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Scrivere l’altrove. 1 | La letteratura di viaggio tra il mondo e l’ignoto

La prima puntata di una conversazione a più voci con Clara Arnaud, Pico Iyer, Davide S. Sapienza, Lodewijk Allaert e Guy Helminger su un genere letterario antico quanto la scrittura stessa

Fin dagli albori della civiltà e delle fonti scritte, esistono testi che raccontano di viaggi: viaggi in terre lontane, sconosciute e pericolose.
Ogni periodo storico può vantare i suoi racconti di viaggio. Nell’Odissea, il poeta greco Omero unisce il concreto al fantastico e al fiabesco; un’epopea che evoca l’idea di un vero e proprio viaggio iniziatico in cui la ricerca di se stessi è fondamentale. Per diversi secoli, il diario di viaggio è stato la porta d’accesso a un mondo straniero e sconosciuto. Alla fine del Medioevo, il famoso Libro delle Meraviglie del Mondo di Marco Polo (1298) offriva ai lettori europei una grande quantità di dettagli sulle società dell’Estremo Oriente. Un secolo e mezzo dopo, fu il grande viaggiatore di Tangeri, Ibn Battûta, a riportare le sue impressioni, talvolta un po’ fantasiose, sul mondo musulmano, spingendo le sue esplorazioni fino alla Cina. La stessa Cina ospitò poeti-viaggiatori come Xu Xiake (1586-1641), che trascorse quarant’anni attraversando a piedi l’immenso Regno di Mezzo, lasciando un resoconto dettagliato e fedele di ogni viaggio, scientifico nello spirito e letterario nell’espressione.
Il desiderio di scoprire, imparare, conoscere gli altri e informarsi sono le basi essenziali di ogni viaggio. Ma scoprire l’ignoto significa anche viaggiare dentro se stessi, e l’elemento autobiografico è una componente essenziale della scrittura di viaggio. Questa scrittura soggettiva aggiunge una dimensione letteraria al diario di viaggio, facendo la sottile ma decisiva differenza con un semplice resoconto: raccontata senza stile, come una semplice successione di eventi cronologici, la narrazione sarà di scarso interesse per il lettore. Allo stesso tempo, il diario di viaggio permette di fare antropologia narrativa, cioè di diffondere la conoscenza all’interno di un vero e proprio testo letterario. Il racconto si apre quindi alla geografia, alla storia, alle scienze sociali e ad altre vie.

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Il Libro delle Meraviglie del Mondo, Marco Polo

Questa grande varietà si riflette anche nel tipo di autore del diario di viaggio: poeti, romanzieri, storici, geografi, navigatori, ecclesiastici… una varietà di autori che corrisponde a una pluralità di diari di viaggio: dalla semplice osservazione al resoconto elaborato, carico di poesia e di emozioni, il racconto di viaggio lascia aperta la porta alla diversità narrativa. Tuttavia, questa fluidità e disparità di forme letterarie fa sì che la scrittura di viaggio sia talvolta relegata al rango di letteratura minore. Le lettere di nobiltà della letteratura di viaggio contemporanea le sono state conferite da scrittori anglofoni come Bruce Chatwin, autore di In Patagonia (1977) e The Songlines (1987) e pubblicato in Italia da Adelphi, e Paul Theroux, autore di The Great Railway Bazaar (1975), mentre per il mondo francofono possiamo ricordare il viaggiatore e scrittore ginevrino Nicolas Bouvier, autore di L’usage du monde (1963) e Le poisson-scorpion (1982). Per quanto riguarda l’Italia, invece, esiste anche qui una grande tradizione di esploratori e viaggiatori che hanno scritto delle loro esperienze, tra i quali possiamo ricordare Paolo Rumiz e Fosco Maraini, o ancora antropologi come David Bellatalla, esperto della Mongolia.

Ma di cosa parliamo veramente quando parliamo di scrittura di viaggio oggi, e che senso ha la scrittura di viaggio in un’epoca in cui noi occidentali abbiamo opportunità praticamente illimitate di viaggiare? E che dire dell’aspetto ecologico del “fenomeno del viaggio”? Per approfondire questi temi, abbiamo invitato cinque autori, ciascuno a suo modo, a scrivere di “altrove”: la scrittrice e viaggiatrice francese Clara Arnaud, lo scrittore e saggista britannico di origine indiana Pico Iyer, lo scrittore-poeta-sceneggiatore lussemburghese di lingua tedesca Guy Helminger, il viaggiatore e geopoeta italiano Davide S. Sapienza e l’esploratore e scrittore francese Lodewijk Allaert.

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La scrittura di viaggio può assumere molte forme e sembra sfuggire a qualsiasi tentativo di categorizzazione. Qual è la sua opinione personale?
Arnaud: La letteratura di viaggio è un decentramento della scrittura, scrivere da questa vertigine, da un altrove. Questo non significa necessariamente andare lontano; si può viaggiare lentamente e molto vicino al luogo in cui si è nati. Non appena si accetta di spostare la propria percezione del mondo, di diventare un estraneo – e quindi di guardare le cose in modo nuovo e curioso – allora c’è un approccio al viaggio e materiale di cui scrivere. Si tratta anche di scrivere in movimento, rifiutando di essere statici, rifiutando le certezze. Questo è l’altro modo in cui definisco il decentramento, la messa in discussione delle proprie certezze. Infine, la scrittura di viaggio è scrivere del mondo, spesso sul posto, scrivere del momento, della collisione tra sé e il mondo. Queste sono alcune idee. Dopodiché, uno scrittore di viaggi è colui che scrive racconti di viaggio? Non credo, o almeno non solo…

Iyer: Per quanto mi riguarda, credo che la migliore scrittura di viaggio non abbia quasi nulla a che fare con il viaggio, nel senso che la geografia e la destinazione giocano un ruolo minimo. Ciò che motiva il racconto di un luogo è l’ossessione e una domanda interiore che spinge lo scrittore ad andare avanti, anche se sa che non c’è possibilità di ottenere una risposta. È possibile scrivere di trasporto, di trascendenza, persino di trasformazione con un viaggio fisico come catalizzatore, ma in realtà è il viaggio interiore l’unico che ci può trattenere, soprattutto in un’epoca in cui possiamo vedere quasi ogni parte della terra online. Il viaggio, dopotutto, non riguarda il movimento, ma l’essere spostati. In altre parole, un Philip Roth può scrivere di Newark, New Jersey – e rendere quella città poco promettente una fonte di fascino e persino di esotismo – con più forza di quanto noialtri possiamo fare con Lhasa o la Terra del Fuoco.

Allaert: La scrittura di viaggio è una ricerca della nota giusta. Cerca di catturare la verità di un incontro o la sinfonia di un paesaggio. Si tratta di autenticità, verità e musicalità. Ma si tratta anche di trascendenza. Scrivere sul sentiero implica un cambio di prospettiva, una scossa ai principi consolidati, una crepa nella corteccia. La scrittura di viaggio scuote e ossigena la mente, ed è da questa alchimia che una penna attenta eleva l’apparente banalità delle cose al livello del meraviglioso.

Sapienza: Personalmente, non ho una definizione di “scrittura di viaggio”. Chiunque viaggi ha idee diverse sul viaggio: si viaggia perché si vuole seguire le orme di qualcun altro, oppure si viaggia per trovare una connessione più profonda con se stessi e con il mondo, si viaggia per esplorare, scoprire, conoscere altre culture e luoghi, e così via: oppure si viaggia perché si vuole scrivere. Io ho viaggiato perché volevo viaggiare e assorbire tutto quello che potevo. Per incontrare altri mondi. Alla fine, è tutta una questione di perché e di come: viaggiare perché è meraviglioso, viaggiare leggeri, viaggiare senza piani, essere aperti a qualsiasi cosa accada. Altrimenti non è un’avventura, ma una cosa preconfezionata, un pregiudizio, piuttosto che una ricerca di qualcos’altro, di un terreno più alto, di un ritorno a casa, al nostro io più profondo.

Cosa è venuto prima: il viaggio o la scrittura?
Allaert: La scrittura di viaggio soffre dell’idea che per giustificare la pubblicazione basti sfiorare l’esotico. È un’illusione. Uno scrittore di viaggi deve essere in grado di trascendere l’esperienza facendo emergere il reale. E la realtà, credetemi, è molto più complicata da ricreare rispetto alla finzione guidata dall’immaginazione. Personalmente, ho iniziato osservando ciò che vedevo, ma anche ciò che non vedevo. Mi sono preso il tempo di fermarmi a riflettere su ciò che stava accadendo. Credo che tutto cominci dalla nostra capacità di accogliere ciò che accade. Per me, viaggiare e scrivere sono una continuazione di questa inclinazione a vivere pienamente l’esperienza di essere presente.

Iyer: Per me viaggiare è sempre stato un modo per scrivere, e se posso fare a meno di viaggiare, raramente ne sento la mancanza. Nei miei primi anni di vita, viaggiare era un modo per vedere il mondo. In seguito, è diventato un modo per cercare di uscire da un lavoro d’ufficio, come ho fatto a 29 anni, e stare da solo nel mondo, con i miei libri e i miei pensieri, per vedere l’essenziale e pormi domande su me stesso e sul mondo. Sono andato in Corea del Nord per vedere il prezzo dell’idealismo, ho attraversato la mia Inghilterra per confrontare lo scetticismo e la fede, ho viaggiato a Cuba per vedere come la passione e il disincanto convivano e addirittura si alimentino a vicenda. I viaggi mi hanno liberato dalla vita quotidiana per affrontare preoccupazioni più profonde. Da bambino sentivo che i miei due imperativi erano capire il mondo nel suo insieme, dallo Yemen all’Isola di Pasqua, e cercare di capire l’io che osservava quel mondo. Viaggiare a volte diventava un modo per cercare di rispondere a queste due domande allo stesso tempo.

Arnaud: Entrambe le cose. Un viaggiatore che scrive non è sufficiente per fare uno scrittore. Basta vedere la qualità letteraria – a mio avviso mediocre – di molti diari di viaggio. Né uno scrittore che viaggia è necessariamente uno scrittore di viaggi. Uno scrittore di viaggi, se esiste una definizione, è soprattutto un autore la cui letteratura è fondamentalmente legata allo spostamento e al decentramento, all’altrove. Scrivere di viaggi è come estrarne l’olio essenziale. Si tratta di condensare un’enorme quantità di materiale. Ma sono soprattutto le lunghe esperienze di immersione, lontano o in Francia, che hanno alimentato la mia scrittura, soprattutto romanzi. Dai miei viaggi ho conservato la pratica di prendere appunti sul posto, di scrivere dal campo, di osservare e immergermi in territori e mondi sociali. E poi, ovunque vada e da qualsiasi luogo scriva, cerco di applicare una sorta di etica del viaggiatore rispettoso, cerco di non comportarmi mai come uno che si trova su un terreno conquistato. Osservare molto, capire.

Helminger: All’inizio c’erano le parole. Da giovane non volevo affatto viaggiare: la lettura, cioè il viaggio letterario, mi sembrava sufficiente. Non avevo bisogno di essere sul posto. Oggi invece credo che questo punto di vista sia assurdo. Sono sicuramente uno scrittore che viaggia. D’altra parte, il viaggio permea il mio lavoro a tal punto che oggi posso dire che il viaggio è diventato una parte fondamentale della mia scrittura, e si trova non solo nei miei diari, ma anche nelle mie poesie, nei romanzi, nei racconti e nelle opere teatrali.

(Segue)



In copertina: Henri Rousseau, Il sogno, 1910

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