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I tre fiumi di Jim Jarmusch. Blue Moon


La notte è comprensiva e paziente.
È eterna per chi sa aspettare e non ne ha paura. 
La notte è il luogo musicale in cui i viaggi convertono, è per Jim Jarmusch la somma di tutti i tempi e il loro annullamento.
La notte è il luogo perfetto per amare, vivere e morire, per concludere ogni percorso, a Detroit o ad Algeri. 
La notte è dove gli amanti possono sopravvivere in eterno.

Nota: questo pezzo e il libro da cui nasce sono stati scritti con un accompagnamento musicale, che è il sottofondo perfetto per la lettura, ed è disponibile su Spotify.


Quando Limina mi ha chiesto di parlare di Jim Jarmusch, sulla scia di Blue Moon, il libro che ho scritto per Bakemono Lab e uscito da poco, mi è tornata in testa la domanda che aveva accompagnato l’inizio del lavoro su quel libro. Perché Jarmusch?
Scrivere una monografia o un testo non necessariamente legato all’attualità è un’operazione che richiede, oltre alle evidenti competenze necessarie, anche uno sforzo di fantasia: non basta, almeno per me, la grandezza o l’importanza o la riconoscibilità del soggetto, serve qualcosa in più, una motivazione che renda la lettura di quel testo tempo ben speso, si spera. Di saggi su Jarmusch ne esistono non pochi, anche in lingua italiana, quindi la necessità editoriale salta, internet può facilmente supplire al bisogno enciclopedico di informazioni, quindi, di nuovo, perché? Perché Jarmusch è una persona che mi piacerebbe conoscere, perché Jarmusch non fa altro che presentarsi e farsi conoscere in ognuno dei quindici film che ha girato e quindi è giusto cercare davvero di conoscerlo, tentare perlomeno.
Altro sforzo di immaginazione critica dare un percorso che non sia quello cronologico, che mescola biografia e critica, ma usare la sua opera come una carta geo-filmica in cui isolare dei luoghi importanti, una mappa su cui segnare tappe decisive e magari provare a dare, tramite questa mappa, delle chiavi di lettura, a me stesso prima che ad altri, ché ogni buona esplorazione parte in primis da ciò che l’esploratore non sa.

Jarmusch

Di chiavi di lettura credo di averne trovate tre, anche grazie a delle idee e delle immagini fornitemi da Valentina Cestra, l’editrice del libro: la luna, un disco, la tazza di caffè, il buio come rifugio. Allora ho preso il pennarello e sulla mappa di Jarmusch ho segnato tre luoghi: la notte, la musica e il viaggio, come tre fiumi che partono dalla stessa sorgente, quella di un giovane ragazzo dell’Ohio che va a farsi una cultura a Parigi, conosce il cinema della Cinématheque e la poesia dei maledetti, poi torna a New York e mentre prova a studiare comincia a frequentare l’arte di strada, la scena off della città tra teatri improvvisati, musica sperimentale, pittura e influenze piuttosto eterogenee. Quando, studiando cinema con Laszlo Benedek (autore di Il selvaggio con Marlon Brando) conosce Nicholas Ray e ne diventa l’assistente, arrivando poi a conoscere Wim Wenders quando questi gira il film sugli ultimi giorni di vita di Ray (Lampi sull’acqua), ecco che dalla sorgente zampillano questi tre fiumi.

Jarmusch

La notte

Magari è un salutista che si sveglia alle sei del mattino, ma a vederlo, col folto capello un po’ scombinato, gli occhiali da sole e la sigaretta in bocca, Jarmusch sembra un animale notturno. Lo sono di sicuro molti dei suoi personaggi: i tre evasi di Daunbailò sono un pappone, un disc-jockey e uno sfortunato giocatore di biliardo che si perdono e si ritrovano sotto la luna della Louisiana, i tassisti che racconta da Los Angeles a Helsinki sono Taxisti di notte, il poeta di Paterson elabora le sue poesie durante i sogni notturni, lasciando il buio quasi fuori campo ma rendendo visivi suoi frutti, le parole e le immagini che genera, i poliziotti di I morti non muoiono combattono gli zombie che la notte fa emergere.
Come dice Irma Thomas in una canzone che si ascolta in Daunbailò, la notte è «il momento in cui mi piacerebbe stare, stringendoti forte». Nel cinema di perdenti leggeri e disadattati con brio di Jarmusch, la notte dà conforto a coloro che nel mondo si sono persi: pieni di personaggi stranieri, che cercano di confrontarsi con altre culture e altre lingue, che non sanno dove sono e dove vanno, i film di Jarmusch accolgono il tramonto e la luna come una dolce liberazione, perché il buio cancella i confini, gli spazi prestabiliti dalla società e permette a tutti o quasi un’espressione più libera, meno vincolata. E poi, che c’è di più bello e romantico di «vedere la luce che cambia» dalla notte all’alba, magari se le immagini sono di un maestro come Robby Müller, direttore della fotografia che ha resi preziosi molti dei primi film di Jarmusch?

Jarmusch

La musica

Prima di diventare regista, Jarmusch si guadagnava da vivere come musicista nei Del Byzanteens, gruppo no-wave newyorkese e mentre frequentava l’avanguardia artistica degli anni Settanta conobbe i migliori, o quantomeno tra i più carismatici, musicisti di quella generazione, mostri sacri come Tom Waits e Iggy Pop che a più riprese appariranno nei suoi film o figure di culto come il rapper e writer Rammellezee, strumentiste raffinate come Eszter Balint. La musica intesse la sua vita prima di intessere i film e siccome tra la vita interiore di Jarmusch e la sua espressione il limite è prossimo alla nullità, anche i suoi film pulsano di musica, spesso sono costruiti con e sulla musica, persino come la musica: Ghost Dog non è solo un film ambientato nel mondo hip-hop, pieno di musica e canzoni di quell’area culturale, ma è costruito e concepito come un disco hip-hop, pieno di strati (layer), citazioni, campionati visivi, in cui tutto rimanda a qualcos’altro ma nel remix trova la sua unità e identità. Ci sono poi due documentari che sono veri e propri monumenti a Neil Young (Year of the Horse) e Iggy and the Stooges (Gimme Danger) in cui riflette anche sullo statuto mitico e religioso del rock, ma soprattutto c’è Mystery Train, il film musicale per eccellenza del regista: ambientato a Memphis, la città del rock e del soul, di Motown e Stax, la città di Elvis il cui fantasma aleggia durante ogni scena, ogni dialogo, ogni immagine, legando tre storie e quelle dei personaggi che calpestano le ceneri di vite, credenze e amori così come calpestano quelle di un’America che non ha cura e premura del suo passato e dei suoi dei. Non è un tipo religioso Jarmusch, almeno non lo sono i suoi film, ma se crede in qualcosa, se prova fede in qualcuno è nel musicista come figura divina. Anche se poi si rivelasse un falso dio, un ciarlatano, la musica è l’unica fede che abbia senso professare.

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Il viaggio

Fin dai primi film, Jarmusch è stato sempre riconosciuto come uno dei principali reinventori del viaggio come topos narrativo del cinema americanoroad movie in cui il viaggio era un’operazione esistenziale, un movimento statico in cui provare a cercare sé stessi, in cui raffigurarsi dentro i luoghi – o meglio i non-luoghi, come le azioni dei protagonisti si riversano nei tempi morti – e gli spazi che sono costretti ad abitare, presi in una lotta mai drammatica, quasi sempre distaccata tra ribellione e adattamento. L’irrequieto hipster di Permanent Vacation (alter ego di Jarmusch come spesso i suoi personaggi maschili di viandanti) che vaga in una New York che pare post-bellica, i due ungheresi di Stranger than Paradise che cercano di capire in modi opposti chi sono nell’America di Reagan, l’impiegato di Dead Man che perde tutto, anche la vita, ma scopre il mondo, scopre il cielo, le stelle e il punto di ingresso verso un altro sé e un altro mondo, o al contrario, l’apatico Bill Murray di Broken Flowers che pur girando per gli Stati Uniti alla ricerca di un figlio sconosciuto finirà per non trovare né lui né se stesso, avvolto dal mistero come il killer di The Limits of Control (il meno compreso dei film dell’autore) che vaga per l’Europa cercando l’uomo che deve ammazzare, come in una caccia al tesoro, ma che finisce per destrutturare il senso stesso del viaggio e del cinema di Jarmusch. Fedele a una visione del mondo e del cinema libera da condizioni, anti-determinista, in cui i discorsi non debbano necessariamente portare a una conclusione, il viaggio per Jarmusch sembra non partire e non arrivare, né lineare né circolare, è un movimento immoto ed esistenziale (anche più del viaggio per Wenders, tra i suoi mentori) in cui si sposta di casa in casa, di stanza in stanza, persino di sedia in sedia lasciando il fascino esteriore del viaggio alla mente del personaggio e dello spettatore. Eppure si continua a viaggiare, a volerlo fare, perché se non si arriva da nessuna parte il viaggio è letteralmente vita.

Jarmusch

Lo sanno bene i protagonisti del film che racchiude questi tre fiumi e li fa sfociare nella summa di tutta un’opera, i due vampiri di Solo gli amanti sopravvivono, figure notturne per antonomasia che sono costrette a viaggiare da Algeri a Detroit e ritorno per poter sopravvivere, per non soccombere all’inedia culturale del mondo americano, all’invasione degli «zombie», come chiamano gli esseri umani, e alla corruzione del loro sangue, speculare a quella delle loro teste. Un musicista e un’appassionata di poesia che amano circondarsi di bellezza e che dovranno scappare dall’orrore del mondo per ritagliarsi un loro spazio, costretti ad abbandonare i loro princìpi per garantirsi un futuro: seppure i viaggi vengono messi in scena in modo anti-convenzionale, senza movimento, non sono mai davvero immobili, perché in un cinema che ama i tempi lenti, la calma, la serenità vicina allo zen, ciò che si può sentire è il lento movimento della vita, dell’anima e del pensiero. Abbandonare i punti fermi di un’esistenza può essere l’unico modo per migliorarla: così, il gesto finale dei due vampiri che ricominciano a vampirizzare gli umani, è il solo modo per salvarsi, ma anche per salvare l’umanità destinata all’auto-estinzione.

Re del cinema indipendente, capace di confrontarsi in modo radicale con gli studios e il cinema mainstream senza cedere mai a compromessi, ma al tempo stesso rimodulando di continuo il suo cinema, Jarmusch ha messo a frutto come meglio non si potrebbe, anche dal punto di vista contrattuale ed economico (possiede il final cut dei suoi film, ma soprattutto la proprietà della pellicola o del master originario), l’insegnamento del suo maestro Ray: «Non mettere mai piede a Hollywood, mai». Ha fatto sì che Hollywood mettesse piede nel suo mondo senza lasciarsi comprare, come fa Winona Ryder in Taxisti di notte quando l’agente Gena Rowlands le propone di diventare un’attrice hollywoodiana, perché non è il suo lavoro. Ecco, tornando alla domanda iniziale: perché scrivere di Jarmusch? Perché sarebbe una persona che di fronte a te per la prima volta, non ti chiederebbe: «Che lavoro fai nella vita?», ma: «Cosa ti piace della vita?».


Photo credits:
Copertina: fotogramma da Solo gli amanti sopravvivono
Ritratto di Jim Jarmusch di Larry Busacca
Locandine di: Daunbailò, Mistery Train e Taxisti di notte

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