Tre personaggi, tre luoghi e tre diverse storie da raccontare, legate tra loro da un fil rouge indissolubile: quello dell’acciaio. Il metallo della discordia, il protagonista dei dibattiti attuali che si stagliano sul panorama dei diritti umani e dello sviluppo sostenibile, in contrapposizione con il sistema produttivo più discusso degli ultimi tempi.
Più forti dell’acciaio è il lungometraggio commissionato dalla ONG “Mani Tese” alla regista Chiara Sambuchi, ora visibile in proiezioni a ingresso gratuito tra Milano e Taranto. Tra gli appuntamenti: oggi a Milano al Cinema Anteo e il 28 dicembre al Bellarmino di Taranto (maggiori informazioni al sito https://www.manitese.it/piufortidellacciaio).
Il documentario è stato prodotto grazie al progetto New Business for Good, realizzato con il contributo di AICS, Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, e supporta il programma di Mani Tese Made in Justice, dedicato alla cultura dei diritti umani e della salvaguardia ambientale in ambito aziendale e sociale.
Sessanta minuti per attraversare tre paesi: un viaggio che inizia nello stato amazzonico del Parà, in Brasile, prosegue fino all’impianto siderurgico di Taranto e termina nell’ex bacino tedesco della Ruhr, a Duisburg. Tremilaseicento secondi per raccontare tre storie, narrate da personaggi insoliti: Pixininga, un agricoltore brasiliano che lotta per la sopravvivenza dei contadini nella regione del Carajas, area ricca di ferro e altri minerali, occupata per più di metà della sua superficie dal gigante dell’estrazione mineraria Vale. Egbert, un guardiaparco del sito naturale Emscher Landschaftspark, nato dalla conversione di un enorme stabilimento siderurgico sanato a seguito della sua chiusura, a Duisburg, nel cuore del bacino della Ruhr. E, infine, Grazia, una pediatra tarantina che si batte per la chiusura dell’acciaieria della sua città, stanca di vedere i suoi pazienti ammalarsi e morire in percentuali altissime, se paragonate a quelle nazionali.
Lo scenario si apre sulla Serra dos Carajás, situata nel parco ecologico di Carajás, a Sud dello stato di Pará. Considerata la più grande miniera di ferro a cielo aperto del mondo, è gestita dalla compagnia Vale. Tristemente nota per le sue dimensioni dovute all’elevata qualità e purezza del ferro estratto, vanta anche grandi riserve di rame, nickel, oro e altri minerali rari. Da Carajás parte la ferrovia che trasporta il minerale: due interminabili binari su cui corrono vagoni che attraversano incessantemente le comunità sul suo percorso. A Piquià de Baixo, un quartiere di Açailândia, sono installate ben cinque industrie siderurgiche e una centrale a carbone che le alimenta, poiché la lavorazione del metallo richiede l’uso del carbon fossile, inesistente nelle aree circostanti. Questo il motivo della deforestazione di tale zona amazzonica, che deve lasciare spazio alla coltura degli eucalipti, piante che crescono molto rapidamente e forniscono in fretta grande quantità di materiale per la produzione del carbone vegetale. Oltre all’inquinamento provocato dalla loro combustione, gli eucalipti hanno ormai completamente inaridito il terreno e l’ecosistema, mentre le obsolete acciaierie e la centrale a carbone hanno contaminato il suolo, i corsi d’acqua e causato patologie respiratorie ai residenti, che si trovano così obbligati ad abbandonare l’area (info dal sito web www.ecologiapolitica.org).
Nel corso del documentario, Pixininga racconta delle “cittadine fantasma” e della deprivazione di gran parte dei suoi terreni attuata dalla Vale, il Moloch di Carajás, contro cui è impossibile imporsi e che gli ha “concesso il permesso” di tenere una piccola parte del suo terreno, in cui sopravvive attraverso mezzi di sussistenza. Sopravvive e resiste.
Così come a resistere è Grazia Parisi, cittadina di Taranto e dottoressa che cura le vittime dell’Ilva, soprattutto in ambito pediatrico. Ospite autorevole alla prima del documentario a Milano, esordisce con la frase lapidaria «A Taranto si muore di più». Riporta, infatti, una serie di dati sconcertanti sul tasso di mortalità – soprattutto infantile – del sito pugliese, dovuto a tumori e complicazioni riguardanti il sistema respiratorio.
Oltre alla resistenza che accomuna la comunità contadina di Carajás e le associazioni dei comitati cittadini di Taranto contro le emissioni di diossina, c’è la polvere rossa. La sua presenza ingombrante e minacciosa impregna la pellicola e la memoria sin dai primi minuti del lungometraggio. Ritorna poi a farsi sentire attraverso la voce spezzata di Grazia, che racconta le immagini apocalittiche del cosiddetto wind day, giorno in cui soffia il vento che trasporta le polveri di ferro dei parchi minerari sulla città, durante il quale i cittadini di Taranto sono prigionieri delle loro abitazioni. Altra immagine ricorrente è quella delle ciminiere degli altiforni. Si stagliano contro il cielo di Taranto come le icone mortifere delle poesie utopistiche di Ginsberg. La differenza risiede nell’utopia. Le ciminiere dell’Ilva sono reali, camini fumanti di diossina, disegnati sui fogli dei bambini del quartiere Tamburi che vedono in esse il loro destino.
Tra le due realtà dalla tinta scarlatta, si inserisce quella di Egbert, custode del sito naturale Emscher Landschaftspark, esempio di recupero sostenibile di una delle regioni storicamente più inquinate d’Europa, la Ruhr. L’ex stabilimento siderurgico, convertito in parco multifunzionale, rappresenta infatti la combinazione di patrimonio industriale e culturale, in cui la natura si è riappropriata dei propri spazi. Sono le scene di respiro, quelle che offrono una possibilità di cambiamento sostenibile, dalle tinte più fredde, ma rassicuranti.
La regia di Chiara Sambuchi è impercettibile, lascia spazio ai protagonisti, con i quali sembra integrarsi profondamente, fino a svanire. Infatti, per lei «l’idea di un film documentario nasce sempre da un incontro, da una storia personale, prima ascoltata e osservata, quindi narrata in maniera intima, restando sempre più vicina possibile al protagonista, partecipando a cuore aperto alle sue preoccupazioni, ai suoi sogni e alle sue speranze, guardando il mondo con i suoi occhi».
La percezione finale è quella dell’assenza di vincitori e di una dovuta riconciliazione con la natura. «Mi sono chiesta spesso in fase di montaggio se siano i miei protagonisti a contemplare la natura o sia lei a osservare loro. La verità risiede probabilmente in una continua osservazione reciproca (…). Quella che all’inizio del film è un’intuizione vaga diventa nel corso del documentario una certezza inossidabile. La necessità, per salvare noi e il pianeta, di cambiare rotta e modificare radicalmente il corso della filiera dell’acciaio. Subito. Senza compromessi. Su scala globale».