Sembra scritto apposta per questi nostri giorni trascorsi a macerare pensieri. Intanto, il titolo: Le peggiori paure. Poi, quell’illustrazione in copertina: il ritratto di una donna che con mano guantata si copre il volto, la bocca, il naso. Resta visibile solo una narice. Il minimo indispensabile – diresti guardandola – per respirare.
E invece, questo thriller psicologico, edito da Fazi, non c’entra nulla con il nostro annus horribilis. È una ripubblicazione (uscì per la prima volta nel 1996) e analizza, è vero, una catastrofe, che però non è planetaria o sanitaria, ma racconta una tragedia privata e sentimentale. La protagonista è Alexandra, celebre attrice teatrale baciata dal successo, in spola perenne tra Londra e il cottage di famiglia in campagna. Come in tutte le buone storie, la trama si racconta in una riga: alla morte improvvisa del marito Ned, la donna scopre quel che mai avrebbe voluto sapere.
L’autrice di Le peggiori paure, Fay Weldon, scrittrice e drammaturga inglese oggi 88enne, è del resto specializzata nel racconto di esistenze massacrate – nella fattispecie: catastrofi private riguardanti signore più e meno istruite, intrappolate in una struttura patriarcale, oppressiva, tipica della società occidentale (e in particolare britannica). Anche Alexandra, in effetti, è libera solo in apparenza. Per anni ha sostenuto suo marito, critico teatrale squattrinato, ma non si è mai preoccupata di tutelare i suoi diritti. Semplicemente ha fatto quel che andava fatto, come un soldato in guerra. Certo: sulle prime sembra emancipata e algida, incapace di smancerie e sentimentalismi. Ed è difficile, da lettori, provare compassione per una come lei, che per misurare la nostalgia mette in campo l’agghiacciante contabilità dei rapporti sessuali nel suo matrimonio: «Due volte alla settimana, se non una, nei mesi successivi alla nascita di Sascha – una media di tre volte alla settimana sembrava una buona previsione, benché prudente. Dodici per tre per cinquantadue. Milleottocentosettantadue scopate. Gesù. Non c’era da meravigliarsi se adesso, in fondo, si sentiva sola».
Sascha, facile intuirlo, è il bambino di Ned e Alexandra. Per l’intero svolgersi del romanzo resta confinato ai margini della storia, a casa di nonna Irene, al riparo dai turbamenti di una mamma fragile. Meglio così: per lui e per noi. «Smettila di frignare», dice Irene a sua figlia scorgendone un istante di debolezza. «È un tuo preciso dovere verso il pubblico quello di non piangere. Ti sciuperai il viso. E mi fai stare male. Mi sento impotente. Non mi piace lasciarti da sola. Ma non mi va neanche di riportare Sascha in una casa infelice come dev’essere il Cottage in questo momento».
Da un lato c’è la voragine dell’inattesa vedovanza, dall’altro una madre anaffettiva, ancor più egocentrica di quanto sia lei stessa. Schiacciato in un angolo il figlio di cui non riesce più a prendersi cura, in poche ore – che poi diventano giorni, e infine settimane –, Alexandra scopre sulla propria pelle come una vita che sembrava in equilibrio possa trasformarsi in incubo. Ne sappiamo qualcosa, noi che da troppo tempo siamo qui, chiusi nelle nostre tiepide case. Noi, che i drammi sentimentali li abbiamo momentaneamente (e a malincuore) accantonati, possiamo però leggendo Le peggiori paure, per qualche ora almeno, prenderci il lusso di tornare a pensarci. E seguire il pericoloso scivolare di Alexandra lungo un confine sottile – da un lato la tragedia che incombe, dall’altro l’humour nero che la salva. E ci salva, pur lasciandoci in bocca il retrogusto amaro della disillusione. Pagina dopo pagina è tutto un rincorrersi di dialoghi splendidi, intrisi di ironia e cinismo, meravigliose crudelissime istantanee di una vita di coppia fatta a pezzi. Bugie e tradimenti. E il desiderio insopprimibile di una donna che, messa di fronte al dubbio, sceglie di andare in fondo, improvvisandosi detective del suo matrimonio, scoprendo che le cosiddette amiche in realtà sono quelle cui non pare vero di spingerla oltre il ciglio del burrone, appena ne hanno l’occasione. Quelle abilissime a procurarsi lacrime da farsi scorrere lungo le guance – povera cara, e ora come farai tutta sola, chi l’avrebbe mai detto che tuo marito, in fondo dai, sembrava tanto un brav’uomo – ma in cuor loro ridono di gusto. Eh sì, in questa storia di stanze silenziose e di menzogne c’è una molla del letto che insiste a conficcarsi tra le scapole. Impossibile trovare una posizione comoda. Qui c’è una donna che ama, soffre, nega, prova a cambiare prospettiva, insiste e non si placa; pronta a barattare la propria salute mentale per la verità, pur non smettendo mai di recitare. Ferita ma non arresa, non teme di andare fino in fondo, fino a vedere le proprie peggiori paure avverate. In modo un po’ contorto (e, d’altro canto, irresistibile), i fatti le daranno ragione.