Ho battuto più volte la lingua sul palato con lo stesso trasporto di Humbert quando chiamava Lolita. A una certa ora di un dato giorno, ho letto sottovoce solo per il gusto di cercare dove, tra i denti, potesse incastrarsi il senso ineluttabile di ordine.
Ci sono vite che scelgono di stringersi intorno a un’ossessione. Il fuoco dei lombi si diluisce, diventa tenue e patinato: uno specchio invertito, una donna che cerca in un uomo – un marito ora, un padre prima, un amante nel mezzo, un figlio poi – la risposta all’amore mancato. Le storie s’assomigliano tutte, in fondo: si cerca sempre, e solo, unicità. Si finge, ogni giorno, nemmeno ce ne rendiamo conto; s’annuisce con gli occhi, si elemosinano conferme all’idea di poter essere eccezionali più degli altri. S’indossano camicie bianche per nascondere le macchie dell’inadeguatezza; si mente, tutti lo sappiamo, eppure non conosciamo altre strade per piantare i piedi nel mondo. Ci si racconta per quello che non si è, per ciò che spesso gli altri hanno bisogno di vedere, fedeltà commutata.
In A una certa ora di un dato giorno, pubblicato da La nave di Teseo, Mariantonia Avati mette al centro la colpa. Emma prima è una bambina, proprio come Lolita respira dietro un enorme cappello di paglia per nascondersi dal mondo, per proteggersi dalla madre, per fingersi diversa. Odia i propri capelli: riflesso di una genetica non scelta, non vuole essere diversa dal resto, dalle sorelle, dal mondo intorno. Desidera solo essere accettata, liberamente essere. Invece, già a sei anni – un’adulta nel corpo d’una bimba, con gli stessi occhi stanchi – capisce la necessità di dover essere sufficiente per gli altri prima che per sé stessa. Impara a ingoiare bile e dignità, a ignorare il profondo peso dell’assenza di un padre scomparso molto presto.
Poi è donna, Emma, e come tale sente di dover sopportare tutte le mancanze del marito. Lui è un drogato, eppure finge di non esserlo più. Cerca d’essere granitico, risulta friabile. Vorrebbe dolcezza, sputa accuse. La verità è concetto soggettivo, così Emma lo declina a seconda del bisogno: crede d’essere superficie riflettente, braccio di sostegno per Luca. Invece è solo l’ennesima violenza sottotesto.
La lingua continua a battere dietro i denti, viene da chiedersi come una donna si ponga davanti alla debolezza amputante del marito. Quanto è spessa la linea che divide l’altruismo, l’amore dall’egotico bisogno di sopraffare, sentirsi migliori? Quanto si è sempre davvero soli? Amare quello che non si comprende è sul serio la più alta e onesta forma d’amore?
Emma cambia idea, nel corso del romanzo, combatte contro di sé e le proprie voragini, prova a riempire i vuoti con altro, con distrazioni, ricordi, un amante interinale. Ma per colmare una mancanza serve inserirvi ciò che l’ha prodotta: così fa lei, tentando di cucirsi addosso i rimasugli di un matrimonio.
C’è mutismo, c’è silenzio fragoroso. Chi urla, urla a sé, non comunica, non sfonda il muro. Pare che la sconfitta sia assurta a vittoria: ognuno prova a giustificarsi come può, svestendosi degli abiti e delle consuetudini per ritrovarsi. È un passatempo molto sottile, quello dell’illusione.
Ricordo, quand’ero piccola, che amavo fare il gioco delle parti. Mi fingevo ogni giorno qualcuno di nuovo, di lontano, di alieno. Ero sola; avevo il registratore a farmi compagnia, e con lui la mia voce trasmutata, divertente da riascoltare. Talvolta impersonavo un pasticcere, altre una moglie devota. Più spesso mio fratello, a me così sconosciuto: è solo mettendosi nei panni degli altri che ci si accorge di quanto i vestiti possano essere stretti, o incredibilmente aderenti. Emma e Luca non lo fanno mai: incastrati, cementificati nelle proprie convinzioni – la salvezza non può mai essere delegata – sanno solo mantenere una costante solitudine. Dall’inizio, alla fine, pare che nessuna vita possa essere riscritta.
Eppure, così non è. La colpa, invece, è quella che si sceglie di avere, persino nel desiderare un amore violento, di quelli così alterati che nemmeno sai fin quanto ti incrinino l’animo e i pensieri.
A una certa ora di un dato giorno ci si sveglia, viene da dire: ed è l’augurio più bello che ci si possa fare. Che Mariantonia Avati ci fa.