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Il poeta che impara dal ferro e di sé. L’ultima intervista di Franco Loi



Lunedì Franco Loi se ne è andato così come aveva vissuto, senza fare crepitio, a distanza di qualche settimana dalla scomparsa dell’amata Silvana. A darmi la notizia è stato Bruno, il pittore amico in comune che un anno fa ci ha fatti conoscere sapendo che amavo la poesia di Loi soprattutto dopo aver letto Isman nei primi anni zero. Il pensiero è subito andato a Franco, che in qualche modo in quel dicembre 2019 è stato un faro – ma lui avrebbe sicuramente usato la parola angelo – per questa rivista che era nata da pochissimi giorni e che si muoveva inquieta tra le vie di Milano alla ricerca di un’identità e di una voce.
In quel vagare curioso, la porta di Franco divenne un approdo quasi naturale, in quel pomeriggio di pioggia torrenziale nel quale con Bruno Zoppetti e Silvano Richini fummo accolti da Franco e da Silvana nel loro piccolo appartamento per una videointervista sulla sua vita e la sua opera. A colpirmi, in tanti anni di incontri e interviste, fu subito la grande tenerezza di quest’uomo quasi novantenne, che con un grande sorriso continuava a scrutarmi nonostante la sua quasi totale cecità; era cieco ma ci vedeva benissimo, Franco. Dopo qualche parola di rito per spiegare il senso dell’intervista, mi si avvicinò e mi disse che avevo lo sguardo di un bambino. Me lo ripeté più volte quel giorno, forse per farmi un dono, forse perché tra noi scattò una simpatia naturale, silenziosa.
Si sedette sul divano mentre Silvano collegava la videocamera e i microfoni; Silvana si divideva premurosa tra il salotto e la cucina, mentre Meo, il gatto anziano e magrissimo, con fare svogliato lo raggiunse subito sul divano e iniziò a dormirgli accanto, dove sarebbe rimasto fino al termine dell’intervista. Sarebbe dovuta essere una breve chiacchierata per non fare stancare Franco, ma fu l’inizio di un lungo racconto che durò oltre due ore, dalla prima poesia alla vecchiaia, passando per il senso del sacro, le ideologie che ha visto attraversare il Novecento, i cambiamenti della sua Milano, le speranze per il futuro delle nuove generazioni.
Era felice quel giorno, Franco. Gli scaffali dietro al divano erano quasi vuoti, mi disse che aveva donato tutti i suoi volumi a una fondazione perché in casa ingombravano. C’erano pochissimi libri, ricordo il suo amato Dante, e qualche classico abbandonato. Ci raccontò molto, in quella che forse ad oggi è l’ultima intervista video che ha rilasciato e che dunque assume i toni di un testamento poetico di rara sensibilità e tenerezza, nel quale risaltano i momenti nei quali Franco declama la sua poesia e, incredibilmente, canta Oh mia bela Madunina.

Franco


Pochi giorni dopo avrei avuto la fortuna di passare un’altra giornata con lui. L’11 gennaio 2020 abbiamo fatto un viaggio verso la mostra di Bruno dal titolo “Aria della memoria”, a Lugano. Ho ricordi bellissimi di quella giornata; Franco, avvolto in un grosso giubbino, che all’autogrill commenta sdegnato il costo dei caffè in Svizzera, il modo in cui mi stringeva la mano mentre camminavamo, e ancora una volta la sua voglia di cantare mentre lungo il tragitto in macchina intonava i versi anarchici di Addio Lugano bella: “Cacciati senza tregua/andrem di terra in terra/a predicar la pace ed a bandir la guerra/la pace tra gli oppressi, la guerra agli oppressor”. Quel pomeriggio, nella biblioteca di Lugano, l’ho intervistato davanti al pubblico: Franco mi ha raccontato perché la letteratura ha permeato la sua vita, e ha infine voluto recitare ancora una volta la poesia che forse sentiva in assoluto più aderente a se stesso, alla sua vita e alla sua visione del mondo. Rimanemmo tutti muti, e poi scoppiò un applauso incredibile, tutti si alzarono, l’emozione fu fortissima. Mentre lui ancora una volta ci sorrise, e noi ricambiammo quel sorriso inconsapevoli che non l’avremmo più rivisto, se non in questa preziosa intervista che oggi vi doniamo chiedendovi di custodirla con cura, come Franco avrebbe voluto.

Poeta, dicono d’uomo innamorato,
poeta, dicono, a chi piange la sera
e la mattina s’alza disperato.
Ma anche al rallegrarsi si dice poeta,
a chi sa ben parlare, bere e mangiare,
e a quello che canta le donne, e ancora poeta
dicono la gioventù che sa meravigliarsi.
Ma quelli che fanno morire con la poesia
legata dentro, chiusa a chiave, e fanno annegare
nel gran libro della vita… Avemaria!
Non sono poeti, non sono uomini da onorare.
Li chiamano massa e ciao, e così sia.

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