Quando si legge l’autobiografia di un personaggio politico in vista c’è sempre il rischio che si tratti della celebrazione di un percorso da eroe o eroina senza macchia e senza paura, che ha compiuto gesta sovrumane e vuole illustrare alla propria nazione un lungo e noioso programma politico.
Si tratta di libri che spesso vengono dati alle stampe alla vigilia di un’importante campagna elettorale, e potrebbe sembrare il caso di Le nostre verità di Kamala Harris, uscito per la prima volta negli Stati Uniti nel gennaio 2019, appena dodici giorni prima dell’annuncio della sua candidatura alla presidenza (poi ritirata il 3 dicembre dello stesso anno) e arrivato adesso in edizione italiana grazie ai tipi di La nave di Teseo.
La prima parte del libro, in effetti, sembra ricalcare lo stereotipo del volume autopromozionale: Harris racconta la propria storia, che aderisce perfettamente al modello del Sogno Americano, e più volte nel testo spinge lettori e lettrici a credere che sia ancora realizzabile.
Nata da una famiglia modesta – da padre giamaicano e madre indiana, entrambi accademici, che si sono separati quando lei era molto piccola – è stata cresciuta insieme alla sorella dalla madre. Nonostante le difficoltà iniziali, grazie al lavoro duro e alla dedizione indefessa le donne della famiglia Harris hanno iniziato una scalata inarrestabile di incredibili vittorie e successi.
Harris scrive di essere stata educata a non parlare troppo di sé, e in effetti nella prima parte del libro sembra quasi non aver voglia di raccontarsi davvero, evita di parlare di episodi spiacevoli e controversi – anche di quelli che le vengono continuamente rinfacciati dalla stampa e sui social – e sceglie di cancellare alcune pagine della propria vita privata e professionale, anche quando sarebbe stato utile leggerle dalla sua prospettiva. Di personale veniamo a sapere solo del grande rapporto con la madre e con la sorella, con alcuni amici, con Doug, il marito che ha sposato nel 2014, e con i figli di lui. Pressoché nient’altro, tutto il resto è dedizione al lavoro.
Quello che è interessante, però, e che rende questo libro diverso da tante altre autobiografie politiche – per esempio da Rivoluzione di Emmanuel Macron, sempre pubblicata da La nave di Teseo, che era però più dichiaratamente la summa di un programma di partito – sono i temi che tocca e la forza con cui prende posizione contro grandissimi interessi economici.
Harris ci racconta gli Stati Uniti, e in particolare la California, aiutandoci a capire alcune pagine della recente storia americana dal punto di vista di una persona che ha avuto il potere di fare qualcosa ma che per questo si è trovata di fronte a poteri molto più grandi del suo, e che spesso ha dovuto lottare contro i suoi stessi colleghi.
Ripercorrendo la propria carriera – partita dall’ufficio del procuratore distrettuale di Alameda, poi diventata procuratore distrettuale di San Francisco, poi procuratore generale della California, e poi senatrice del partito democratico – ci parla della speculazione sui mutui e della condizione delle famiglie dopo la crisi del 2008, dell’immigrazione dal Triangolo del Nord, delle violenze sessuali, del razzismo sistemico, dell’emergenza carceraria, della diffusione non consensuale di contenuti intimi, dei matrimoni LGBTQ+, dell’iniziativa Back on Track per reintegrare nella società le persone che avevano commesso reati e di quella contro la dispersione scolastica, della lotta contro le organizzazioni criminali internazionali, di tutti i programmi di giustizia rieducativa a cui ha dato avvio e di tutte le pressioni per far approvare leggi giuste che ha condotto nel corso della propria carriera.
In queste pagine Harris si appassiona, permette di realizzare cosa significa essere la principale autorità giudiziaria del più grande stato degli Stati Uniti, ci fa capire quanto siano grandi le difficoltà e le frustrazioni di quel ruolo e quanto sia consapevole delle diseguaglianze e dello stato di indigenza di milioni di famiglie americane.
Parla della pessima qualità della sanità degli Stati Uniti, afferma che la salute dovrebbe essere un diritto e dimostra di avere un’idea chiara di cosa bisognerebbe fare per renderla accessibile, sottolinea che il cambiamento climatico è «una minaccia alla sicurezza nazionale di assoluta priorità» e prende delle posizioni nette e decise.
Del resto lo dice chiaramente alla fine del libro, dove elenca le linee guida che segue nel lavoro e che ha trasmesso al proprio team: «Io scelgo di dire la verità. Anche quando è scomoda. Anche quando lascia addosso alle persone un senso di disagio».
Non è retorica, davvero leggendo queste pagine – al di là dell’epica del Sogno Americano e della necessità di esporre solo i lati luminosi della propria carriera – è impossibile per lettori e lettrici in Italia non domandarsi quale esponente politico del nostro paese farebbe dichiarazioni così forti e parlerebbe con cognizione di causa di così tanti temi centrali del tempo presente.
C’è ancora un’altra domanda, però. Harris non fa mai – al contrario di Michelle Obama nella sua autobiografia Becoming – una vera riflessione sul potere. Non lo mette mai in dubbio, si descrive più come una combattiva che come una rappresentante del potere costituito, e a tratti il suo ruolo sembra quasi quello dell’attivista e di una Erin Brockovich che sfida i grandi interessi. Eppure Kamala Harris è da molti anni una donna di potere, il potere l’ha esercitato in più sedi, il potere ha fatto di lei una figura a tratti controversa, che cerca sempre di tenere in equilibrio l’interesse comune con la collaborazione con la polizia degli Stati Uniti, la spinta al cambiamento con la retorica americana del «siamo un grande Paese», «grazie allo sforzo incredibile della nostra polizia», «dovremmo sempre essere grati ai militari eroici che ci hanno difeso in Iraq». Qual è quindi il suo vero rapporto con il potere?
Harris non ne parla, neppure per giustificarlo, ed è la ragione per cui Le nostre verità non scioglie tutte le riserve e sembra – a dispetto del titolo – non contenere tutte le sue verità. Sarebbe stato forse più onesto mettere in luce le proprie ombre e le proprie contraddizioni, su tutte la scelta di collaborare con il potere della polizia pur conoscendone i rischi. La carriera di Harris, infatti, non è stata quella dell’attivista, ma quella dell’autorità giudiziaria e poi della politica, e per questo forse sarebbe stato utile spiegare quali scelte ha compiuto per portare il proprio Paese verso un cambiamento culturale, economico, sanitario, scolastico, giudiziario.
La domanda, quindi, rimane sospesa, e si mescola al clima di attesa nei confronti delle sue scelte da nuova vicepresidente degli Stati Uniti d’America.
Photo credits
Copertina – David Becker
Ritratto – Marcio Jose Sanchez