Siedo al tavolo di un bar di fronte a una birra. Apro Facebook e nel giro di breve m’investe un’ondata di amarezza, di rabbia, di solitudine. Peccato. Solo cinque minuti fa ero nel luogo che ha ispirato La pioggia nel pineto. Collegarsi a Facebook equivale a vivere un groviglio di cattive emozioni. Me lo dice l’esperienza, naturalmente, ma ci sono anche autori che mi hanno insegnato a comprendere meglio ciò che sperimento mentre sono connesso a una piattaforma. Uno di questi autori è il filosofo Franco Berardi Bifo. E, sorpresa, la polemica che vedevo qua e là accendersi su Facebook, e che stava sollevando in me tanta amarezza, riguardava proprio lui, Bifo.
Mackda Ghebremariam Tesfaù, attivista e dottoranda in scienze sociali a Padova, è l’autrice di un articolo pubblicato in risposta a un pezzo di Bifo. Non ha senso riassumere qui i due articoli. Troppo complicato. C’entrano il virus, la quarantena e come i venti e i trentenni di oggi hanno reagito alla pandemia. È stato giusto che Mackda Ghebremariam Tesfaù si sia presa l’impegno di replicare. Bifo partiva da un paio di affermazioni non proprio veritiere e arrivava a conclusioni spigolose. Una risposta ci stava, eccome. Anzi, welcome. Ma quello di Bifo era anche un testo denso di spunti. Figuriamoci. Lo ha scritto Bifo. A monte ci sono pagine, osservazioni, analisi e chiavi di lettura del contemporaneo raccolte in un paio di testi scritti in questi anni e tradotti in mezzo mondo. Molti giovani e studenti, in America Latina, in mezza Europa o negli Stati Uniti, lo hanno invitato a parlare proprio di quei libri. Ci sarà un perché…
La replica di Mackda Ghebremariam Tesfaù è fiera, mai davvero cattiva, a tratti deliziosa, ironica, generosa di spunti di riflessione. C’è un passaggio in cui dice: «Noi invece abbiamo guardato i carri militari portare via le salme da Bergamo e siamo rimasti in casa. È stato detto che le riprese sono circolate apposta, come una “sottile” forma di governo della paura. Ma noi, che nella società dello spettacolo ci siamo nate, sappiamo già che con le immagini si fa politica, e siamo state capaci di sentire il silenzio dei saluti mancati sopra al rumore della macchina mediatica». Mi colpisce questa consapevolezza autobiografica e generazionale. C’è un’intuizione sui meccanismi più sottili della percezione. Mi sta dicendo, se ho ben capito, che la sua generazione, i millennial, hanno maturato una maggiore competenza emotiva nella decifrazione delle immagini e delle notizie. Poi il pezzo si conclude con un adesivo, un’immagine. Il che forse intende dire, tra le righe, che il millennial nella sua tecnica retorica adopera non soltanto i segni dell’alfabeto, ma le immagini che trova nel contesto per lui naturale della rete, e cioè meme, card, stickers, gif etc. Quando è pura decorazione e quando è una retorica al servizio della conversazione e quando, invece, è uno strumento affilato per la riproduzione del sarcasmo e degli affetti nichilisti prevalenti in rete, è un altro paio di maniche. Nell’adesivo è scritto: «Ok boomer!». E questa è la chiusa del pezzo. È la morale, spruzzata di humor.
Io sono ancora lì che scorro la timeline e bevo la mia birra. L’articolo è stato condiviso, ha ricevuto tanti like e cuoricini e viene brandito in polemica contro i vecchi, quelli di prima, degli anni Settanta, laddove il vecchio è proprio lui… Bifo. Non mi va giù. Per tanti motivi. Sono sconcertato per la leggerezza con cui vengono pronunciati giudizi così estremi («sfigato»; «fallito»), senza conoscere la vicenda passata e presente della persona. Non è più Franco Berardi Bifo, con una sua storia lunghissima e romanzesca e un percorso fra i più vivaci e longevi tra gli intellettuali europei a cavallo dei due millenni, ma è solo un rimbambito degli anni Settanta. Così come gli anni Settanta, del resto, non sono più un decennio con i suoi 1971, 1972, 1973; no, anni Settanta è una formula orecchiata in tv, una tag molesta, qualcosa che, in definitiva, ha rotto i coglioni.
Ci soffro e mi stupisco perché sono un buon lettore di Bifo. Il recente Diario della Pandemia, pubblicato sul sito di NOT, mi ha divertito, mi ha perfino intenerito, mi ha intrattenuto di fronte allo schermo con la sua varietà di accenti, di note, con le sue memorie avventurose, i suoi incontri umani, con la freschezza e la spregiudicatezza nel racconto del quotidiano nella quarantena, con il taglio dell’analisi, con le invettive, le citazioni, le sentenze, gli impulsi suicidari dichiarati (se non è questa vitalità!), la sua non autoindulgenza, l’autoironia sugli acciacchi fisici, il prendersi per il culo da sè, e mi ha commosso con quell’ostinazione ultima nel lasciare aperta la possibilità di un futuro, la possibilità dell’amore e della vita umana, quando cosi tante circostanze storiche ci assediano e inchiodano nell’impotenza. Non capisco come si possa considerare la voce di Bifo come quella di un nostalgico sopraffatto dal tempo e non, al contrario, la voce filosofica e poetante di qualcuno che vive nervosamente nel suo tempo.
Infine, rispetto a questa competizione tra giovani e non più giovani, confesso di sentirmi spiazzato. Non è miserabile una visione del mondo e delle generazioni fatta così? Non è anche di pessimo gusto? Non è maligna? Non è così banalmente edipica da far cascare le braccia? E non sarà per caso l’effetto di un liquame tossico uscito dalla Leopolda che anni dopo continua a circolare per inerzia? Non è l’ennesima polarizzazione che impedisce di guardare, non dico con magnanimità, ma con più comprensione filosofica l’arco biologico della vita? Se dovessi mai usare la parola «vecchio» come un’offesa, me ne vergognerei, mi taglierei la lingua. Forse sono confuciano. È un paradosso che Ghebremariam Tesfaù faccia un encomio del senso di responsabilità mostrato nei confronti degli anziani durante la pandemia e, poco dopo, non riesca a trattenersi dal dire «Ok boomer!».
Mackda afferma che la sua generazione in questi mesi si è presa cura di chi è più debole, compresi gli anziani; Bifo, iperbolicamente, dice che avrebbe dovuto invece fare come lui e i suoi amici di un tempo, cioè andarsene da casa e mettere su una comune. Da una parte la predicazione dei virologi che fonda, nel nome di un sentimento di responsabilità e amore per gli altri, una nuova etica; dall’altra la legge del desiderio. Circostanze della storia diverse. Posture diverse. Stadi alternativi. Altre condizioni della vita sociale. Strutture mentali dissimili, e forse, addirittura, una differente fisiologia e un diverso funzionamento neuroendocrino.
Non c’entra nulla l’anagrafe.