Ciò che può essere definito “felicità” è difficilmente catalogabile in raffigurazioni dai bordi netti e precisamente delineati. E se è vero che quella reale è data da un attimo, da epifanici momenti tanto intensi e consapevoli quanto fugaci, allora forse si può riuscire a comprendere perché la “gente” descritta da Gustafsson sia definibile con un tale appellativo, “felice”.
La raccolta Storie di gente felice, pubblicata per la prima volta in Svezia nel 1981 ma tradotta in italiano da Carmen Giorgetti Cima ed edita da Iperborea solo nel corrente anno, è composta da dieci racconti dal macrotesto solidamente strutturato e attentamente ricercato: oltre ai fili rossi tematici che si possono perseguire trasversalmente analizzando tutta la raccolta, tra tutti quello della ricerca esistenzialista, saltano agli occhi dei legami interni che fanno sì che la lettura delle storie, per quanto diverse tra loro, non appaia mai realmente frammentata agli occhi del lettore ma scorra in maniera unitaria.
Il paratesto, con la sua copertina dai toni armonici e tranquillizzanti, può in realtà trarre in inganno: di felicità modernamente intesa qui c’è ben poco. Niente successi grandiosi, niente lieti fine, niente coronamenti di obiettivi perseguiti per lungo tempo: niente di ciò che, in un mondo consumista, possa essere definito un momento felice, perché qui la felicità non ha niente a che vedere con la materialità. Eppure, a lettura conclusa, pur conscio di non aver letto niente in relazione con l’intensità emozionale poco durevole che comunemente si riconosce con l’“essere felici” nel XXI secolo, difficilmente si riesce a togliersi di mente che forse i personaggi delineati, per la durata di qualche breve sprazzo e in un modo molto personale, felici lo sono davvero.
Se è pur vero che Lars Gustafsson è stato definito “Borges del Nord” per una serie di coincidenze tematiche con il grande autore argentino, spesso i racconti dell’autore svedese sono tutt’altro che onirici e surreali, per quanto l’elemento del non-reale non possa mai passare sotto silenzio: del resto, basti pensare che il secondo racconto della raccolta, Le quattro ferrovie di Iserlohn, termina con un ambiguo “qui finisce il nostro racconto impossibile”. Eppure le scene narrate sono talmente reali, pur nei loro tratti talvolta poco verosimili.
Perché reale non è sinonimo di verosimile, e ciò che in un racconto risulta fortemente veritiero potrebbe essere totalmente inverosimile in un contesto di possibilità oggettiva. Non sempre è chiaro ciò che è posizionato sul piano della realtà e sul piano del sogno: le due dimensioni si intersecano e si confondono, senza mai però generare confusioni o immagini caotiche. La logica che le accosta in quei microcosmi che sono i racconti è sempre a tal punto stringente da non creare mai contraddizione. La cifra dell’ambiguità ben si coniuga, poi, con le riflessioni esistenziali che accompagnano come una retta parallela ogni pagina, con una costante e (più o meno) velata presenza, mai troppo preponderante.
«Nessuno sa che cosa sia un essere umano. Perché nessuno ha mai visto un essere umano dal di fuori». E forse, in realtà, non sembra neanche essere tanto rilevante scoprirlo, perché tutto ciò che è esterno è un prodotto, il prodotto di un mondo globalizzato, privato della sua specificità spaziale. Ed è, ad esempio, grazie a questa riflessione che può nascere un parallelismo tra una qualsiasi ragazza americana, designata in maniera abbastanza sprezzante dal narratore del racconto L’arte di sopravvivere a novembre, e re Ludwig II di Baviera, senza che tutto ciò risulti assurdo. Perché quest’ultimo è un personaggio che «era ingabbiato nell’immagine di uno stile di vita, prigioniero dell’idea comune di identità» e che per questo «non ha mai avuto la possibilità di entrare nella sua propria vita», ne ha sempre vissuto all’esterno.
È allora che si comprende come l’uomo coincida con il proprio interno, «quella tenebra che è la sola cosa personale dell’essere umano», mai con l’esteriorità. È solo che tutti, in fin dei conti, abbiamo bisogno di un modo di sopravvivere a novembre, come recita il titolo. E questo modo può essere il celarsi dietro al lusso più sfrenato per non percepire le proprie mancanze interiori, può essere prendersi cura del proprio corpo nuotando o correndo oppure chissà cos’altro.
Ma cos’è un corpo? Non molto. Un involucro, il contenente di qualcosa. Diventa chiaro che la risposta di Gustafsson alla domanda “che cos’è un essere umano?” non può essere in nessun caso il corpo. Anche perchè «un corpo era qualcosa d’altro. Chiunque poteva prendersi un corpo. Chiunque poteva penetrare in un altro corpo». Ingrid Basso, nella postfazione, avanza l’ipotesi che la risposta reale a questa domanda sia «l’uomo è possibilità», quindi che l’essere umano sia costituito dall’insieme delle direzioni che può prendere, da ciò che egli stesso, essere umano, è in potenza, non in atto.
«Il corpo era la propria fortezza, il proprio territorio personale contro un mondo esterno essenzialmente indifferente […]. Ma il corpo era ambiguo: non era solo fortezza contro il mondo esterno, era anche la prima e più immediata forma di mondo esterno che s’incontrava. L’unica che si potesse controllare. E l’unica che si potesse perdere. Il corpo era l’unica area del mondo dove dominava l’ambiguità. Per questo bisognava correre.»
Gradualmente, poi, si assiste al sistematico smantellamento delle certezze fisiche e materiali, a un dissolvimento delle capacità linguistiche dei personaggi. Si trovano malattie mentali, come in La Grandezza colpisce dove vuole o in L’uccello nel petto, come se una dissonanza con la propria fisicità corporea possa essere il giusto modo per affrontare la realtà. Contemporaneamente, si osserva un creato designato come maligno, un mondo che cambia e si trasforma, si aliena. La grande America industrializzata e consumistica, più e più volte citata in tutti i racconti, diventa simbolo e parallelo di una percezione di estraneità dal reale io.
«Tutto il potere del mondo non si basava forse sulla stessa, grande menzogna: che il senso delle nostre vite si trovi al di fuori di noi? Ma se invece il senso non può trovarsi che dentro di noi, in quel buio che è il nostro stesso io, al di là di tutte le trappole morali, allora naturalmente non possiamo che rimanere per sempre sconosciuti a noi stessi.»
La chiusura della raccolta è data da una dissolvenza, non da un’immagine netta: risposte definitive, di fatto, non ce ne sono. Il linguaggio umano non è in grado di rendere giustizia alle verità che forse qualcuno vorrebbe tentare di raggiungere, ove quel qualcuno non è certamente Lars Gustafsson. Si può tentare di evocare la realtà con il simbolo, il vago, non di raffigurarla né tantomeno si può pretendere di poter rappresentare in maniera nettamente delineata l’indistinto.
Ma allora da cosa è data, precisamente, la felicità degli individui descritti? Forse da un momentaneo e consapevole straniamento dalla realtà, da un breve, impercettibile esternamente ma cruciale attimo di realizzazione. E del resto, non si può far altro che rimanere con la percezione che Storie di gente felice volesse solo cospargere il capo dei propri lettori di domande, ma mai di risposte.