Come un lungo piano sequenza, come un paesaggio rarefatto, come una composizione di oggetti senza alcuna necessaria profondità prospettica, così si apre e assume forma il nuovo romanzo di Alessio Torino, Al centro del mondo (Mondadori).
Una zappa, una casa, un portone, un fucile, a fianco a questi oggetti – veri e propri elementi icastici – compaiono dei personaggi: Damiano Bacciardi, nonna Adele, zio Vince detto il Gorilla e Anna. Una linea di sguardi tutti alla medesima altezza, non esiste infatti nell’occhio del narratore una preferenza, una predilezione verso qualcuno di loro. Tutto si muove allineato, tutto resta come attraversato in superficie dal medesimo sguardo di benevola e attenta devozione. Come può succedere – anche se sempre più di rado – solo in letteratura quando la scrittura si fa visione compiuta, il romanzo di Alessio Torino riesce a unire l’immaginario possibile di Andrej Tarkovskij con quello realista e al tempo stesso materico e mistico di Ermanno Olmi.
Ruotando attorno a una vecchia casa di campagna semi diroccata e semi abitata, la vicenda mette al centro un’inedita composizione di ultimi del mondo. Contadini fuori tempo massimo in lotta con una contemporaneità che pur combattendo e osteggiando esplicitamente sembrano in verità rappresentare meglio di chi ostenta una modernità metropolitana priva di realtà – tanto più nel panorama italiano e nella sua lingua – macchiettizzando e riducendo il cambiamento sociale evidente e in corso a mera narrativa d’attualità. Una perdita del presente che passa attraverso la rimozione dell’essenza storica di un territorio che in questo caso Alessio Torino riassume nelle figure contadine, componenti “danneggiati” di un tempo tradito, ma tuttora pulsante.
Una dinamica famigliare rarefatta che si compone di pochissime parole e di molti sguardi, un incedere sbilenco, storto che unisce l’essere fuori dal mondo con l’essere stati un tempo i primi del mondo.
Uomini e donne legati alla terra come alla storia, ma privi della medesima consapevolezza: come se fossero loro stessi la terra rivoltata che a ogni stagione ripete uguale la propria funzione, ma dimentica di sé ogni cosa. La qualità rara e sottile del romanzo sta però nel tentativo di mostrare l’inadeguatezza di chi è espulso dal tempo e dalla storia e mostra su di sé i segni inequivocabili di un errore sostanziale, ma anche formale: la morale confusa, l’epica che si scontra con il quotidiano, la religione che diviene puro vezzo e rassicurazione.
Nonostante tutto però il territorio resiste e diviene quello profondo e ancestrale della mistica contadina, su cui Torino non calca mai la mano, anzi con pudore si limita a delineare e a sagomare senza invadere, ma restituendo un equilibrio che fa della propria fragilità il suo elemento di splendore. Una lucentezza che attraversa le pagine in maniera imprevista e certamente sorprendente. La narrazione come sedotta da una forza centripeta si auto definisce pagina per pagina offrendo al lettore un raro e finalmente possibile incanto.
La forza di Al centro del mondo sta così tutta nell’onestà precisa di uno scrittore che non nega l’origine narrativa e semplice, se vogliamo – anche se solo apparentemente -, della propria poetica, ma la mette al servizio di una storia tetra a tratti realmente nera, creando un bilanciamento originalissimo e personale che fa del suo romanzo un punto d’incontro raro tra come si scrive e come si racconta una storia.
Evitando scorciatoie, facili soluzioni e soprattutto evitando di mimetizzare il proprio stile riducendolo ad una parodia sintetica forse più gestibile anche per il lettore meno accorto, ma sicuramente meno incisiva, Torino non solo si assume un rischio, ovvero quello di spingersi anche stilisticamente in un territorio solitario, ma ottiene in cambio un’originalità sostanziale e una non banale e ovvia potenza nel racconto. Un testo che non può che offrire al lettore – e in questo caso a qualunque lettore – il senso primario ed essenziale di una lettura fortemente trasformativa.
In tal senso ricorda molto anche il romanzo di Raffaele Riba, La custodia dei cieli profondi (66THAND2ND), sempre campagna e sempre una casa al centro delle dinamiche del discorso. La ricerca dei luoghi d’origine, la necessità di ripercorrere strade native come luoghi che vanno totalmente reinterpretati prima che tutto scada, prima che l’essenza che è storia e lingua insieme di un luogo svanisca dalla memoria.
Storia agreste di una casa, Villa la croce e di una famiglia entrambe strette come due elementi essenziali paritari in un dialogo tenuto con forza e decisione da Damiano che tenta in ogni modo di mantenere intatto un equilibrio sempre pronto a frantumarsi, spogliando da un lato la casa e dall’altro riducendo quel che resta di contadino e di familiare in un triste epilogo border line in cui ogni elemento, ogni oggetto, ogni strumento finisce con lo spezzarsi e rendersi inutilizzabile e irriconoscibile.
Romanzo magico capace di mischiare sogni e visioni, Al centro del mondo racconta i luoghi della nostra esistenza e la loro irriducibile memoria che vive e incombe sul nostro presente mutandolo con la forza del passato prima ancora che con la superficiale illusione di un futuro privo di radici. Un romanzo lucido e mistico, una narrazione cupa eppure capace di offrire un orizzonte di luce accecante.