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Ku ku ru ku Ku-ndera. Il corpo, l’essenza, il cuore del teatro

Un po’ mi manca. Anzi mi manca moltissimo. Il corpo, il corpo del pubblico, quello fatto da tanti corpi tutti insieme, quando stavamo a teatro seduti vicini e ancora ci potevamo toccare, sentire come andava il respiro di chi ci stava accanto, il pulsare del cuore. Non è una questione sentimentale, è concreta, materiale, fisica, qualcosa che è ancora troppo poco studiata e difficile da raccontare: le cellule del nostro corpo che entrano in vibrazione con le cellule degli altri corpi presenti in sala e con le cellule di chi è sul palco. Io spesso sono quella sul palco, e, quando sono lì, tutto questo lo sento, eccome. Un vortice che dalla platea sale e mi attraversa. Si va a teatro e si fa teatro per questo: per partecipare a questa danza, a questa risonanza. A questa unità che in certi luoghi, in certe circostanze può diventare “cosmica”. Cosmica…

Scrivo appena tornata da un breve viaggio che mi sono regalata contro tutto e contro tutti quelli che mi dicevano: « …E il tampone, e se c’è uno con la febbre sull’aereo, e se ti tengono là in quarantena e se ti saltano gli spettacoli, e se… e se… di questi tempi, mah, se fossi in te non partirei» , e allora, forse proprio per questo, sono partita. Ora sono ancora carica delle immagini dei teatri di Delfi, di Epidauro, di Dioniso, ancora piena di felicità: per me, dopo più di trentacinque anni di teatro, vedere dal vivo per la prima volta quei luoghi evocati e immaginati per tutta una vita è stata un’esperienza mistica, cioè un’esperienza corporea profonda. Certo, una tragedia per il turismo: pochissime le persone a visitare quei posti, nessun italiano; ma un vero dono per me che mi sono trovata da sola in mezzo ai belati delle capre nelle gole di Delfi, sola a piedi nudi sui gradini di pietra di Epidauro. Sempre spettinata da un vento secco, potente, che, portava voci da chissà quale tempo, mi risvegliava e, accarezzandomi, semplicemente, mi generava.

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Il Teatro di Epidauro

Nei libri vedici si narra che, all’inizio del mondo, i soffi vitali dell’origine (Venti? Nebulose di gas? Vibrazioni?) si condensarono e generarono i rishi, le prime creature, i poeti-cantori. Quelle prime creature senzienti nate dai soffi e capaci di captarne le voci, le tradussero in inni che creano il mondo, i Veda, e perciò furono poeti, perché poiesis vuol dire fare, creare. Ma non finisce qui: una volta emersi dai soffi, il primo desiderio di quei veggenti fu di agire di concerto: a loro volta si condensarono in un solo corpo, e si trasformarono in una sola persona, il progenitore che generò tutto, il grande corpo cosmico da cui sono nati animali, piante e sole e terra e tutte le forme di vita, compresi i ladri, i tafani e le zanzare…
Ecco cosa mi riportavano i soffi di vento caldo giù dalle gole dei monti della Grecia, seduta sui gradini del teatro con lo sguardo rivolto alla vallata.

Forse da questo corpo frutto dei venti e dei poeti, io sono venuta fuori tafano o zanzara (“zanzara” mi chiamava, quando avevo vent’anni, Paola Borboni[1] che allora di anni ne aveva ottantacinque). Forse tutti noi siamo un pulviscolo di esseri, ma in ogni caso, io, pulviscolo, sento il richiamo a danzare con gli altri pulviscoli, per ricreare quel corpo, uno e molteplice, più grande, da cui veniamo. Che è esattamente ciò che facciamo ogni volta che ci sediamo gli uni accanto agli altri nel ventre buio del Teatro. Ecco perché un poco mi manca, anzi mi manca moltissimo.
Per non perderci, per ora, fissiamo queste tre immagini:

– A teatro creiamo un unico corpo, fatto di tante cellule vibranti, distinte ma non separate.
– Gli antichi teatri in Grecia sono luoghi ancora attraversati da venti parlanti.
– All’inizio erano i venti parlanti, soffi divini, poi diventarono poeti, poi il grande corpo che generò ogni forma di vita.

Proviamo ad osservare i nostri corpi, oggi, attraverso lo sguardo del teatro. Per cominciare, con la mascherina io non riesco più a riconoscere le persone. Col mio lavoro ne incontro tante e in tante città diverse; già avevo la sindrome dell’aeroporto, ma, prima, ogni volto, nella sua interezza lanciava al mio sistema neurologico un segnale di attenzione: questa faccia l’hai già vista! Ora, questo processo è diventato, almeno per me, quasi impossibile. Poco male. Mi riconosceranno gli altri. Una volta che ci siamo riconosciuti, però, adesso io non capisco neppure più che cosa dicono. Evidentemente sono diventata anche un poco sorda e, evidentemente, prima, nel mondo senza mascherine, mi arrangiavo seguendo il labiale.

Poco male, anche questa, è solo una vibrazione in meno. Se poi è vero, che i neuroni a specchio sono neuroni che si attivano quando vediamo un movimento compiuto dagli altri “come se” l’avessimo fatto noi, da cui, sembra, nel corso della nostra evoluzione, si sia sviluppata la capacità di empatia e compassione, la copertura dell’espressione della faccia, piena di quei micro movimenti che sollecitano i nostri neuroni a specchio, mi rende meno sensibile nella percezione delle sfumature delle emozioni.
Su questo prima invece ero fortissima: di fatto, è il mio mestiere. Certo un bel paio di occhi che si strizzano in un sorriso, sono ancora molto comunicativi, però non riesco più a capire quando la lacrimazione di chi mi parla è un inizio di pianto o un bruciore agli occhi da anidride carbonica. Insomma la mascherina esalta il mistero, il che potrebbe anche essere eccitante, ma, allo svelamento, non tutti poi sono principi o principesse tuareg.

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La maschera con la bandierina di Paul Klee

Sempre attraverso lo sguardo del teatro, passiamo, dal volto, al corpo e alla distanza.
Questa estate, facendo spettacolo, ho visto, per garantire il distanziamento del pubblico, allestimenti fantasiosi, alcuni davvero meravigliosi: inchiodate a un metro di distanza, sedie rosse su prato verde, petali di papaveri seminati a scacchiera in un disegno giapponese; sedie galleggianti su piattaforme acquatiche; sedute matrimoniali per congiunti a gruppi di due, a tre, se con figlio annesso; schienali legati insieme, uno su, due giù, abbassati pronti al sacrificio o in atto di preghiera; sedie con bollini colorati, segni di una presenza assente, come memorie di persone scomparse, evocate, ormai perdute e rimpiante.

Superata la più frequente immagine cimiteriale, la definitiva forse è un’altra: nella contingentazione e nel distanziamento, ogni spettatore è diventato, circondato dal vuoto, un’isola, vulcanica, con un cuore potenzialmente ancora attivo, almeno c’è da sperare.
Non è una situazione drammatica, anzi a tratti è anche molto interessante, l’ho provato da attrice sul palco: c’è chi col vuoto intorno si sente più protetto e, come fossimo rimasti solo noi due, ultimi sopravvissuti, alle sollecitazioni risponde in un dialogo diretto fra lui e me; c’è chi invece si rifugia ancora più dentro, in un fermo silenzio interiore; c’è chi se ne sta con la schiena dritta e le gambe strette, rigido in punta di sedia come se l’acqua che lo circonda (sa di essere un’isola) dovesse prima o poi arrivargli alla bocca e farlo annegare; c’è chi si stravacca allungandosi sulle sedie vuote intorno e dando il via ad una prima, imperfetta, espansione di sé.
È chiaro che la risposta comune così è un po’ più faticosa da trovare: l’ho provato da spettatrice in platea. Ho incominciato a fare presente questo cambiamento: agli spettatori ricordo il tempo in cui la risata del vicino di poltrona sconosciuto caricava anche la mia, e il russare di mio marito mi rassicurava del fatto che anche io mi annoiassi (adesso a dormire rischi di trovarti per terra che tua moglie non può più sgomitarti nei fianchi).

Parlo di che cosa succede a teatro, perché è lì la mia vita più vera, ma parlo anche di cosa succede là fuori, nella vita sociale. Ma siccome a teatro la vita è più vivida, a teatro si vede meglio anche la trappola.
Allora che fare di questi tempi vischiosi dove ogni gesto di libertà può diventare un rischio per gli altri, una parola fuori dal coro, la negazione della realtà, dove ormai vince quasi sempre: io se fossi in te non partirei? Credo che sia diventando indispensabile alzare l’asticella della narrazione, cioè della visione e dell’immaginazione. E a narrare e a narrarsi lo si impara soprattutto a teatro.
Noi siamo quello che ci narriamo: raccontiamo che siamo in guerra? pian piano saremo sconfitti; diciamo che vogliamo costruire muri? pian piano ne verremo imprigionati; ci proteggiamo da tutto? ci troveremo esposti e soli. E, chissà, sarà la volta buona che ci libereremo della matrice di tutte le ultime nostre narrazioni sociali: la paura.

Bisogna che incominciamo a guardare più avanti, più indietro, più in alto, più in profondità. Diventare più grandi, essere più avanti, più indietro, più in alto, più in profondità: espanderci.
Attenzione, non è un pensiero new age, in teatro si impara a farlo e a farlo tutti i giorni, concretamente: gli attori sul palco alle volte sembrano altissimi, alcuni hanno così tanto talento che sembra riempiano tutto lo spazio e che guardino proprio te. Dunque se gli attori lo sanno fare, lo può imparare anche il pubblico. Il pubblico che va a teatro, inutile negarlo, è un po’ speciale da sempre, e ora ha una parte da protagonista nel cambiare la narrazione che ci imprigiona, senza negare nulla, senza rimuovere, ma prendendo l’altra strada, sperimentando personalmente cosa sia avere carisma, energia, una luce che colma il vuoto che ci separa gli dagli altri, volando più alto, immaginando l’impossibile, narrando al mondo che siamo creature cosmiche, facendo sciogliere i lacci vischiosi che ora ci imbozzolano, talvolta per proteggerci (avete presente Alien?). E come ad Epidauro era pratica quotidiana già 2500 fa, a teatro ciascuno, con tutte le sue cellule che vibrano, diventi consapevole che viene a trasformarsi, liberarsi dalla paura e dalla malattia, costruire per sé e per gli altri una degna vita sociale. Generarsi in una forma nuova è un lavoro che riguarda la nostra mente, la nostra immaginazione, la nostra narrazione: un lavoro da Poeti.
È la nostra vocazione: siamo la molteplicità di esseri nati da quell’unico corpo, generato dai poeti senzienti, e prima ancora, dai soffi divini. Così fu cantato in quel pensiero orientale, allora lontano, arrivato fino ai Greci che hanno costruito i teatri.

La vita è sempre stata complicata, ma per noi (e per i nostri figli più di noi) è anche complessa: abbiamo attraversato così tanti secoli, così tanti chilometri di pianeta, siamo una così grande moltitudine di viventi che, se non torniamo ad essere poeti veggenti, questa ricchezza di relazioni ci schiaccerà, confinandoci per sempre nel mondo della paura e della malattia, senza arrivare a comprendere e godere dello splendore di questa vastità.
Ai nostri bambini seduti ai monobanchi, il primo mese di scuola, oggi, io regalerei solo poesia. Non da studiare: da giocare, gustare e da fare. Comincerei dal restituire loro l’originaria dignità di creatori, di visionari, di poeti, che di quella pasta sono fatti.

Ah, per finire, sotto la porta dei leoni di Micene, al sole cocente e al vento, d’istinto ho fermato un signore che saliva poco dietro di me, dai capelli bianchi fluenti, statuario, abbronzato. Gentilmente gli ho chiesto se poteva farmi una foto in quel luogo. All’aperto, senza mascherina, l’ho riconosciuto: era Eugenio Barba[2].
Vedete che dovevo partire?



[1] Paola Borboni è un’attrice teatrale del ‘900: nata il 1 gennaio del 1900, morta a 95, ha calcato le scene fino all’ultimo giorno. È stata un’anticonformista e la prima “collega” con cui ho avuto l’onore di lavorare.

[2] Eugenio Barba è uno dei Maestri del Teatro della seconda metà del ‘900. Ha fondato l’Odin teatret. Vive a Hostelbro in Danimarca. Oggi ha 84 anni. Sotto la porta dei Leoni abbiamo parlato dei miei progetti, del Teatro Faraggiana che dirigo a Novara, del presente e del futuro del teatro.




Illustrazione di copertina di Francesca Galli

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