L’estate scorsa (a luglio 2020 per chi ci legge da un futuro remoto) è uscito per Adelphi Steve Jobs non abita più qui di Michele Masneri.
È una raccolta di pezzi – saggi autobiografici? – editi e inediti sui viaggi e i soggiorni di Masneri a San Francisco e in California dal 2016 in avanti. Un periodo che lo stesso Masneri definisce un suo «Erasmus da 40enne».
Il libro credo sia stato una discreta sensation: commerciale, dal momento che è sicuramente andato in ristampa (penso più volte) e – forse più significativamente perché la vera currency della contemporaneità è la conversazione – social.
Su Instagram ne hanno parlato tutt*. Me compreso.
Limina, a distanza di mesi dall’uscita e in occasione dell’anniversario della nascita di Steve Jobs (nato il 24 febbraio 1955 e morto prima di sentirsi dare del boomer), mi ha chiesto di annotare alcuni pensieri che avevo abbozzato quest’estate in stories. Quei pensieri, però, io non me li ricordo, quindi ne ho messi giù altri.
La speranza è una trappola (dei padroni)
«È strano. Tutti quelli che si perdono prima o poi si ritrovano a San Francisco. Dev’essere una città deliziosa, e possedere tutte le attrattive del Nuovo Mondo.»
Masneri mette in esergo al libro questa citazione di Oscar Wilde, quasi come un reminder della vocazione storicamente sperimentale della città, una nota per qualificare San Francisco (e la Silicon Valley per estensione) come un imaginarium.
Questo percepito di marca è quasi scontato e quasi sempre sullo sfondo dei discorsi (e più interessantemente delle azioni) delle persone che l’autore incontra durante i suoi viaggi. Ma la storia di questo posto come posto per immaginare un’alternativa è una storia vera: in particolare tra la fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta la città è stata un laboratorio per idee socialmente disruptive.
Già dagli anni Cinquanta gli autori della Beat Generation a North Beach, gli hippy e i figli dei fiori (se sono due cose diverse) nel 1967 ad Haight-Ashbury per la Summer of Love, l’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei nativi americani nel 1969, il movimento per la Gay Liberation e l’affermazione di Castro come Gay Mecca nei Settanta, la scena jazz di Fillmore, ma anche uno sviluppo urbano improvviso (impensabile sembrerebbe oggi che, come racconta Masneri nel libro, le concessioni per lo sviluppo immobiliare sono ferme e i prezzi delle case non rappresentano nulla e potrebbero tranquillamente essere in valuta del Monopoli) e l’istituzionalizzazione di una industria del porno. Insomma è stato storicamente un luogo di alternative radicali. Anche se, a ben guardare (la pornografia è un esempio, credo), alternative già allusive di un orizzonte exploitative: non intendo dire che il porno sia un’industria fondata sullo sfruttamento, ma che il mindset che anima queste iniziative è economico. La pornografia come monetizzazione della liberazione sessuale: dalle idee al denaro (come d’altronde succede a tutte le startup che hanno successo: prima si immaginano il futuro – e guai a chiedersi com’è economicamente viable –, poi il fondo VC ti spiega come farci i soldi che giustificano la x-million dollar valuation).
Dunque, insomma, indipendentemente da cosa sia stata San Francisco nel passato (e di quanto genuinamente radicale e anti-sistemica fosse), l’alternativa che rappresenta San Francisco oggi sembra, al contrario, un’alternativa radicalmente sistemica (completamente organica rispetto al paradigma ideologico dominante, diciamo). Un’alternativa che mi sembra imperniata grosso modo su tre cardini:
- una forma di ripiegamento sull’individualità per cui non è che non ti piace lo zucchero… non sei una sugar person, per cui le battute politicamente scorrette sono inaccettabili in quanto «mi offendono personalmente», per cui tutti hanno una vocazione (sempre molto specifica, anche nella sfera delle preferenze sessuali), un progetto che è un’estensione della propria rappresentazione (anche se fai il barbiere cottimista in saloni di altri), mai una cosa che stanno facendo.
- quella che definirei l’allucinazione di una «liquidazione universale» per cui la propria produttività è acquistabile (il micro-dosing e tutta la cosiddetta nutraceutica sono fenomeni integrali alla hustle culture della Silicon Valley) e la disruption è un esercizio di immaginazione imposto a un mondo che deve essere rappresentato come una funzione delle sue stesse possibilità di monetizzazione, perché qualunque cosa succeda è già potenzialmente un pain point che la tua startup (attualmente inesistente) potrebbe domani tackle, per tap into an untapped market.
- la rassegnazione all’inevitabilità del corporate capture dei valori accettabili right here, right now. Con un Pride settorializzato in dipartimenti che direi letterali (all’incirca uno per ciascuna lettera di LGBTQI+) con carri aziendali che comprano il proprio posto alla parata per contribuire (sempre da follower) a costruire un ambiente radicalmente inclusivo accreditando (proprio nel senso di offrendo del credito) l’esistente.
In filigrana, in queste tre tesi, se ne intravede una ulteriore, che è che San Francisco è la materializzazione dell’assenza di alternative che è il realismo capitalista raccontato da Mark Fisher. Anzi, più che una materializzazione, ne è l’allucinazione collettiva generata da una forma di incrollabile fede in una descrizione della realtà che è integrale a quel tipo di mix di post-ideologia, desacralizzazione e incapacità di immaginazione fuori dal paradigma (neoliberista) attuale.
Questa – per un verso ovviamente – è una tesi mia, non di Masneri.
Perché, contrariamente a quanto so fare io, Masneri è un testimone il cui moralismo (se c’è) è silenziato o almeno ha un’espressione che chiamerei compassionate cringe. Masneri eccelle nella sofisticata arte della mimesi di quello che lo disgusta. O forse solo lo stranisce. Impara a essere quello che osserva, ne acquisisce pose e lingua, per restituirne sempre un’immagine comunque disorientata, come se non avesse bisogno, l’autore, di avere controllo sul significato morale di quello che descrive (un’abilità che personalmente trovo un hallmark degli autori e delle autrici capaci di fare letteratura).
Tornando a quello che mi interessa davvero (cioè la mia opinione ¯\_(ツ)_/¯): in questo nuovo «Mondo Nuovo», che però è ancora lo stesso identico mondo, è possibile immaginare la fondazione di nazioni galleggianti, ma non degli affitti ragionevoli. E questo, ipotizzo, perché solo in un mondo in cui l’immaginazione funziona per paradosso si può lavorare nella speranza di un vero big break (una exit che ti garantisca libertà finanziaria reale).
È – per lo meno secondo me – il perfezionamento di un meccanismo di ingegneria sociale che Monicelli riassumeva con la frase «La speranza è una trappola».
In the entrepreneurial fantasy society, the delusion is fostered that anyone can be Alan Sugar or Bill Gates, never mind that the actual likelihood of this occurring has diminished since the 1970s.
O. James, The Selfish Capitalist cit. in M. Fisher, Capitalist Realism
Insomma il successo del neoliberismo incarnato dalla Silicon Valley in una forma, appunto, parossistica, è nell’aver sdoganato l’idea che la vita di ognuno è un gratta e vinci parecchio costoso (che addirittura non tutti possono permettersi), ma che è comunque meglio dell’alternativa: in Badiou citato da Fisher lo Stalinismo, la dittatura, la guerra, il fondamentalismo religioso, la pulizia etnica etc.
L’idea che queste siano le alternative è parte dell’allucinazione (in modo anche ironico i riferimenti alla natura allucinatoria della realtà della Silicon Valley non sono rari: le aziende valutate un miliardo sono unicorni 🦄). E credo che sia di nuovo interessante vedere nel lavoro di Masneri l’esplorazione di un’alternativa diversa e già reale (ma non necessariamente meno allucinata): un’alternativa molto italiana alla Silicon Valley.
La corrispondenza
Campione #1: Class, romanzo di Francesco Pacifico dal sottotitolo «Vite infelici di romani mantenuti a New York». Incipit: «La realizzazione personale di un borghese non vale il denaro che costa.»
Campione #2: Teoria della classe disagiata, raccolta di saggi di Raffaele Alberto Ventura scritta nel 2017, che razionalizza il senso di fallimento di una generazione (la mia e la sua) che non rinuncia a scommettere su se stessa (i soldi dei genitori), malgrado sia «condannata al declassamento». Semplificando molto: la nostra realizzazione personale non potrà mai valere il denaro che costa, perché costa uno sproposito.
Campione #3: dentro Il sorprendente album d’esordio de I Cani Niccolò Contessa mette una serie di descrizioni (ritratti?) che credo simili (per oggetto e trattamento) delle stesse ambizioni tardo-adolescenziali.
Non sono mai stato negli Stati Uniti, ma, da qui, l’Italia non ci somiglia per niente.
Le aspirazioni delle stesse generazioni che a San Francisco cercano fortuna con app e servizi, qui, nel 34esimo Paese al mondo per mobilità sociale, mi sembra siano caricate (almeno a giudicare di quanto se ne è discusso negli ultimi dieci anni) sull’industria più penosamente irrilevante e meno ricca a cui riesco a pensare: l’industria culturale.
Figli e nipoti di persone di categorie molto diverse per estrazione e possibilità patrimoniali convivono in un contesto in cui competono per letteralmente quattro spicci e in un sistema che, simile a quello accademico (che è stato paragonato a una “drug gang”), retribuisce soltanto gli insider estraendo manodopera intellettuale a bassissimo costo dagli outsider.
Altrove, Masneri ha raccontato – con una stance esplicitamente arbasiniana – il sogno lucido della nobiltà e dell’upper class italiana (gli eredi dei grandi imperi esplosi negli anni della Prima Repubblica): da infiltrato nel gerontocomio del Premio Strega, a evocare le vite di architetti e designer quasi tutti milanesi (Boeri, Sottsass, Colombo, Castiglioni, Magistretti, Munari), a intervistare i testimoni più o meno diretti degli anni d’oro e poi meno dorati delle dinastie industriali italiane, a testimoniare la sudamericanizzazione della Capitale e il lento declino delle famiglie della nobiltà (non per forza davvero nobile) romana.
Sempre astenendosi dal giudizio esplicito, Masneri è molto bravo a descrivere la distanza del passato dall’attualità. Trova le parole per spiegare perché siamo ancora affascinati da un certo mondo, che non ha tantissimo idea del nostro. Mostrando così, come i trenta e quarantenni di oggi hanno a che fare con intere generazioni che vivono intrappolate nella propria gioventù, investendo nel presente come se rispondesse a regole che non esistono più e infondendo in noi giovanotti aspirazioni scollegate dalla realtà (che i meno fortunati tra i più fortunati pagano riducendo progressivamente il loro patrimonio, in special modo immobiliare).
🚨 ALERT GENERALIZZAZIONE UNWARRANTED 🚨
Perciò ecco, se dovessi dirlo in un paragrafo, la corrispondenza in salsa real estate che rende Steve Jobs non abita più qui ancora più interessante è questa:
Come l’Italia economicamente depressa soffoca i giovani tenendoli ostaggio delle case dei nonni e dei genitori (o delle case che il patrimonio dei nonni e dei genitori permette loro di acquistare/affittare), così le opportunità inaudite di San Francisco strizzano le velleità dei giovani di tutto il mondo in un mercato immobiliare ridiculous in cui – Masneri appunta – «i soldi non hanno più alcun valore».
In entrambi gli scenari, entrambe le geografie, siamo tutti in attesa di svoltare: chi nell’industria culturale allo sfacelo, chi nel parco giochi del venture capital.
E quindi Steve Jobs dove abita?
La risposta a questa domanda è che non lo so. E di più, che non so neanche se sia così utile saperlo.
Steve Jobs (lui come altri) ha rappresentato per anni una certa idea di successo: un uomo universale (la passione – non tecnologica – per la grafica, gli interessi eterogenei – dagli allucinogeni, ai regimi alimentari estremi –, il successo rinascimentale in più ambiti), partito senza grandi strumenti, (figlio adottivo di una famiglia middle class, non particolarmente ricca, né particolarmente istruita) e capace di ispirare e azionare il cambiamento, di rivoluzionare il mondo per come lo conosciamo. Questo racconto ha alimentato per anni il mito di un mondo che genera opportunità enormi e retribuisce la tenacia e il merito di chi le sa cogliere.
Il libro di Masneri (che quest’estate – non so se posso dirlo – rispondendo a una mia storina mi aveva detto che il titolo del suo libro non l’aveva voluto lui) non sembra farsi domande sulle condizioni per la creazione di uomini (e donne) straordinari. Mi sembra invece interessato a esplorare i modi in cui è cambiato il significato di quelle vite straordinarie oggi.
Se vogliamo prendere sul serio il titolo del libro la mia impressione è che Steve Jobs (quello che ha rappresentato) sia stato interiorizzato un po’ da chiunque (e che quindi abiti, per usare un’espressione orribile, dentro di noi).
In uno scenario in cui tutto è intrattenimento (nella cosiddetta attention economy) il tempo è l’oggetto da consumare a cui hanno, al contrario del denaro, accesso tutti indistintamente. Per questo è il reale oggetto di scambio da liquidare contro forme di indebitamento pressoché infinito. Non serve essere a San Francisco per provare una sensazione che se solo trovassi l’idea e solo convincessi qualcun altro a crederci, se solo avessi il pubblico potresti decollare verso il sogno di un’età adulta come miraggio pensionistico. La nostra startup siamo noi, il nostro fondo d’investimento, al quale pitchiamo costantemente nuove idee (il content!) sono le persone che ci seguono.
In una forma di paranoia Dickiana siamo, credo, diventati incapaci di leggere la realtà a un livello letterale, perché dietro quello che vediamo c’è sempre costantemente l’allusione a un significato ulteriore che è il valore economico potenzialmente enorme (dei problemi che potremmo risolvere: che siano come occupare il tempo sulla tazza del cesso o come colonizzare Marte) che gli altri potrebbero riconoscere in quello che stiamo facendo.
Per poter convivere con l’attualità delle nostre possibilità individuali (non enormi) abbiamo accondisceso alla stessa allucinazione che racconta Masneri. Certo non condividiamo bilocali a €4.000/mese con altri scappati di casa, dormendo in tende indoor e proponendo le nostre idee rivoluzionarie con la stessa strenua convinzione con cui gli ex-alcolisti AA recitano la preghiera per la serenità, ma coltiviamo ambizioni creative per mercati inesistenti, persuasi che se sapremo aspettare a sufficienza (se le nostre famiglie potranno permetterselo) a un certo punto torneremo alla normalità di un mondo in cui chi lavora viene pagato per il suo lavoro.
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Una cosa che credo di essere capace di fare è collegare i puntini, diciamo.
In una forma perversa di richiamo dal testo alla vita mi sono accorto che questa cosa di collegare i puntini era uno dei passaggi su cui era imperniato il commencement speech di Steve Jobs che, all’epoca, era diventato virale inflazionando l’invito STAY HUNGRY STAY FOOLISH fino a ridurlo (se mai fosse stato qualcosa di più o di meglio) a motto slide .ppt o t-shirt Fruit of the loom da ritiro aziendale.
Steve Jobs probabilmente abita in questi momenti (che tutti attraversiamo, penso) di resistenza, di non rassegnazione alla miseria sempre come problema individuale. È nella presentazione per quell’app che fa «streamlining dei servizi per chi vuole combattere l’alopecia androgenetica», nella neolingua dei discorsi che ci scambiamo alle performance review nelle aziende che ci danno da lavorare, nell’insofferenza con cui ci domandiamo se X «non ha da lavorare?»å guardando le sue foto su Instagram, nel senso di ingiustizia che alimenta le nostre ricerche sulla famiglia di quella o quell’altra firma di quella o quell’altra rivista.
Steve Jobs abita negli spazi in cui rinunciamo a immaginare alternative radicali, per dedicarci con determinazione alla nostra personalissima scalata alla piramide Herbalife che è diventata la vita.
Sarà guardando indietro, immagino, collegando i puntini, che ci accorgeremo che non sarà servito a niente.
Ma intanto seguitemi su Instagram.
Photo credits
Copertina – David Hockney, Sun On the Pool, 1982
Ritratto di Michele Masneri – Massimo Sestini