– Ma cosa vuol dire che hai scritto la docuserie SanPa? Hai scritto quello che dicevano gli intervistati?
– No, ovvio che no. Altrimenti sarebbe una sceneggiatura. Ma non è una fiction.
– E allora cosa hai scritto?
– L’idea, quello che volevamo raccontare, il perché…
– Okay. Hai scritto su un foglietto: «San Patrignano più Vincenzo Muccioli». Vuol dire questo scrivere un documentario?
– È tutto un po’ più articolato, ma sì, si parte da lì. Dal chiedersi se c’è una storia.
– Ah, da lì si parte. Quindi poi cosa hai scritto?
– Le domande.
– Va bene, poi?
– Le domande durante le domande. Gli autori e la regista fanno l’intervista e a seconda delle risposte, fanno altre domande.
– Vabbè, sempre domande sono, Carlo. Poi?
– Per fare le domande bisogna conoscere molto bene la storia. Quindi tocca studiarla nei minimi dettagli e da tutti i punti di vista. Poi bisogna vedere tutto il materiale d’archivio pubblico e privato, leggere gli articoli dell’epoca, i libri, tutto quel che puoi scovare, perché molte domande nasceranno da lì.
– Tipo?
– Se hai visto che hai a disposizione il primo famoso spot italiano sulla prevenzione per l’Aids e pensi che finirai per inserirlo nel montaggio, magari ad alcuni testimoni fai una domanda sulla televisione dell’epoca, su cosa guardava in famiglia quando era piccolo, magari sulla sua reazione dal divano il giorno che lo ha visto in TV.
– Che dovessi studiare per fare un documentario però era prevedibile.
– Certo, infatti non mi lamento. Anche se in parte è uno studio diverso. È una ricerca anche in ottica di racconto, alla ricerca di drammaturgia, nel tentativo di evidenziare svolte, passaggi di soglia, archi narrativi. E soprattutto significa studiare senza mai dimenticarsi quello che avviene durante lo studio, anzi: serve appuntarsi proprio il processo, perché parte di quel percorso è quello che domani ti potrebbe piacere far rivivere al futuro spettatore.
Questo inizio di dialogo è un montaggio sintetico di moltissimi scambi avuti con fratelli, parenti, amici, sconosciuti, il mio super-io ipercritico e scontento, commentatori social, la mia mamma nei due anni e mezzo di lavorazione di SanPa. Ed è sempre difficile uscirne vivi. Perché ogni documentario è un mix perfetto o magico fra estrema preparazione e totale apertura all’improvvisazione. Non puoi prevedere quasi nulla, ma devi considerare tutto.
Quasi sempre si arriva altrove dall’ipotetica meta prefissata, ma non sempre si trova l’America. A volte ci si ferma in mezzo al mare in tempesta incerti se proseguire o trovare un modo per tornare a casa e salvare almeno la Nina o la Pinta o la Santa Maria.
Nel primo appunto sul mio taccuino, quello generico che ho sempre in tasca perché ai tempi non ne avevo ancora uno dedicato a SanPa in via esclusiva, c’è un’annotazione a metà 2018: «Indagine per strada su Muccioli, Santo o Diavolo, fine delle conoscenze».
Quel giorno ero con Gianluca Neri, ipotizzando la necessità di raccontare la storia di San Patrignano, decidemmo di chiedere agli avventori di un paio di bar e ad alcuni passanti cosa pensassero di Vincenzo Muccioli. Tutti avevano un’opinione molto netta e precisa e pure un enorme bisogno di comunicarla con veemenza definitiva. La maggior parte propendeva nel definirlo «un santo salvatore», gli altri, meno ma forse più convinti, erano certi fosse l’incarnazione del Male. Ad ogni successivo tentativo di approfondimento scoprimmo che non si sa null’altro: né se è vivo o come sia morto, né se San Patrignano sia ancora esistente o attiva, né quale fosse la posta in gioco all’epoca, né gli esiti dei vari processi, né che fine avesse fatto tutta quella storia che, però, moltissimi ricordavano parecchio presente nel dibattito pubblico. Sapevano da che parte stavano loro, null’altro.
Forse perché entrambi ci occupiamo di attualità più che di archeologia o ricerche storiche, trovammo un richiamo fortissimo all’oggi. San Patrignano fu una vicenda per cui l’opinione pubblica e le istituzioni, con responsabilità anche da parte dei media, si schierarono fin da subito dalla parte della santificazione o da quella opposta, o nero o bianco, o sbaglia o è il migliore di tutti. Questa storia è paradigmatica per mostrare come il dividersi in due ottusi schieramenti di tifosi sbavanti bile e rabbia, chiudendo qualsiasi comunicazione, possibilità di dialogo, spiraglio di intesa o bene comune, fa sì che la battaglia preconcetta distrugga qualsiasi convivenza, mediazione, futuro solidale, comprensione. Nella nostra memoria di quel pomeriggio sappiamo che per un attimo SanPa ci è apparsa come la prima o più palese volta in cui accadde ciò che oggigiorno avviene quasi per ogni questione: spaccarsi in due branchi abbaianti e sordi che si vomitano addosso accuse.
Riconoscerla con una certa distanza, capire che è folle come metodo evolutivo, marcare i segnali così da allertarsi quando dovessero ripetersi, ci è sembrato sostanzialmente utile a tutti noi, oggi.
Poi motivi si sono aggiunti, precisati, apparsi.
Ho un appunto a inizio del secondo taccuino: «Possibile finale: era mio padre. Rivedere il film. Tom Hanks».
Era prima che iniziassimo le interviste, immaginavo che un possibile finale potesse essere una carrellata degli ospiti che dichiarasse «Era mio padre», perché leggendo interviste, avendo parlato con molti di loro in precedenza, questa era la sintesi che più spesso risuonava nelle loro affermazioni. «Era mio padre», come a dire: nonostante tutto, come a dire che uno i padri non se li sceglie, come dire che è comunque lui che ha partecipato a metterti al mondo, che ti ha donato una parte di sé; era mio padre, ci sono padri ottimi e padri terribili, questo era il mio.
Era una cosa condivisa fra noi autori e ci piaceva, anche per la quantità di domande che lasciava aperte ci sembrava una buona chiusa. Ma era su carta. Era nelle nostre teste. Era una delle tante ipotesi.
Poi ci sono state le interviste e, come prevedevamo, hanno cambiato tutto. Anche le parabole dei singoli personaggi si sono arricchite, i loro archi narrativi palesati. Lo sappiamo bene: una narrazione trova, se non tutta sé stessa, certamente la chiusa, durante il suo farsi. La chiusa è sempre una collaborazione fra autori e la realtà viva e vociante di tutto ciò che già si è messo in fila. La chiusa si trova, si fa trovare, si impone da sola.
L’ultimo appunto del mio ultimo taccuino recita: «Cantellicafé. Rivincita».
Per molti anni, e piacevolmente tuttora, mi hanno fermato per strada all’urlo di «Olmo!», il personaggio di una sketchcom della quale ero anche autore e che ho interpretato per sei stagioni – cameracafé – per dirmi: «Grazie, Olmo», che poi era quasi un «Grazie di essere passato da casa nostra». Perché la televisione fa quell’effetto lì, di qualcuno che ti entra in soggiorno, che ti parla mentre mangi, che tu conosci anche se lui ti conosce così così o forse niente. L’altro giorno, la data è quella in calce all’ultimo appunto, mi scrive un quarantenne sconosciuto: «Olmo, grazie, il tuo più bel regalo è stato portarmi a casa Fabio Cantelli. Io lo vorrei in salotto o all’ingresso di ogni palazzo. Lì, che si pettina i capelli con una mano e ti spiega la vita».
«Ho trovato l’introvabile sotto la pelle».
È uno dei miei appunti che preferisco, eravamo in piena lavorazione, già in fase di riprese e io a metà del terzo taccuino, tutta la troupe di stanza a Rimini, parecchie interviste alle spalle, era il 23 ottobre 2019.
Quel giorno lo ricordo, eravamo alla biblioteca di Coriano che si vede alle spalle di Paolo Severi, che stavamo intervistando. Nelle pause mi aggiro fra gli scaffali alla ricerca di un libro di un ragazzo che è stato a San Patrignano che è per me introvabile ovunque, da più di sei mesi, infatti son sicuro che non lo troverò. E invece, non so come, lo trovo. Lo leggo quella notte d’un fiato e vengo trapassato. La mattina dico agli altri che Fabio Cantelli, l’autore di La quiete sotto la pelle, deve assolutamente essere intervistato, per il modo in cui pensa e alcune cose che dice. Lo chiamo, è a Torino, lo prego di mettersi su un treno e raggiungerci a Rimini al più presto.
Non racconto questo per prendermi i meriti – è stato l’ideatore Gianluca Neri a parlarne per primo in un’intervista – ma perché non posso non pensarci tutte le volte, e non sono poche, che sento dire «Cantelli è il protagonista. Senza di lui…». Senza di lui, cosa? Il documentario non ci sarebbe? Questo mi chiedo e mi sento chiedere.
– Certo che ci sarebbe.
– Però è grazie a lui che è così.
– Grazie a un insieme di fattori, fra cui lui. Lui da solo non è SanPa.
– Ma quindi è solo un colpo di fortuna?
Non lo so. La fortuna intesa come caso c’entra sempre.
Però so che durante quei giorni nelle discussioni fra gli autori e la regista in cui ci chiedevamo se il fatto che il negozio di toelettatura per cani di Mini si trovasse proprio all’angolo con via Vincenzo Muccioli potesse essere un colpo di scena o forse più una stupida coincidenza, o se non sarebbe stato bello far incontrare i personaggi nella nebbia di Rimini come in un film di Fellini, ci era capitato di definire non esaustive o reticenti alcune risposte date dai testimoni nelle interviste già registrate.
Comprendevamo le loro ragioni, lungi da noi forzarli, ben sappiamo che un conto è parlare al bar o nella pausa pranzo ma è un altro a telecamere accese dopo «Azione!». Però ci spiaceva, eravamo abitati dalla sensazione che certe cose che ci sembrava di aver capito non le avremmo potute raccontare nel profondo. E ci ordinammo chiaramente: ci manca ancora qualcuno, continuiamo a cercare.
Quindi senza Cantelli la docuserie sarebbe certamente stata diversa, ma chissà chi altri avremmo potuto trovare. È il bello del documentare. Stai documentando, non puoi decidere quello che accadrà. Ma tutto ciò che accade modifica inevitabilmente ciò che stai cercando di tenere sotto controllo.
Come nella vita.
Credits immagini: Netflix Italia