Il 18 settembre 1970 se ne andava molto più di un musicista. Jimi Hendrix (1942-1970) ha saputo incarnare nel suono distorto e sanguinante della sua chitarra elettrica tutta l’inquietudine di un’epoca e di una generazione, quella degli anni Sessanta, che ha creduto nel cambiamento del mondo, e lo ha fatto soprattutto grazie alla forza della musica, dell’arte e della letteratura.
In occasione dell’anniversario della sua prematura scomparsa, il critico Enzo Gentile e il collezionista Roberto Crema hanno dato alle stampe il volume The Story of Life. Gli ultimi giorni di vita di Jimi Hendrix, edito da Baldini+Castoldi, e in esclusiva per Limina ripercorrono con due ricordi inediti – rispettivamente Una chitarra per cambiare pelle e La musica come destino – l’importanza della figura del chitarrista di Seattle, collocandolo all’interno di un’epoca infuocata, in continuo cambiamento.
Quello stesso cambiamento – quel sogno – che ha portato Jimi e tanti suoi compagni di viaggio sul lato selvaggio della vita, la parte oscura che alla fine se li è divorati, ma che ha lasciato all’umanità una costellazione di capolavori che continuano, a distanza di 50 anni, a costituire la stella polare dell’arte intesa come lotta per cambiare il mondo.
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Una chitarra per cambiare pelle
Le vie della storia (del rock) sono infinite. E passano, per quanto ci riguarda, anche dalla ricostruzione analitica di un pezzo della cronaca (extra)musicale, relativa a uno dei nostri eroi personali, Jimi Hendrix.
La sua vicenda è sempre stata trattata, dalla stampa e dai giornali, dai media internazionali, seguendo il filo distorto delle relazioni pericolose tra la droga e i campioni della cultura giovanile, quel viluppo tossico tra l’arte della nuova musica e i suoi principali rappresentanti e simboli. L’incontro tra la storia e certi personaggi irrinunciabili ha prestato il fianco a interpretazioni e suggestioni che in questo libro abbiamo provato a ordinare, a organizzare, anche per restituire all’artista che più ha influenzato e indirizzato il mio percorso di amorosi sensi professionali un pezzo di verità, da considerare un piccolo risarcimento postumo per i danni e l’incuria del tempo.
La vicenda hendrixiana che noi affrontiamo, in realtà, abbraccia un periodo anche più ampio dello stretto percorso che conduce alla tragica mattinata del 18 settembre 1970: per ampliare lo sguardo oltre il dettaglio dei giorni che hanno preceduto il decesso, ci siamo spinti a fornire una più ampia inquadratura, che seguisse il destino di Jimi nel contesto post-mortem, dal funerale alla furibonda battaglia per l’eredità, di cui tratta anche il fratello Leon nell’introduzione scritta appositamente. Ci è sembrato giusto, oltre che necessario, affrontare un argomento che nel corso della storia la scena musicale ha vissuto come uno choc vero e proprio, per un impatto pesante, accompagnato da disinformazione, pregiudizi, speculazioni tese a demonizzare un fronte artistico e culturale che, di lì a poco, avrebbe contagiato ampissime fasce di pubblico: colpendo un eroe negativo, secondo le regole dell’establishment, si sarebbero forse tenuti lontani i ragazzi dal baratro pericoloso di una trasformazione sociale difficile da gestire.
Il ritratto che emerge in questa sorta di radiografia poggia e si avvale in modo decisivo delle dichiarazioni rilasciate generosamente dalla fine di agosto ai giornalisti delle riviste dei vari paesi in cui si annunciavano le sue esibizioni: emerge qui l’aspetto umano che più ci interessava, anche perché in grado di proiettare Hendrix verso un futuro imminente che non avrà tempo di vivere. Sono le affermazioni, a cuore aperto, di un ragazzo di ventisette anni che confessa candidamente di volersi fermare, per ripensare e rifondare completamente la sua architettura sonora, troppo legata alla dimensione iconica che le cronache hanno puntualmente inviato da ogni latitudine, e che Jimi sente ormai come una gabbia: Hey Joe, Purple Haze, Voodoo Chile dovranno essere messi alle spalle per procedere verso territori nuovi, liberi, impronosticabili.
«È strano il modo in cui la gente dimostra il proprio amore per chi muore. Devi morire prima che ti riconoscano qualcosa. Una volta morto sei pronto per la vita.»
L’Hendrix che abbiamo raccontato era una persona desiderosa di cambiare pelle, di evolversi, di studiare musica, di dedicarsi alla composizione, magari da una casa di campagna, in tranquillità, con una compagna/moglie al suo fianco: una pace domestica che lui, sistematicamente assediato dal mondo, mai avrebbe pronosticato. Magari in vista di un salutare, temporaneo distanziamento sociale… Traspare nelle sue ultime parole registrate dalla stampa una prospettiva strana, che cozza pesantemente con la routine della rockstar maledetta a cui ci ha abituato una certa letteratura di maniera: ecco il lato rivelatorio di questa nostra indagine che più ci ha appassionato e insegnato. Hendrix vuole espandere le sue conoscenze e la sua tecnica, amplificare una spiritualità capace di dialogare, attraverso la chitarra e un’intera orchestra, con gli aficionados e i curiosi che vorranno seguirlo.
The story of life vuole essere anche questo, uno strappo rispetto alle molte convenzioni: dalle false notizie che lo hanno dipinto uno schiavo del demone della droga al modo in cui lo stesso ambiente musicale avrebbe voluto vederlo e conservarlo all’infinito. Lo spiega anche Leon, nella sua prefazione, dove chiarissime sono le accuse al girone infernale che ormai si è impossessato dalla quotidianità di suo fratello: «Jimi è stato ucciso» sentenzia, e nel mirino non c’è una sola mano. Nella mischia i manager, le agenzie, i discografici, i giornalisti, le groupies, che hanno tutti qualcosa da chiedere, pretendere, guadagnare dal lavoro e dalla musica di Hendrix.
Ecco perché ci spingiamo anche oltre il perimetro segnato da quel fatidico, tragico 18 settembre 1970: da ricollocare sono i particolari del funerale, tra amici, colleghi e gli abitanti della Seattle che lo avevano visto crescere e poi emigrare per cercare la sua fortuna. Ma nel tragitto che segue tra le pagine, molto spazio trovano anche le cattive vibrazioni riguardanti l’eredità, le cause legali per gestire il patrimonio, la guerra tra Janie, la sorellastra che frequentò Jimi solo per poche ore, e Leon che gli era invece stato al fianco durante l’infanzia e l’adolescenza. E poi ancora abbiamo visto affiorare tanti bizzarri casi di morti e suicidi, legati a persone molto vicine a Hendrix, tutte inghiottite nella voragine di una vicenda che ha mantenuto diversi risvolti misteriosi e poco chiari: un panorama in cui si inseriscono anche un paio di figli nati da relazioni rapide, durante le tournée di Jimi, casi poi risolti con sbrigativo pragmatismo dalla famiglia.
Il quadro hendrixiano postumo sarà fittissimo, ricco di dischi, filmati, testi, contributi, tutti tesi a delineare un fenomeno in realtà capace di sfuggire ogni spiegazione logica, un alieno della musica del Novecento: di cui accorgersi con qualche ritardo, con le imposture del caso che non verranno sventate nemmeno dalla pubblicazione ufficiale dell’autopsia, che esclude l’uso recente di droghe. Per prendere atto del suo avvento, e del suo passaggio su questa terra, ci siamo anche affidati al pensiero, alla memoria di persone entrate a contatto con la storia hendrixiana per vie diverse, da George Benson a Eric Burdon: così come per tentare una panoramica più ampia, siamo andati a cercare e a illustrare cos’altro succedeva nel mondo in quella stagione di svincolo, quando avevamo appena abbandonato i folgoranti anni Sessanta, e i Settanta erano solo agli albori. Così abbiamo deciso di scattare un’istantanea per vedere cosa si ascoltava, cosa si leggeva, cosa si vedeva al cinema e in televisione, come si viveva nell’Italia di mezzo secolo fa: un riscontro impressionante, e neutrale, delle realtà, che spiega allora anche certi titoli di giornale, il dato di un’arretratezza disarmante, di un’incultura e di un oscurantismo che saranno duri ad abbattere.
Per saldare tutte le tessere di questo immenso puzzle hendrixiano, ci verranno in soccorso proprio le sue creazioni: una colonna sonora che non abbiamo mai abbandonato, e che anzi anche nella realizzazione e poi nella fase in cui abbiamo metabolizzato questo lavoro, siamo stati ben attenti a conservare come un battistrada, un segnale di riferimento invalicabile. Crosstown traffic, musica all’ora di punta.
La musica come destino
Pochi giorni fa ho letto una dichiarazione di Joe Perry, il chitarrista degli Aerosmith, che diceva «Jimi Hendrix ha preso uno strumento in bianco e nero e l’ha riempito di colori».
Questo mi ha fatto tornare alla mente un episodio della mia giovinezza. Era il 1971, Hendrix era mancato da pochi mesi, e io ero un inquieto tredicenne, da poco più di un anno innamorato di Jimi. Studiando inglese alle medie la professoressa ci indicò alcuni pen friend inglesi: il mio amico di penna si chiamava Peter e anche a lui piaceva Hendrix, una volta gli chiesi cosa significasse per lui la musica di Jimi e mi rispose con un esempio: «Prima di Jimi c’era della musica, ed era come bere dell’acqua fresca, poi con la sua musica invece è stato come bere una gustosissima e fresca bevanda aromatica.»
Ma chi era Jimi Hendrix? Come mai è morto in circostanze così misteriose? Overdose di droga, assassinato dalla CIA oppure dal suo manager?
Quello che sappiamo è che nacque il 27 novembre 1942 a Seattle, figlio di Al Hendrix e Lucille Jeter. Prima che Jimi nascesse, il padre fu arruolato dall’esercito per andare a combattere nel Pacifico e tornò tre anni dopo. La vita del neonato Jimi inizia subito tra mille difficoltà dovute alle scarse cure della madre, diciasettenne, che non era in grado di accudirlo e lo abbandonò. Finita la guerra, Al andò fino in California per riprendersi il figlio che era stato dato in affido. Tornato a Seattle, i due furono raggiunti dalla madre Lucille e per qualche anno Jimi visse con la sua famiglia. Nacquero altri fratelli, ma solo Leon fu riconosciuto dal padre. I frequenti litigi tra Al e Lucille, dovuti all’abuso di alcool, costringevano spesso Jimi e suo fratello Leon ad essere ospitati da parenti. Dopo qualche anno i due divorziarono, Jimi e Leon rimasero col padre.
Al era sempre al lavoro oppure al bar a bere e a scommettere, e i due fratelli crebbero per strada. Fu una giovinezza divisa tra i problemi a scuola e il difficile rapporto con le donne, segnato dalle brutte esperienze dei genitori. Nel 1958 Lucille morì e Al non volle portare i figli al funerale della madre; versò invece loro un bel bicchiere di whisky in cucina e disse: «Così fanno i veri uomini!».
Per Jimi, la scomparsa della madre e il non poter partecipare al funerale fu un vero trauma. La sua ancora di salvezza sarà la musica: con una chitarra di seconda mano Jimi si esercita prendendo ispirazione dai grandi miti del blues, imitando e rubando quanto più poteva. Così Jimi ricorda:
«Sembrava essercene una in ogni casa, poggiata da qualche parte. Una sera, un amico di mio padre era sbronzo e mi ha venduto la sua per cinque dollari. Ho iniziato a suonarla a quattordici, quindici anni. Suonavo nel cortile e i ragazzi venivano a sentirmi. Dicevano che ero bravo. Poi l’ho messa da parte. Ma quando ho sentito Chuck Berry la passione è rinata.»
Ben presto la musica fu un luogo in cui rifugiarsi e la chitarra divenne per lui una confidente, un’amica, un’estensione. A 17 anni cominciano i problemi più seri. Il suo rendimento scolastico è talmente deludente da spingerlo ad abbandonare gli studi. Una sera insieme ad altri amici viene fermato dalla polizia su un’auto rubata e davanti al giudice ha due alternative: arruolarsi nell’esercito oppure scontare la pena in riformatorio. Il giovane Jimi entra a far parte del corpo dei paracadutisti e viene spedito nel Kentucky, dove incontra Billy Cox, un giovane soldato con la passione per il basso che nel tempo diventerà un riferimento sempre più importante nella sua vita. Ma Hendrix non sopporta le regole della caserma e presto abbandona la carriera militare, sempre più deciso a inseguire il suo sogno di diventare un musicista professionista.
Inizia così un viaggio che durerà più di tre anni attraverso gli Stati Uniti, suonando nei locali scalcinati del “Chitlin’ Circuit” sballottato da uno stato all’altro nell’inseguimento di band estemporanee ed esperienze che per lo più si rivelano abbagli. In quegli anni suona come session man in numerose band di Rhythm & Blues tra cui Solomon Burke, Little Richard e gli Isley Brothers, ma ben presto Jimi capisce di non essere fatto per esibirsi sui binari prestabiliti del mercato musicale. È animato da una fortissima voglia di autodeterminarsi, di scrivere la sua storia e la sua musica in modo del tutto personale.
È il 1966 e Hendrix è a New York a suonare nel Cafè Wah. Interpreta il ruolo di leader e frontman con il suo gruppo “Jimmy James and the Blue Flames”. È qui che incontra Chas Chandler, bassista degli Animals, il quale nota questo giovane chitarrista esibirsi e nel quale intravede la scintilla giusta, che può trasformare un giovane ramingo scapestrato in un asso del blues. Chas convince Hendrix a seguirlo in Inghilterra per inseguire in modo più concreto il successo tanto desiderato, e Jimi non si fa pregare più di tanto, considerata la sua naturale attitudine alla scoperta. I primi tempi sono turbolenti e allo stesso tempo stimolanti: Chandler si impegna a insegnargli l’arte di essere un vero frontman, e contemporaneamente gli affianca due musicisti di livello adeguato, Noel Redding (basso) e Mitch Mitchell (batteria), con i quali Jimi forma il power trio che lo porta alla definitiva consacrazione, The Jimi Hendrix Experience. Con il disco d’esordio Hey Joe e con l’album Are You Experienced, The Jimi Hendrix Experience sbaraglia ogni record e introduce Hendrix nel cuore della scena musicale inglese.
Di seguito alla fenomenale esibizione di Monterey del 1967, la band di Hendrix gira senza sosta per gli Stati Uniti e l’Europa raccogliendo consensi in ogni dove, e Jimi vive il suo periodo di massima creatività, che sfocia nella produzione di due ulteriori album, Axis: Bold as Love e Electric Ladyland. Ormai Jimi è una star.
Il 1968 è l’anno più intenso della sua carriera, che lo vede impegnato in interminabili tour e l’incessante produzione di nuovi brani da dare in pasto a un pubblico affamato di novità. È anche arrivato il momento per Jimi di tornare a casa, a Seattle, dopo sette lunghi anni di assenza. ma sarà una toccata e fuga. L’anno successivo i componenti del JHE, sfiancati dai tour e dagli impegni, decidono di sciogliersi e ad agosto Hendrix partecipa al festival di Woodstock con una nuova formazione allargata, un esperimento di breve durata. Durante l’esibizione Hendrix mette in scena un pezzo che resterà nella storia del rock, oltre che nella memoria collettiva: la sua versione distorta dell’inno nazionale americano viene accolta con clamore dall’opinione pubblica americana, sempre restia ad accettare reinterpretazioni di un simbolo culturale considerato sacro e intoccabile.
Dopo lo scioglimento degli Experience e il Festival di Woodstock, Jimi farà una breve esperienza con un gruppo di soli neri, la “Band of Gypsys”, e nella primavera del 1970 uscirà l’omonimo disco con la registrazione del memorabile concerto di Capodanno al Fillmore East di New Yor, mentre è impegnato a lavorare nei suoi nuovi innovativi studios, gli Electric Lady. Alla fine di agosto partirà riluttante per il suo ultimo tour europeo, dove suonerà anche all’Isola di Wight. Poche settimane dopo, il 18 settembre, Jimi esalerà l’ultimo respiro nel Pronto Soccorso del Saint Mary Abbot’s Hospital di Londra, per intossicazione da barbiturici.
Jimi era stanco, aveva bisogno di respirare per affrontare i suoi progetti. Tra questi, oggi sappiamo che stava lavorando agli Electric Lady Studios su alcune innovative registrazioni. Proprio la mattina di quel 18 settembre era atterrato a Londra Gil Evans, il famoso compositore e direttore d’orchestra, che doveva incontrarsi con Hendrix per prendere accordi per alcune registrazioni con la Gil Evans Orchestra.
Per quell’inverno erano previste le session con Miles Davis. Ma questa è tutta un’altra storia.