciano del tutto indifferente; l’ambizione di sua madre, che vuole a tutti i costi trasferirsi il più lontano possibile dal quartiere popolare in cui vivono per offrire ai suoi figli quel riscatto (sociale, culturale, economico) che a lei è sempre sfuggito; la (scarsa) presenza del padre in un contesto, quello familiare, che sembra infastidirlo e basta. Non capisce le urla dei vicini, gli amori illeciti nati con sguardi furtivi da un balcone all’altro, i suoi coetanei che giocano a calcio per strada. Non capisce gli amici, e forse neppure il concetto stesso di amicizia, le ragazze, l’esuberanza dei suoi coetanei. Si muove distratto e incerto, incapace di penetrare a fondo il mondo che lo circonda e da cui vorrebbe invece prendere le distanze. Non conosce l’empatia né l’ascolto: è concentrato solo su sé stesso, nel tentativo di fare sempre e solo ciò che ritiene sia giusto. Vive senza contaminazioni in un microcosmo sterile che, inevitabilmente, inizia a vacillare quando conosce Elisa.
«Avevo dieci anni e volevo salvarla» racconta Ettore. Salvarla dalle grida minacciose della madre, dagli schiaffi del padre, dall’arroganza del fratello. Salvarla dalla povertà, dall’ignoranza, dalla trivialità, da una vita di miserie e difficoltà. Portarla con sé, offrirle un’alternativa, darle sicurezza. Elisa è una bambina che abita nel palazzo di fronte al suo ed Ettore, di qualche anno più grande, prova nei suoi confronti un’ossessione totalizzante per gran parte dell’adolescenza. La incontra per caso tempo dopo, quando lui è già all’università e lei, che frequenta le superiori, lavora in un bar per portare qualche soldo a casa e guadagnarsi una piccola autonomia. La voglia di tirarla fuori da quella realtà, che immagina orrenda e svilente, si fa irresistibile. Lui la corteggia, lei non oppone resistenza, si fidanzano. E così inizia la discesa verso l’abisso.
Ettore la porta con sé nella sua teca, ma lo spazio per due è poco. Si soffoca, là dentro. E quando le pareti si fanno troppo strette e infine esplodono, le schegge di vetro sono tutte per Elisa. Lui previene i suoi desideri (inventandoli talvolta di sana pianta) e li realizza, prima che lei abbia il tempo di aprire bocca. Sceglie tutto quello che pensa sia meglio per lei, ma senza interpellarla. Quando Elisa resta incinta, è Ettore a decidere di tenere il bambino, mentre lei vorrebbe abortire. Ed è sempre Ettore a dettare il ritmo della loro vita di coppia: il matrimonio, la convivenza, una casa più grande grazie al suo stipendio da insegnante, una seconda bambina. È tutto già scritto: tutto perfetto. Ma solo per lui.
Per Elisa, la situazione è asfissiante. Non ha un lavoro (Ettore non vuole, sostiene che non ce ne sia bisogno), non ha amici, non ha una vita fuori dalle pareti domestiche. Tenta timidamente di parlarne con il marito, ma le sue parole cadono nel vuoto. E allora, quando proprio non ce la fa più, lo lascia, dandogli però il tempo di riflettere su una proposta: se lui saprà stare ad ascoltarla, lei gli racconterà come ha vissuto i quindici anni che hanno trascorso insieme. Per Ettore questo significherebbe mettersi in discussione, considerare una relazione di cui pensa di sapere già tutto da una nuova angolazione, accogliere le esigenze della donna che è convinto di amare più di ogni altra cosa. Il punto è se sarà in grado di farlo – se vorrà farlo.
C’è un che di magnetico nella scrittura di Loreta Minutilli, una forza di attrazione già presente nel suo romanzo d’esordio, Elena di Sparta (Baldini+Castoldi, 2019), che anche qui si sprigiona, amplificata, per andare a scavare nelle pieghe e nelle piaghe dei rapporti d’amore – o meglio, di Quello che chiamiamo amore (La nave di Teseo). Una scrittura elegante e nitida, senza approssimazioni, che avvolge il lettore nelle sue spire e lo porta con sé in una voragine umana sempre più profonda, dove i contorni si confondono e gli opposti arrivano a sfiorarsi. Quello che poteva apparire romantico diventa morboso, quello che sembrava giusto ora è folle. Si finisce immersi in una melma emotiva viscida come sabbie mobili, e il senso di disagio che a tratti si prova deriva soprattutto dal fatto di aver già visto con i propri occhi certe dinamiche, di aver già vissuto certe situazioni, di aver talvolta persino pensato come i protagonisti.
Con grande maturità stilistica e sicurezza nella gestione dei tempi narrativi, l’autrice propone un racconto in prima persona (è Ettore a parlare) credibile e scorrevole, anche nei suoi momenti più complessi. Rinuncia alla tentazione di emettere giudizi e di offrire soluzioni, cosa non semplice in un romanzo che, oltre ai meriti letterari, ha un’innegabile valenza sociale. Loreta Minutilli non dà risposte: lei racconta una storia, propone una prospettiva, immagina e ricalca un punto di vista. E le domande, a quel punto, nascono da sé: sono tante, pressanti e destinate a riecheggiare a lungo nella mente del lettore.