Trentacinque anni fa ci lasciava una donna i cui fantasmi avrebbero ispirato narrazioni che l’avrebbero resa una delle più grandi autrici del Novecento. In realtà vorrei scrivere la più grande, lo ammetto, se non fosse che non voglio presuntuosamente arrogarmi il diritto di prendere da sola una tale decisione di universale rilevanza, connesso al fatto che sarei palesemente di parte. Perché io nella narrativa di Elsa Morante mi sono persa, poi mi ci sono ritrovata, e immagino che continuerò a farlo per tutta la vita.
Perché i mondi nei quali Morante è in grado di proiettare i suoi lettori non possiedono vie d’uscita. Inchiodano al suolo per la loro spiazzante verità, e si scopre se stessi a chiedersi come tutto questo sia possibile. Mondi surreali di fantasmi provenienti da altre generazioni, di fantasticherie infantili, di omosessualità latenti, di complessi di Edipo malcelati, di traumi bellici, di viaggi spaziali che fungono da pretesto per salti temporali. Ogni narrazione morantiana è un universo a sé stante, con le sue proprie leggi, talmente coerenti e lucide e dalla portata talmente veritiera da non rendere più chiaro nel lettore quale sia il confine tra ciò che è reale e ciò che reale non è. Da rendere la cosa più naturale del mondo lasciarsi ingannare dalla narrazione inattendibile di Elisa di Menzogna e sortilegio (Einaudi, 1948), dalle fantasticherie e avventure del giovane Arturo de L’isola di Arturo (Einaudi, 1957), dalla cronaca de La Storia (Einaudi, 1974), dal viaggio di Manuel e dalle sue ricerche in Aracoeli (Einaudi, 1982). E ancora, dalle sfumature irreali dei racconti radicati nel reale de Il gioco segreto (Garzanti, 1941) e Lo scialle andaluso (Einaudi, 1963), dai componimenti di Alibi (Longanesi, 1958) e Il mondo salvato dai ragazzini (Einaudi, 1968).
Del resto, Elsa Morante ha reso, consapevolmente ma senza averlo scelto, la sua stessa vita una tra le sue opere d’arti. Donna dalle grandi passioni, impetuose e irrefrenabili; giudicata da alcuni bellissima, da altri per nulla: d’altra parte, può mai non essere tristemente rilevante per una donna il suo grado di avvenenza estetica, a prescindere dal suo valore, trentacinque anni fa come oggi? Oltre alla bellezza esteriore, tra i giudizi sulla sua personalità pervenutici difficilmente si riscontra unità di pensiero. «Anarchica […] si può pensare che fosse irrazionale e bizzarra, ma in un modo talmente poetico e fiabesco che non si poteva non perdonarla» si è espressa Dacia Maraini[1]: un giudizio ancora più rilevante se si pensa che Maraini avrebbe potuto vedere Morante come una “rivale” in amore, essendo stata la storica compagna di Alberto Moravia a seguito della di lui separazione con la nostra. Completamente immersa in un altro mondo, un mondo dal quale faceva capolino unicamente per scrivere le sue opere e per poco altro, un mondo di sfocature e elementi fiabeschi, ma non per questo meno reale del nostro. René De Ceccatty ha tentato di delineare tutto questo nella biografia di recente pubblicazione Elsa Morante. Una vita per la letteratura (edita Neri Pozza e arricchito dal contributo introduttivo e dalla traduzione di Sandra Petrignani): un lavoro complesso, come ricca di contraddizioni è stata l’intera vita dell’autrice.
Per alcuni è stata principalmente “Elsa Moravia”, come lei non ha mai accettato di lasciarsi chiamare, neanche nel dorato periodo delle uscite pubbliche della celebre coppia Morante-Moravia. Si potrebbe malignamente asserire che l’allora giovane donna abbia trovato in questo matrimonio un interesse particolare, ma la verità sarebbe un’altra. Per quanto sia indubbio che la stabilità economica del marito e le sue conoscenze le abbiano permesso di dedicarsi esclusivamente alla scrittura senza pensare al proprio sostentamento, oltre che di inserirsi in un reticolato tale da portare avanti una vita mondana da scrittrice anche nella Roma di metà secolo, peccherebbe di presunzione chi pensasse di poter ridurre un rapporto così complesso come quello esistito tra i due coniugi a un mero interesse economico-sociale. Per ben esplicare ciò che erano Elsa Morante e Alberto Moravia servirebbe una trattazione decisamente più lunga e approfondita (che già esiste, tra l’altro).
Dalle relazioni extra-coniugali burrascose, Elsa Morante ha provato davvero soltanto due passioni nel corso della sua vita, passioni che l’hanno divorata e consumata e che l’hanno delusa profondamente. Il suo fuoco interiore ha ricevuto alimento da uomini così differenti tra di loro, ma De Ceccatty ha lungamente analizzato il comune denominatore tra queste due vampe: l’omosessualità degli oggetti dei suoi amori, ovvero Luchino Visconti e Bill Morrow. Il suicidio di quest’ultimo, giovane pittore americano, il cui componimento d’addio compare anche in Alibi, fu uno degli eventi maggiormente segnanti nel corso dell’esistenza di Elsa Morante. Ma, come scrive ancora René De Ceccatty, «mai queste delusioni si trasformarono in lei in disillusione. Anzi, tutto il contrario. Servivano semmai a confermarla nel grande progetto letterario di elaborare un mondo parallelo, che contenesse i suoi fantasmi»[2].
E la sua vita non si limita a questo. Ci sarebbe così tanto da dire, per descrivere ciò che l’esistenza di Elsa Morante è stata: servirebbe ancora parlare del rapporto con i suoi conoscenti e con la sua cerchia, come del complesso rapporto con Pier Paolo Pasolini. Servirebbe parlare dei suoi gatti, parte integrante della sua vita come poco altro al mondo; servirebbe parlare dei suoi poeti del cuore, come quel Rimbaud che ha ispirato il nome del suo Arturo, ma ancora Saba, Penna. Servirebbe parlare della sua musica, che arricchiva il suo studio e la sua vita, della passione per il cinema, ma ancora, del modo in cui stendeva i suoi manoscritti, dei suoi viaggi. Ogni elemento componente la sua vita trasudava della sua personalità, perché tutto è stata Elsa Morante, tutto: una strega, una donna lunatica, una scrittrice piena di difetti e ancora molto altro, ma mai una personalità placida e scontata.
Trentacinque anni fa ci lasciava una donna dall’animo impareggiabile e inenarrabile. E ci si sente quasi di farle un torto a mettere così in ribalta la sua vita, quando il suo volere era così marcatamente contrastante con tutta questa attenzione: «La vita privata di uno scrittore è pettegolezzo; e i pettegolezzi, chiunque riguardino, mi offendono» aveva dichiarato in un’intervista del 1972 a Enzo Siciliano, affermazione ormai dal carattere proverbiale riguardo alle sue scelte di vita. Elsa Morante avrebbe voluto che il suo valore venisse estrapolato unicamente dalla sua narrativa, volontà sostenuta anche dall’esiguo numero di interviste rilasciate in vita.
Non so se avrebbe avuto voglia di perdonarci per quella che sarebbe stata ed è una palese violazione del suo terreno privato. Anzi, dall’idea che mi sono fatta di lei e del suo difficile carattere tramite gli scritti che hanno come tema la sua vita, temo proprio che il perdono non lo avremmo ottenuto: ed è così paradossale che io abbia coscienza di tutto questo ancora una volta grazie alle ennesime incursioni che trasgrediscono la sua volontà. Eppure io penso che interessarsi alla sua esistenza terrena non possa fare altro che generare ancor più voglia di conoscerla più a fondo, intimamente, di leggerla senza sosta, in un circolo che si autoalimenta, tanto da rammaricarsi per l’impossibilità di conoscerla davvero, seppur traendo gioia dall’essere almeno incappati nella sua penna indimenticabile in questa vita.
Io non so se potrai mai perdonarci. Ma noi saremo sempre grati per averti avuta tra noi, Elsa.
[1] Renè De Ceccatty, Elsa Morante. Una vita per la letteratura, Neri Pozza Editore, Vicenza 2020, 218
[2] Ibidem, 213