These memories, which are my life – for we possess nothing certainly except the past – were always with me.
(Evelyn Waugh, Brideshead Revisited)
Forse incautamente, qualche anno fa ho pubblicato un romanzo intitolato Annette (Wojtek), che ha per protagonista un’ex pornostar tedesca di nome Annette Schwarz, attiva tra il 2002 e il 2014. Il romanzo è stato scritto all’incirca tra gennaio e giugno 2019, e racconta la storia di un uomo (che porta il mio nome e cognome) ossessionato da lei. A differenza di altre protagoniste di quella stagione del porno, Annette non ha mantenuto una visibilità pubblica, una presenza digitale riconoscibile, e dunque il mio protagonista cerca di sopperire a quella che gli pare un’assenza irrimediabile immaginando la vita di lei, o meglio, le parti della sua vita che sono rimaste fuori dagli schermi. Collazionando documenti di vario tipo, tutti realmente esistenti, il protagonista ne ricostruisce una biografia, ma riempie i buchi tra una fonte e l’altra con la sua immaginazione. Quello a cui ambivo, e che spero di essere riuscito a fare, era di raccontare quella particolare intersezione di realtà e finzione che caratterizza la pornografia, e dunque la nostra vita.
Con la scrittura di questo romanzo, ho cercato di raccogliere tutte le tracce disponibili sull’esistenza terrena di Annette, ma non ho mai provato, nemmeno obliquamente, a mettermi in contatto con lei. Nel libro simulo continuamente che il mio protagonista provi a contattare Annette e le persone a lei vicine, che scriva a individui (di nuovo, tutti reali, a differenza sua) che in varia misura potrebbero conoscerla, da un giornalista che aveva scritto di lei a un autore e collega come Alessandro Raveggi, che ha lavorato nella stessa università dove ha tenuto qualche lezione Lorelei Lee, attivista e a sua volta attrice porno e amica di Annette. Nulla di tutto questo, tuttavia, è mai avvenuto.
Io non sono nemmeno mai stato (spero non serva dirlo; ma chissà) ossessionato da Annette Schwarz. Si tratta di una performer per la quale ho sempre nutrito una passione particolare, direi persino una forma di stima, ma non ho mai sentito un coinvolgimento sentimentale. L’idea di raccontare la storia di un uomo ossessionato da lei era un modo per lavorare su delle domande che trovo importanti (cosa succede dentro chi si fissa così su un fantasma? Quand’è che i prodotti della finzione cominciano a influenzare il modo in cui desideriamo?), e parlare proprio di Annette mi avrebbe permesso di giocare in casa, per così dire; la conoscevo, conoscevo il suo lavoro, avevo familiarità con quello delle persone con cui aveva collaborato. Nei sei mesi di stesura del romanzo, gran parte dei miei pensieri e delle mie attenzioni è stata dedicata ad Annette, questo è vero; a visionare i suoi film e a cercare di scoprire qualche dato sulla sua vita, mettendo a confronto interviste lacunose, voci di corridoio in contraddizione, e così via. Se scrivere significa immergersi in vite diverse dalla propria, questo è stato particolarmente vero nel mio caso, visto che si trattava non di vite di finzione, ma di quella di qualcuno realmente esistente.

Non è facile per me dire cosa cercassi, scrivendo. A mente fredda direi che volevo dimostrare un teorema, usare il porno come una lente che restituisse ingigantite una serie di contraddizioni del nostro tempo o almeno della mia vita, del mondo in cui viviamo e della rappresentazione incessante a cui è sottoposto, del modo in cui ci viene naturale desiderare e di come le tecnologie si sono intromesse in questa naturalità. Ma raramente la mente è fredda. Ho un ricordo di quei mesi come un lungo sogno febbricitante, ma è vero anche che si trattava di un periodo complicato (la fine di un dottorato e di una relazione, un trasferimento oltreoceano), e dunque non imputerei tutta la confusione della memoria alla sola scrittura. Eppure ci sono state giornate di saturazione, troppe ore spese a guardare film zeppi di carni via via sempre più indistinguibili, momenti in cui non capivo più chi o cosa stavo inseguendo, quanto i sentimenti che attribuivo al mio protagonista omonimo fossero inventati e quanto fossero miei – e quanto fossero miei quelli che attribuivo ad Annette. A volte mi viene il sospetto di essermi semplicemente illuso, di avere cercato di nobilitare una passione eccessiva per la pornografia; un bisogno banale in chi, come me, come forse tutti gli intellettuali, è insieme animato da scrupoli morali e compulsioni alla razionalizzazione. Altre volte so quello che cercavo, anche se pure dopo tutti questi anni mi è difficile spiegarlo a parole; l’ossessione di ogni pornografo e pornofilo di riuscire a catturare per sempre quell’espressione, quel fotogramma, quella posa, quei pochi secondi in cui si manifesta qualcosa (l’assoluto? Una combinazione di impulsi chimici e pieghe del ricordo?) che ci sembra sia tutto, che sia irripetibile, che assommi in sé esattamente quello che di cui avevamo bisogno senza saperlo.
Quando ero ragazzo, prima degli smartphone, quando era più complicato accedere alla pornografia, leggevo racconti erotici. Un sito che frequentavo esiste ancora, con un archivio ormai ventennale: più di venticinquemila racconti, milioni e milioni di parole scritte da una torma senza volto di individui. Un monumento partecipativo alla frustrazione della lussuria in solitaria. C’erano racconti brevi e sgrammaticati di quanti a un certo punto hanno sentito il bisogno di mettere nero su bianco una fantasia, un’immagine, una scena che li tormentava; c’erano le lunghe saghe, fatte di molti episodi, in cui si documentavano geometrie sempre più complesse del desiderio, parafilie eccezionalmente specifiche che trovavano modo di manifestarsi in una realtà che sembrava ruotare in maniera esclusiva intorno ad esse. La ragione per cui quei racconti esercitavano un fascino quasi ipnotico su di me la capisco bene, oggi: perché erano scritti non nella lingua della letteratura ma in quella allucinata e bituminosa della monomania. Pagine e pagine che designavano infiniti mondi autoconclusivi, ermetici, in cui tutto esisteva solo in funzione del coito, anzi, in funzione di forme molto singolari di coito, di feticismi puntuali, di idioletti dell’immaginazione. In questi testi la realtà scompare, esiste solo il desiderio, ogni evento della vita e ogni interazione ruota intorno a una sua piega peculiare – la masturbazione coi piedi, la pioggia dorata, il cuckolding… Ecco, a volte mi sono detto che riuscire a scrivere un libro che restituisse al lettore quella sensazione, che rendesse comprensibile il mio idioletto, sarebbe stato uno scopo degno.
Il romanzo, dunque, è stato scritto senza che tra me e Annette ci fosse alcun tipo di comunicazione, né ce ne sono state tra la fine della stesura e la pubblicazione – due anni durante i quali ho trovato un editore al testo, abbiamo fatto un lavoro di editing, corretto le bozze, e così via. Questa cosa è cambiata nel momento in cui, preparando l’uscita, ho chiesto al mio editore di fare avere una copia del libro a Mario Desiati. Desiati aveva scritto, qualche anno prima, un romanzo sul porno intitolato Candore (Einaudi), che toccava temi non dissimili dal mio e in cui veniva citata, tra le altre, pure Annette. Mario (che all’inizio, come mi ha rivelato più tardi, credeva che lo stessimo prendendo in giro: non gli pareva vero che qualcuno avesse scritto un romanzo su Annette Schwarz) ha letto il libro, lo ha apprezzato, e ne ha parlato a un suo conoscente ben inserito (da curioso e non da professionista) nel mondo del porno italiano; questi, a sua volta, ne ha parlato ad Annette – la vera Annette. Le mie ricerche, quelle che avevo svolto per il libro, mi facevano pensare che Annette si fosse ritirata in Germania, e proprio lì avevo ambientato la scena finale del mio romanzo; al contrario, ho scoperto, Annette viveva ormai da molti anni in Italia.
Il 28 giugno (menziono la data solo perché era il mio compleanno: un’ulteriore coincidenza surreale in una vicenda già surreale di suo), pochi giorni prima dell’uscita del romanzo, trovo un messaggio nella sezione “richieste” dei DM di Instagram. Era un messaggio abbastanza lungo, scritto in un italiano un po’ tentennante, in cui la persona che me lo aveva mandato mi ringraziava per il libro, di cui aveva avuto notizia e che si sarebbe apprestata a leggere il prima possibile. Era un messaggio di Annette. Naturalmente, pensai che si trattasse di uno scherzo particolarmente crudele fattomi da qualche troll o da un amico invidioso. Le foto sul profilo, a un primo sguardo, non ricordavano molto Annette; la persona che vi era ritratta era molto più atletica, e soprattutto la qualità delle foto era altalenante – la luce spesso era sbagliata, non rendeva giustizia al suo viso (del resto, perché qualcuno abituato a essere fotografato avrebbe dovuto anche sapersi fotografare? Io non so fare né l’una né l’altra cosa). Eppure, a guardare più da vicino le foto, quella non poteva che essere Annette: i suoi tratti somatici, il suo naso, la fronte spaziosa, gli occhi tiroidei, come li chiama Desiati – tutto apparteneva a lei. E si trattava di foto e di video che non potevano essere scambiati per falsi (scatti professionali acconciati per sembrare presi dalla vita quotidiana, qualche behind-the-scenes), bensì di immagini che avevano una loro coerenza interna e tra loro, scattate in spazi effettivamente abitati, non nelle cavernose ville della San Fernando Valley. Annette cucinava, si allenava in salotto. Sotto, a commentarle, c’erano soprattutto amici, e poi qualche fan saltuario, col profilo anonimo ma zeppo di foto di lei che risalivano al suo periodo di attività; segno che, se Annette non pubblicizzava apertamente il suo passato, nemmeno lo nascondeva.

Il mio dialogo con Annette (il primo vero scambio tra noi, dopo anni di miei soliloqui) cominciò dunque così, con un messaggio su Instagram; rispondendo, le dissi che non potevo crederci, e tutta la serie di banalità che si dicono in questi casi. Il modo di comunicare di Annette sui social è abbastanza peculiare, e ha a che fare, credo, col fatto di non essere madrelingua. A volte si imbarazza a scrivere messaggi lunghi, a volte omette di rispondere, ma non si permette mai di essere assente. Annette lascia sempre una reaction alle storie in cui si vede il libro, e condivide i miei post. Nemmeno mia madre ha mostrato un simile entusiasmo incondizionato per la mia uscita letteraria (anche perché le ho proibito di leggerla).
L’atteggiamento di Annette mi ha rincuorato, visto che una delle mie grandi paure, nel momento in cui smetteva di essere solo un personaggio letterario, era che potesse trovare il romanzo impreciso o superficiale, il suo ritratto irrispettoso o banalizzante, o semplicemente che fosse furibonda (e avrei potuto biasimarla?) che mi fossi appropriato così della sua vita, ancorché attingendo esclusivamente a informazioni di dominio pubblico. Al contrario Annette, come mi scrisse in uno dei suoi primi messaggi, avrebbe avuto piacere di conoscermi, di parlarmi, di offrirmi un caffè, per ringraziarmi della mia dedizione. Questa gentilezza a me suonava fantasmagorica, inaudita, perché cosa avevo fatto che meritasse un ringraziamento? Avevo solo dato voce a qualche pensiero, proiettato vecchie elucubrazioni masturbatorie su una persona che non conoscevo davvero.
Purtroppo l’evenienza di incontrarsi e salutarsi era impossibile, perché quando Annette mi ha scritto io mi trovavo negli Stati Uniti per lavoro. Stavo facendo ricerca all’Università del North Carolina a Chapel Hill, dove vegetavo nella canicola dell’estate a cui un mix di burocrazia e restrizioni legate al Covid mi avevano costretto. Puntualizzo questo per dire che il dialogo online tra me e Annette non è la storia del nostro incontro, semmai uno schermo ulteriore tra noi. Se fossi stato in Italia mi sarei precipitato da lei, ma in quelle circostanze subivo questo supplizio di Tantalo – quell’occasione straordinaria che mi si presentava solo quando ero irrimediabilmente lontano. E se avesse cambiato idea? E se poi non avesse più voluto vedermi? O se semplicemente fosse scemato l’entusiasmo, o fosse rimasta delusa dallo scarso successo del mio libro, se avesse scoperto il mio bluff. Questi pensieri mi tormentavano mentre mi trovavo forzatamente lontano dall’Italia.
Poi a settembre ebbi modo di tornare per un paio di settimane, e in quei giorni organizzammo una presentazione di Annette.
Chi scrive di pornografia e di ossessioni erotiche spesso riduce gli oggetti del desiderio a cartonati senza spessore, a bambole gonfiabili o peggio ancora a idoli intoccabili. Io ho cercato di evitare tutto questo in Annette, mi sono sforzato di presentarla come una donna qualsiasi che ha fatto (questo sì) delle cose straordinarie. Non lo dico per posa, credo davvero siano straordinarie: non tanto le coreografie erotiche, le folle a cui si è data, l’averlo fatto davanti alla telecamera, ma proprio avere avuto il coraggio di andare a fondo del proprio piacere, del proprio desiderio. Questa è una delle cose più rare: nessuno vuole davvero quello che desidera.
Quando si scrive di pornografia, in letteratura, si manifesta spesso una certa pudica paura verso quello che si sta raccontando, e si cerca di allontanare da sé l’oggetto della rappresentazione ora con la censura, ora con l’ironia, ora con il lirismo; e lo si fa perché si teme l’effetto che quello che si rappresenta potrebbe avere su di sé se davvero gli si permettesse di dispiegare la propria forza. La pornografia spiccia sarà sempre più eloquente delle sue rimasticazioni letterarie. Io ho cercato di non passare per questi mezzi, e di confrontarmi con l’oggetto della mia rappresentazione: il mio romanzo non parla solo di come mi sento io rispetto ad Annette, ma soprattutto cerca di capire chi fosse (chi avrebbe potuto essere) Annette Schwarz, cosa poteva significare per questa ragazza cresciuta in provincia di Magonza darsi al porno, trasferirsi in USA, e così via. Ho immaginato una donna intelligente ma non intellettuale, sensibile ma non sentimentale, che usa il sesso per conoscere se stessa e il mondo e che proprio per questo sa dargli il valore che merita – nel bene e nel male.
Le cose finte, le cose inventate, sono sempre più intense di quelle reali. Lo sono perché non sono qui, perché a priori non possono esserlo, e la loro irraggiungibilità ci frustra, costringe a un moto incessante il cervello e il cuore. Lo spazio dell’invenzione è il solo su cui abbiamo completo controllo, ma il prezzo di questo controllo è l’impossibilità di colmare la distanza che ci separa da esso. Per questo, quando Annette mi ha contattato a proposito della presentazione, dicendomi che le sarebbe piaciuto tanto venire, ho cercato di dissuaderla: non me la sentivo di farle fare così tante ore di macchina (si trovava in Liguria, in quel momento) per quella che sarebbe stata, in fondo, una chiacchierata tra amici… La mia era una preoccupazione sincera, perché chi ha poca familiarità col mondo dei libri si aspetta sempre qualcosa di solenne dalle presentazioni, qualcosa con dei crismi di ufficialità, quando invece si tratta di occasioni alla buona, spesso ai limiti del deprimente.
Annette mi ha detto che andava bene, sarebbe stato per un’altra volta.
(Segue)
In copertina:
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