Situato a sud dei Carpazi in una regione ricca di boschi, fiumi e antichi castelli, l’Argeș è uno dei quarantuno distretti che compongono la Romania. È in questa florida regione che nel 1974 venne inaugurato il centro faunistico di Râușor, dove furono rinchiusi 227 cuccioli di orso bruno. L’obiettivo era allevarli fino a completa maturazione, prima di reintrodurli in natura in omaggio all’allora Presidente della Repubblica Nicolae Ceaușescu, grande amante della caccia, che aveva fatto dell’arte venatoria una diretta espressione della propria politica. Dei 227 ospiti di Râușor, tre sarebbero morti durante la prigionia, otto sarebbero stati venduti ai circhi e 216 sarebbero stati rimessi in libertà. In cattività furono costretti in recinti protetti da alte palizzate, e alimentati a pane, frutta e carote. Per tracciarli, i responsabili del centro erano soliti procedere all’amputazione delle dita, di modo che le loro impronte fossero facilmente riconoscibili se confrontate con quelle degli esemplari selvatici delle foreste circostanti. Questa pratica non prevedeva anestesia.
Laureato a Yale con una tesi su William Faulkner, David Quammen è autore di saggi scientifici come Spillover e L’albero intricato, tutti pubblicati in Italia da Adelphi. Nel suo Alla ricerca del predatore alfa (2005), scrive:
L’allevamento degli orsi fu un fiasco. I cuccioli, separati prematuramente dalle madri e cresciuti nello squallore di affollati recinti, non acquisivano le capacità e le abitudini degli orsi selvatici. Nell’etologia orsina rientra un fattore cruciale di comportamento appreso, e questo apprendimento proviene principalmente dall’esempio materno durante i primi due anni. Al termine del loro anno di prigionia, portati in elicottero nei siti di rilascio, essi agivano in modo spaurito e confuso. Alcuni si arrampicavano subito sugli alberi, replicando la loro ultima difesa prima della cattura. Altri gironzolavano a casaccio, in cerca di qualcosa di riconoscibile da mangiare. Col tempo tendevano ad aggregarsi in gruppetti, consolati dalla vicinanza degli ex compagni di prigionia. Nel loro primo inverno generalmente non ibernavano (…), associavano la presenza umana al cibo (…), comparivano nelle stazioni ferroviarie sperando chissà cosa. Altri aggredivano il bestiame o entravano nei frutteti e nei campi coltivati e venivano uccisi. Un gruppo di quindici si stanziò vicino a un accampamento militare fra i monti, nutrendosi di rifiuti. Quando i soldati tolsero il campo e partirono sui camion, gli orsi li rincorsero disperatamente per centinaia di metri. Un orso di Râușor diventò un personaggio familiare sulla statale di Transfăgărășan (…) dove mendicava cibo dalle auto di passaggio e si guadagnò il titolo di Milogul, (“l’Accattone”). Questo animale se la cavò bene per un certo tempo, e arrivò quasi a due quintali prima di essere investito da un camion.
Il racconto di Râușor e del suo inutile esperimento – fallito con la chiusura del centro nel 1981– è solo uno dei molti esempi attraverso cui Quammen illustra il complesso rapporto tra Homo Sapiens Sapiens e i predatori alfa. Questa categoria tassonomica tecnicamente inesistente comprende al suo interno alcune tra le specie più famose di grandi carnivori potenzialmente letali per l’uomo: leoni, tigri, orsi e coccodrilli. Ed è proprio da questi – dalla loro distribuzione sul territorio, dal loro comportamento, ma soprattutto dalla relazione con le popolazioni indigene con cui essi convivono – che si sviluppa questo voluminoso saggio scientifico.
Tale relazione, fondata su un modello che ha contemplato per lungo tempo forme di convivenza e rispetto quando non di diretta adorazione, ha subìto un mutamento progressivo in linea con lo sviluppo della civiltà, in particolare con il trionfo del modello coloniale. Nella foresta del Gir, nei boschi della Romania, sulle sponde dei fiumi in Kenya e Australia o in quella piccola fascia di terra siberiana che i russi chiamano Amur, queste forme di convivenza hanno resistito e funzionato per millenni grazie a meccanismi di auto-regolazione che oggi non esistono più o sono stati fortemente messi in crisi. Studiarli significa apprendere un’enorme quantità di informazioni spesso dolorose, che restituiscono l’immagine di un pianeta che sta morendo, di una biodiversità che si estingue e si estinguerà sempre più velocemente. Non solo; significa accettare, attraverso la voce di chi pratica la ricerca sul campo, di essere diretti responsabili di un cambiamento che sembra ormai ineluttabile.
L’approccio parziale e viziato con cui possiamo approcciarci a libri come questi – scritti a loro volta da etologi, biologi o divulgatori scientifici che sono parte del problema – rischia di farci mancare tragicamente il fuoco della questione. Il problema della conservazione della fauna, invece, ha urgente bisogno di uscire da logiche estreme e da forme schematiche di pensiero, e necessita il confronto con una realtà contraddittoria e complessa, quando non direttamente aliena. Una realtà che non deve e non può tenere conto del nostro sentimentalismo occidentale (neanche quello di Quammen stesso, impegnato a raccogliere dati e a giudicarli con voce non sempre neutra); una realtà che esige un grande sacrificio analitico, fondato su equilibri crudeli, strazianti e apparentemente ingiusti come spesso sono non solo le relazioni che legano uomo e animale, ma anche le stesse specie animali tra loro.
Risolvere in poche righe questa complessità presupporrebbe un’audacia priva di senso. È però interessante pensare alla nostra responsabilità all’interno di un equilibrio che si è andato destrutturando e snaturando; più semplicemente è andato scomparendo, scomponendosi e alterandosi in modelli apparentemente inscalfibili. I mutamenti della catena alimentare e relativi squilibri, come fa notare ampiamente Quammen, sono solo uno dei tanti problemi; c’è poi quello del cambiamento climatico, della deforestazione, dello spreco incontrollato delle risorse.
Il colonialismo (e più recentemente il capitalismo), fa intendere Quammen, ha complicato la relazione di reciproca tolleranza tra uomo e animale restringendo progressivamente gli habitat dell’uno e degli altri, costringendo i predatori a sconfinare alla ricerca di prede, ma anche compromettendo quelle forme di sopravvivenza che sono state e vorrebbero essere ancora un modello per molteplici popolazioni (Turkana, Yinkala, Maldhari sono solo alcune di queste). Unitamente a questo, nel tempo, governi assenteisti ed ecologicamente insensibili hanno contribuito ad accrescere il problema, con sporadiche leggi, regolamenti e provvedimenti mirati alla protezione e alla conservazione delle specie animali endemiche. Accade da decenni, ad esempio, che in Romania venga autorizzata la caccia per quei visitatori bianchi che volessero divertirsi a catturare qualche orso in cambio di denaro facile, quel denaro che il governo potrebbe invece reimmettere sul mercato nazionale creando forme di occupazione anche mirate a proteggerne la fauna caratteristica. Accade da decenni anche in India, accade nelle steppe siberiane, dove i bracconieri e cacciatori di frodo si organizzano per catturare illegalmente le tigri dell’Amur (7000 gli esemplari totali al mondo) per rivendere sul mercato nero i loro denti, le loro pelli, o i loro genitali a scopi magici e curativi.
Attraverso molteplici interviste, testimonianze, racconti e dati biologici, Quammen dimostra l’importanza di trovare «soluzioni economiche che diano alla gente locale un incentivo materiale ad accettare la presenza dei predatori» con l’obiettivo primario di tutelarne la sopravvivenza, e di proteggere, ricollocare e incentivare le popolazioni specifiche di ogni territorio. «Fauna selvatica come risorsa rinnovabile» è quindi la parola d’ordine, che sembra aver guidato ad esempio il virtuoso modello australiano attraverso il ripopolamento di alcune specie di coccodrilli molto ambiti per le loro pelli, con un controllo sistematico delle uova, il monitoraggio e la protezione degli adulti fino a maturità sessuale, al fine di garantirne la riproduzione. A proposito della tigre dell’Amur, invece, suggerisce il biologo Grahame Webb:
Se in una popolazione vi sono duecentocinquanta tigri, per esempio, si potrebbe mettere all’asta il diritto di ucciderne due all’anno, e con il ricavato dare a tutti coloro che vivono nei paraggi un buon dividendo. Si potrebbe anche sancire l’allevamento di tigri, in modo che alcuni felini siano allevati legalmente in cattività per fornire quegli stessi prodotti vitali — ossa, denti, organi interni, pelle, peni e quant’altro –, che vengono venduti in Asia sul mercato nero per scopi farmaceutici e magici.
In questo senso, il modello australiano è virtuoso in quanto caratteristico di un territorio limitatamente influenzato e dai modelli europei ed extra-europei. E tuttavia sussiste un problema: sfruttare una specie è moralmente, oltre che biologicamente accettabile, per impedirne il declino? L’impressione è che la battaglia non sia priva di contraddizioni, e che siano necessari comunque compromessi molto dolorosi per giungere a una soluzione e a un modello tollerabili, se non direttamente funzionali.
Per ora ciò che appare chiaro è che battaglia non si giochi tanto tra uomo e animale, piuttosto tra capitalismo e biodiversità, tra supporto e tutela di quelle popolazioni costrette a convivere con i grandi predatori e gli indiscriminati interventi intensivi dell’impero della ricchezza. Gli episodi di opposizione sistemica delle popolazioni aborigene dell’India, del Nord dell’Australia, la «guerriglia di resistenza a una tirannide occupante» di cui parla Quammen, sono ottimi punti di partenza. Ma è una guerriglia di resistenza che ci riguarda, e che parte dalla comprensione di ricerche e saggi come questi, che abbiamo la responsabilità di analizzare mettendo a fuoco il nostro privilegio, e utilizzarlo come risorsa.
Photo credit:
Richard Lyddeker, A Handbook to the Carnivora, London, E. Loyde, 1896
– Biodiversity Heritage Library;
David Quammen, Thomas Lee True West;
Mariana Chiesa Mateos.