Ai concerti di Murubutu il pubblico acclama il rapper scandendo: «Pro-fes-so-re! Pro-fes-so-re!» mentre il prof. di filosofia del liceo dal palco racconta le sue storie senza tempo. Durante l’ultimo concerto a cui sono stata pioveva a dirotto sulla folla: una pioggia torrenziale che scendeva fitta, ma il pubblico non voleva saperne di spostarsi. Sotto l’infuriare dell’acqua cantava insieme al rapper la storia di Dafne, «volata via, come un’idea, piccola foglia portata dal vento», suicida per aver contravvenuto a una terribile morale, e poi la storia di Mara e dei suoi ricordi sottratti dal Maestrale; e quella di un uomo stravolto, nelle lunghe notti, dal pensiero di una donna intravista che «aveva l’aria dolce di una vita amara, che seminava tempesta». Mentre correvo, zuppa d’acqua, per prendere l’ultimo autobus verso casa, pensavo che la pioggia aveva omaggiato quelle storie senza tempo, che il manifestarsi della natura aveva consacrato come leggendari quei racconti scanditi dalla musica.
I testi del rapper emiliano sono abitati da racconti di vite più o meno normali, persone del mondo, eppure hanno il sapore del mito e risuonano in noi come leggende. Negli ultimi album il vento, poi l’acqua e infine la notte hanno fornito il comune denominatore dei racconti, creando un campo semantico grazie al quale le singole storie entrano nel dominio della magia, del meraviglioso e del fantastico. Così, per citare solo l’album dedicato al vento, un ragazzo vittima di un incidente con la moto, all’uscita del paese da cui voleva scappare, si trasforma in scirocco, quel vento «che porta una mappa con la rotta giusta per non tornare mai»; cinquantamila soldati rispondenti al Re Cambise scompaiono nel deserto a opera di quel vento che «giunse dal vuoto al tramonto di fuoco e travolse al suo suono ogni corpo sul suolo». Eventi storici, tradizione letteraria e vite normali sono la materia da far esplodere nel rap nel segno di un elemento che permette loro di diventare leggenda.
Nell’ultimo album di Murubutu, Infernum, firmato insieme a Claver Gold, i due artisti utilizzano la prima cantica della Commedia, la sua lingua e il suo immaginario, per guardare il mondo. Non esiste testo più pulp nella nostra letteratura, né testo più raffinato: sopravvive nelle nostre connessioni neurali e nel nostro sangue. Giocare con la materia dell’Inferno di Dante è un’operazione fertile e arricchente per chi come Murubutu e Claver Gold lavora con le parole e la fantasia, commercia col mito e vive un’esistenza di immagini e parole. Come in ogni operazione artistica si trova nel massimo della finzione giocosa il più concreto modo di trattare del mondo.
Per poter avere accesso alla lingua e all’immaginario di Dante i due artisti chiedono al traghettatore di anime, Caronte, di essere ammessi all’Inferno. «Non isperate mai veder lo cielo:/i’ vegno per menarvi all’altra riva/ ne le tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo dice Caron dimonio» – dagli «occhi di bragia» – ai dannati che aspettano di farsi traghettare nel regno dei morti (canto III versi 85-87 e 109). Disposti a pagare il peso della dannazione, i due rapper formulano quel rito magico che concede loro la chiave d’accesso al mondo ctonio, un mondo altro, per avere nuovi occhi.
Il personaggio Dante è completamente assente in Infernum, perché questo non è il suo viaggio, come assente è la divinità a cui è invece tesa l’intenzione di tutto il regno dei morti dantesco. Il viaggio di Claver Gold e Murubutu è fatto di parole, non con il corpo; eppure le prime impressioni del mondo dei dannati – nel brano Antinferno – sono le stesse avute da Dante, che superata la porta del regno di Lucifero viene investito dalle percezioni sensoriali: «Quivi sospiri, pianti e altri guai/ risonavan per l’aere senza stelle,/ per ch’io al cominciar ne lagrimai./ Diverse lingue, orribili favelle,/ parole di dolore, accenti d’ira,/ voci alte e fioche e suon di man con elle,/ facevano un tumulto, il qual s’aggira/ sempre in quell’aura senza tempo tinta,/ come la rena quando turbo spira». I primi dannati che Dante incontra sono gli ignavi, coloro che vissero «sanza ‘nfamia e sanza lodo», senza mai decidere né per il bene né per il male e che non hanno neanche la dignità per stare all’interno dell’Inferno vero e proprio, al quale porta invece la nave del demonio Caronte (III 22-29 e 36).
Una volta che questa particolare invocazione alla musa è compiuta e a Caronte è stato chiesto di tornare «per chi certe notti si è sentito sempre solo», i dannati si trovano al cospetto di Minosse, il giudice delle colpe infernali: la sua coda si attorciglia a seconda della gravità del peccato e della profondità dove è punito. I due rapper cantano le diverse pene tratteggiate da Dante, ma per i loro peccati sanno che Minosse inventerà un nuovo contrappasso. Avendo commerciato sempre e solo con il linguaggio e le sue forme in musica la loro punizione sarà quella di stare senza letteratura, senza versi o parole «mendicando una parola nuova».
Nell’album hanno grande spazio i personaggi, ripresi da Dante ma colti in aspetti che ne indagano le umane passioni. Viene data qui parola a Paolo, che nella Commedia invece non parla mai, piange di fianco alla sua amata, la vera protagonista del racconto e di tutta la tradizione critica e iconografica. Nei secoli Francesca è stata vista sia come un’orrenda fedifraga, sia come l’eroina romantica che incarna la fatalità della passione d’amore, sue sono le parole nel testo di Dante, che chiosa così il racconto di lei: «Mentre che l’uno spirto questo disse,/ l’altro piangëa; sì che di pietade/ io venni men così com’io morisse» (IV, 139-140). Nella canzone è invece il punto di vista di lui ad avere spazio con i suoi rimorsi per il peccato commesso e insieme la consapevolezza che non poteva essere diversamente da come è stato, perché, dice, «tu resti per me il migliore dei peccati».
Lasciati Paolo e la sua amata nella tormenta eterna che punisce i lussuriosi, i primi dannati tra gli incontinenti, la narrazione si sposta, nell’album, ben più in fondo nella conca infernale, dentro le mura della città di Dite, nel luogo dove sono puniti i violenti contro se stessi. Dante spezza un ramo di un pruno e questo comincia a sanguinare e parlare: è Pier delle Vigne, fedele funzionario di Federico II, suicidatosi a causa dell’invidia dei cortigiani, che riempiono di bugie le orecchie dell’imperatore. Il suicidio è inammissibile in un mondo cristiano, eppure il funzionario è portato al
punto in cui «l’animo mio, per disdegnoso gusto,/ credendo col morir fuggir disdegno,/ ingiusto fece me contra me giusto» (XIII, 70-72). Pier delle Vigne è fatto pruno per contrappasso, e in un incrocio linguistico e di senso Pier diventa nel brano un albero di vite. Il ragazzo, vittima del moderno bullismo dei compagni, condivide il destino di quell’antica vittima dell’accanimento degli uomini gli uni contro gli altri che Dante sempre denuncia.
Gli ultimi due cerchi dell’Inferno sono i più ampi e i più profondi: nel primo, Malebolge, sono puniti i traditori di chi non si fida e nell’ultimo, l’enorme distesa di ghiaccio al cui centro è conficcato Lucifero, si trovano i traditori di chi si fida. A metà di Malebolge stanno i barattieri, immersi nella pece bollente e graffiati e squartati dagli uncini di un gruppo di diavoli, i Malbranche, se osano uscirne. Murubutu e Claver Gold attaccano qui i moderni barattieri, coloro che «girano intorno al denaro che fa da perno», destinati a subire la stessa pena infernale: «sparirai nel pieno del segreto come i traffici tuoi».
Poco più giù nella voragine infernale sono puniti i consiglieri fraudolenti, quei capi dotati di ingegno, ma che non l’accompagnarono alla virtù. Ulisse è qui per essersi spinto troppo in là nella sua sete di conoscenza, convincendo i compagni di viaggio a seguirlo – «de’ remi facemmo ali al folle volo» (XXVI, 125). Dopo dieci anni di guerra e altrettanti di peregrinazioni per il Mediterraneo, Ulisse è finalmente a casa, a Itaca, ma giunge qui alla tragica consapevolezza che la pace della casa è una tortura per chi come lui ha visto le meraviglie e i mali del mondo: «tutto quel che vedi a me non basta mai».
Né dolcezza di figlio, né la pieta
Del vecchio padre, né ‘l debito amore
Lo qual dovea Penelopé far lieta.
Vincer potero dentro a me l’ardore
Ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
E delli vizi umani e del valore;
Se Ulisse è assetato di nuovi mondi, Taide desidera una vita normale, un mondo ordinario che non può avere perché su di lei pesa lo stigma della puttana. Personaggio marginale, Dante le dedica due brevi terzine, Taide è un esempio letterario di adulatrice, «sozza e scapigliata fante/ che là si graffia con l’unghie merdose» (XVIII 130-131).
Al centro della terra, conficcato nel ghiaccio nel punto più basso della conca infernale, spunta dalla cintola in su Lucifero, una volta l’angelo più bello del Paradiso. «Lo ‘mperator del doloroso regno/ da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia» (XXXIV 28-30). Le sei enormi ali di pipistrello generano quel vento che congela le acque di Cocito e su in alto trascina i lussuriosi nella tormenta eterna; le tre teste, in un rovesciamento infernale della trinità che della divinità ristabiliscono l’ordine negandola, maciullano tra i denti i traditori dei benefattori per eccellenza: Bruto, Cassio – traditori dell’imperatore, figura terrena dell’autorità divina – e Giuda – traditore di Cristo. «Con sei occhi piangëa, e per tre menti/ gocciava ‘l pianto e sanguinava bava./ Da ogne bocca dirompea co’ denti/ un peccatore, a guisa di maciulla» (XXXIV 53-56).
Per poter tornare in superficie Dante e Virgilio si aggrappano al corpo di Lucifero e risalendo verso i suoi piedi passano nell’altro emisfero, dove si trova una «natural burella». Percorrendola i due poeti escono «a riveder le stelle» e si trovano ai piedi del monte del Purgatorio (XXXIV 98 e 139). A differenza del percorso di Dante, il viaggio di Claver Gold e Murubutu si conclude senza prospettiva di redenzione o beatudine: la divinità è assente dalla dimensione terrena da cui i due rapper osservano il mondo, se cantano «per me che stare al mondo mi sembra un inferno».
Illustrazione di copertina: Ernesto Anderle – Roby il Pettirosso