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Una casa abitata dalla catastrofe. Il contagio interiorizzato

Sul finire dello scorso inverno – durante il lockdown – ho cominciato ad avere alcune idee fisse. Forse era colpa dei mesi in apnea nelle nostre case mentre fuori impazzava un evento senza precedenti. Se non è la prima volta, infatti, che l’umanità deve misurarsi con un’epidemia, non era mai accaduto che il mondo decidesse di fermarsi per arginare quest’ultima. Il virus non ci costringe solo al distanziamento fisico e sociale, ma è divisivo perché ciascuno di noi è portatore di una diversa visione, polarizzata nei due estremi: “sono disposto a rinunciare a tutto o quasi per scongiurare il contagio” contro il “in attesa di un vaccino sono pronto ad assumermi dei rischi – incluso quello di contrarre il virus, affinché la mia vita non debba cambiare troppo”. Chi pensa questo è forse più propenso a una convivenza col covid – nei limiti del possibile – e ad evitare misure drastiche, come invece soprattutto in Italia abbiamo messo in atto.
Mi è tornato in mente il periodo in cui per uscire di casa, anche solo per fare la spesa o il giro dell’isolato, c’era bisogno di portare con sé un modulo di autocertificazione, la cui versione non era mai quella definitiva e cambiava ogni volta. Stavo restando a casa per il cosiddetto bene comune eppure non potevo fare a meno di sentirmi agli arresti domiciliari, il che mi sembrava quasi peggio del contrarre il virus. I nervi di tutti erano a fior di pelle ed era facile che un tweet o un commento di troppo generassero una shitstorm e una valanga di insulti. Come ha ricordato la filosofa Michela Marzano, il covid-19 ha posto l’umanità dinanzi a quelli che sono definiti “dilemmi morali”, ovvero non esiste una soluzione ottimale, ma tutte rischiano di penalizzare qualcuno o qualcosa.

Molte persone dicevano di non riuscire a leggere, nonostante tutto quel tempo a disposizione. Quanto a me ci riuscivo, ma per lo più ho preferito tenermi alla larga da testi pandemici o che presagivano, in tempi non sospetti, lo scenario in cui eravamo immersi. Mi sono limitata all’instant book di Paolo Giordano Nel contagio (Einaudi), nel tentativo di abbracciare una visione diversa delle cose, più matematica e scientifica rispetto alla mia, egoisticamente concentrata solo sulle rinunce che ero chiamata a fare. Poi ho preferito farmi portare altrove dai romanzi, accantonando alcuni testi dedicati a quanto ci era appena successo che uscivano nel frattempo. Ho provato a dimenticare.

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Solo alcuni mesi dopo, in una spiaggia non meno affollata degli anni precedenti, dove sembrava che niente fosse mai accaduto, leggevo Nel mondo a venire di Ben Lerner , un titolo in mio possesso dall’anno di uscita in Italia (nel 2015 per Sellerio con la traduzione di Martina Testa), ma la cui lettura avevo sempre rimandata. In più punti, l’autore fa riferimento al cambiamento climatico e ai rischi ad esso associati. Al centro dell’esile trama, c’è un’inondazione attesa nella città di New York che il protagonista si prepara a fronteggiare facendo rifornimento al supermercato e chiudendosi in casa. L’atmosfera da fine del mondo mi ha subito riportata col pensiero alle misure di contenimento della pandemia, agli scaffali dei supermercati presi d’assalto, alle strade deserte e al senso di angoscia. Ormai avevo interiorizzato il contagio, la paura di quest’ultimo era dentro di me e potevo scorgerne le sensazioni ovunque, anche in un testo che non ne parlava direttamente. Con questa consapevolezza ho fatto un passo indietro, e ho avuto finalmente il coraggio di aprire due libri pubblicati entrambi nel mese di maggio e riferiti alla pandemia più o meno in maniera esplicita.

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Proprio quando chiuderci in casa tornava a sembrarci l’unica alternativa possibile, con un semi-lockdown e nuovi coprifuoco, sfogliavo Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani (minimum fax). Gianluca Didino pone in risalto la condizione ontologica che ci troviamo a fronteggiare: ubiqui e iperconnessi, allo stesso tempo in ogni luogo e in nessuno, costretti a cambiare paese in cerca di lavoro e di futuro. Attraverso molteplici riferimenti, l’autore prova a chiedersi cosa succede quando – per usare lo slogan di Greta Thunberg – la nostra casa va in fiamme, ed evidenzia quanto il confine tra l’avere una casa e non averla, o averne una inospitale, sia molto più sottile di quanto sembri.
E se la nostra fosse ormai una casa abitata dalla catastrofe? Mi sono chiesta questo, addentrandomi nel secondo testo, ovvero Trilogia della catastrofe. Prima durante e dopo la fine del mondo (effequ), in cui tre saggi firmati da Emanuela Carbé, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa s’interrogano su tre diversi momenti il cui esito finale resta lo stesso. Esiste una questione filosofica centrale che tutti noi dovremmo porci, ed è: a quanto siamo disposti a rinunciare per non ammalarci? A cosa per non morire? E se i negazionisti non stessero negando l’esistenza del virus quanto affermando la loro volontà di non volersi sottrarre ad esso ad ogni costo? La morte – in riferimento alla pandemia e non solo – va gestita e prima ancora va contemplata. Già nel 1975, in tempi non sospetti, lo storico della famiglia e dei costumi sociali Philippe Ariès dedicava uno dei capitoli di Storia della morte in Occidente. Dal Medioevo ai nostri giorni (Rizzoli, traduzione di Simona Vigezzi) alle forme di occultamento della morte, che diventa così proibita, qualcosa da evitare a qualunque costo. Allora forse è giunto il momento che un risveglio di massa sia costruito – come suggerisce il titolo del contributo di La Forgia – con consapevolezza e coraggio.

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