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Tra le trame della realtà dove prende corpo il reale (e si fa disegno). Intervista a Daniele Kong

“Bestie in fuga”, il fumetto come strumento di osservazione dell’Italia degli anni del boom economico

Autore esordiente per la casa editrice Coconino Press, Daniele Kong ha pubblicato alla fine del 2024 il suo primo fumetto di ampio respiro, Bestie in fuga. La storia è ambientata sull’isola di Dieci, un territorio immaginario, ma molto vicino ad altre isole che costellano il Mar Tirreno. Siamo negli anni Cinquanta, in un momento in cui la modernità e le luci del Boom Economico si affacciano sulla comunità isolana, legata alla pesca e alle proprie tradizioni. Da queste premesse, Daniele Kong realizza un vero romanzo a fumetti, un volume complesso, ricco di trame e sottotrame, di personaggi vividi quanto la lingua che parlano, di riscatti e di fallimenti e, forse soprattutto, di solitudini condivise.
Abbiamo fatto alcune domande all’autore su questo suo esordio, certamente una sorpresa tra le uscite fumettistiche del 2024.

Daniele Kong

Bestie in fuga è una storia distribuita su diverse trame, un intreccio corale i cui personaggi donano al racconto una varietà di prospettive sul mondo, sulla vita, sull’isola di Dieci. Anche a fronte di questa complessità, emergono in maniera chiara alcune questioni che ti premeva sollevare. C’è una certa tensione tra quello che volevi raccontare e il modo che hai scelto per farlo, con una coralità che certamente ha reso tutto più complicato, ma anche più ricco. Per cominciare, quindi, ti chiederei come è nata questa storia e come è nato il fumetto in cui la racconti.
Non ero partito con l’idea di scrivere un libro, ma con quella di cercare nel fumetto un linguaggio al quale potermi sentire vicino. Era un periodo in cui disegnavo compulsivamente brevi dialoghi tra personaggi con una certa frustrazione, perché non riuscivo a trovare nelle tavole quell’autenticità primigenia che sentivo quando quelle scene le immaginavo. Dopo decine e decine di tavole buttate, questi brevi dialoghi sono diventati sempre più articolati e gli sfondi d’acqua, solo abbozzati, hanno cominciato ad avere una definizione fisica più chiara, sono diventati un’isola e un tempo storico. Ogni tanto mi venivano suggestioni nuove per dei personaggi e senza neanche accorgermene mi sono trovato a gestire una decina di protagonisti. A questo punto ho avuto bisogno di stendere una scaletta, di far tornare gli archi narrativi dei personaggi in alcuni punti salienti della narrazione e sono andato avanti con tutto il repertorio della stesura di una sceneggiatura. Infine, ho usato il diario del protagonista come possibilità di lasciarmi spazi di scrittura in prosa, che è un campo in cui ho avuto più occasioni di cimentarmi rispetto a quello del fumetto puro.

Quindi hai esperienza di scrittura in prosa? Perché viene da pensarlo, leggendo il diario di Franco.
Scrivo molto, prendo appunti di continuo. È un modo che uso per evidenziare cose che vedo, che penso o che leggo. Vivo con uno sketchbook in tasca, in cui disegno e scrivo compulsivamente da quando ero un ragazzino. Forse volevo che Bestie in fuga, per sentirlo mio, avesse lo stesso approccio libro. Questo da una parte comporta il rischio di non arrivare mai al punto delle cose, dall’altra però, mi permette di fare voli pindarici a cui cerco di dare un senso, con un po’ di artigianato. D’altra parte, il disegno, nei fumetti che mi piacciono, è usato come strumento e non come fine: nel fare questo libro ci sono state tavole che ho concepito in giorni interi e disegnato in dieci minuti, o viceversa. È la meraviglia di questo mezzo di espressione, la possibilità di suggerire in lettori e lettrici un mondo molto realistico attraverso un segno che non descrive, ma piuttosto evoca; quando ci si riesce è una specie di incantesimo.

Parliamo della scelta del luogo e del periodo: l’isola di Dieci, gli anni Cinquanta e il boom economico. Hai unito un periodo storico preciso con un luogo di finzione, che però mostra dei riferimenti a territori reali, quello delle isole del Tirreno. Per te è stato un tornare in questo contesto o un andarci per la prima volta?
Direi la seconda: non avevo la velleità di raccontare un ricordo e nemmeno di celebrare un periodo storico. Per me è stata un’occasione per raccontare la contemporaneità piazzando la telecamera non nel momento in cui siamo, ma nell’istante in cui tutto stava cominciando a muoversi nella direzione che ci ha portato qui, dove siamo ora. Secondo me era interessante mettere al centro quella specie di moderno Big Bang, l’istante in cui l’Italia ha smesso di essere quello che era fino al dopoguerra e ha iniziato a diventare quello che è oggi. Poi non si tratta solo dell’Italia, è stato un movimento di buona parte dell’Occidente, se vogliamo chiamarlo grossolanamente in questo modo. Sappiamo che è successo qualcosa di importante dal punto di vista storico, economico, politico e sociale negli anni Cinquanta e Sessanta e raccontare quel momento mi dava la possibilità di raccontare l’insieme di potenzialità negative e positive che hanno portato alla nostra contemporaneità. Inoltre, si tratta di una narrazione portata avanti da un punto di vista vergine, per così dire: Franco è un ragazzo giovane che viene da un contesto legato alle tradizioni, da un mondo completamente scollegato da questo tipo di emancipazione, e mi sembrava una prospettiva da una parte spietata, ma dall’altra autentica e priva di pregiudizi. Priva, soprattutto, dei giudizi politici espliciti con cui mi sono formato e che avrei rischiato di inserire nella storia. Per me era chiaro che non doveva essere una persona politicamente formata a parlare di questa matassa di cambiamenti, altrimenti il fumetto sarebbe diventato un manifesto, e non avevo né le intenzioni né le competenze per scrivere qualcosa del genere.

Direi che questo ti ha permesso di mantenere la complessità data dai diversi punti di vista.
È ciò cui tengo di più. Cercare di raccontare la complessità del reale. So che è un discorso scivoloso e che rischiamo di entrare nel campo della filosofia, di cui proprio non possiedo gli strumenti. Però per me esiste ‘la realtà’ e poi esiste ‘il reale’. La realtà è la nostra sicurezza, ciò cui facciamo idealmente affidamento. Quello che ho disperatamente cercato di fare è stato di cogliere oltre la cornice della ‘realtà’ anche il ‘reale’, cioè il trauma che distrugge l’abitudinarietà e la rassicurante costanza della realtà.

Daniele Kong

Collegandoci a questi aspetti, potremmo dire che Bestie in fuga è un fumetto sociale, sia per i cambiamenti che mette a fuoco sia per la prospettiva adottata, quella di chi, per ragioni diverse, si trova a dover fare i conti con una solitudine (familiare, economica, culturale e sociale). Questo però senza voyeurismo o paternalismo, anzi, critichi esplicitamente «il fascino della borghesia per il margine». Quindi ti chiedo (ed è una domanda su cui si dibatte da tempo): come si racconta il margine senza sovrapporre a esso il proprio sguardo? Come si dà voce a una solitudine senza sovrapporre la propria, di voce?
Direi tentando di seguire il principio della sospensione del giudizio e prendendo coscienza che in una vita non c’è mai solo marginalità e solitudine, neanche quando è ciò che vogliamo mettere a fuoco. Personalmente, il rischio di ‘doppiare’ inconsciamente con la mia voce un protagonista, l’ho corso quando non lo avevo ancora capito bene. Insomma, lo scopo è tentare uno sdoppiamento di personalità, diventare quella vita. In un primo momento è stato faticoso: riuscire ad arrivare a una credibilità che mi soddisfacesse ha significato riscrivere decine di pagine per decine di volte finché, un giorno, i personaggi hanno cominciato a parlare da soli. Quelli sono stati i primi momenti gratificanti dopo mesi di insoddisfazione. Quando si leggono o si guardano i giganti della narrazione delle marginalità, come Ignazio Silone, Pasolini, Kiarostami o Mathieu Kassowitz, si finisce per dimenticare che i personaggi delle loro storie sono stati scritti dalla stessa persona. Nelle loro opere non ci sono umanità condannate al ruolo perenne di vittima o di epico paladino, ma si ritrova la caotica e pluridirezionale realtà della vita.

C’è un lavoro molto attento anche sulla lingua, attraverso la costruzione di un dialetto che ha riferimenti molto chiari e che riesce a rendere il modo di parlare dei personaggi, ma anche il loro modo di essere e, in un certo senso, di pensare. Ci sono cose che, per sintesi e densità, si possono dire solo in dialetto. Come hai lavorato a questo aspetto e che ruolo ha avuto all’interno del fumetto?
Il dialetto è il modo in cui sono abituato a relazionarmi con le persone: nel 90% del mio tempo sento parlare in dialetto, è molto difficile trovare qualcuno che mi parli in italiano. Quello che da lettore e da spettatore cerco avidamente è la spontaneità del linguaggio: è il primo aspetto che mi fa apprezzare un fumetto, un romanzo o un film. Quindi è fondamentale per me che i dialoghi risultino quanto più naturali possibile e, a mio avviso, in Italia questo non si può fare con il solo italiano, a meno che non si stia raccontando un giallo ambientato al circolo della Crusca. Nel mio caso parliamo di pescatori su un’isola del Tirreno e di manovalanza cinematografica romana in un’Italia ancora scarsamente alfabetizzata: è chiaro che nessuno avrebbe mai parlato due parole d’italiano.

Daniele Kong

Una dinamica rilevante in Bestie in fuga è quella della lotta ai privilegi animata dalle migliori intenzioni, che però finisce per consolidarli davanti all’avanzata di «una fame d’aria per colpa dell’inutile», di desideri che prima non si sapeva di avere. Cito dal diario di Franco: «A Dieci mica lo sapevamo di essere poveri prima che Tito si comprasse la televisione». Una domanda, anzi due, sorgono spontanee dalla lettura del fumetto: un certo sistema di valori, forse utopico, basato sulla solidarietà, sul fare comunità e andare tutti allo stesso passo, ha perso? Quei valori sono stati traditi? E soprattutto, era davvero inevitabile?
Senza dubbio si è persa nella maggioranza della popolazione un’interpretazione sociale del reale, almeno da una quarantina d’anni, per passare gradualmente a una visione più nichilista, individuale e ‘famigliare’. Dopo un ventennio di centralità della vita politica comunitaria, iniziato dalla metà degli anni Sessanta fino all’inizio degli anni Ottanta, fatto di scontri, di rivendicazioni sociali e civili, di lotta armata e di attentati, immagino che riuscire a mettere al centro del mondo, nel pieno del rilancio economico del Paese, il proprio salotto, le abat jour, la moquette, le ciabatte in lana merinos e la televisione commerciale, sia sembrato a molti la realizzazione di un sogno. Quel passaggio, negli anni Ottanta, ha sancito prima la vittoria del privato sul pubblico e poi del privato sul politico. Man mano questa vittoria è diventata la radicalizzazione di uno stile di vita sempre più privatizzato in cui lo status vinceva su ogni altro aspetto. Allontanarsi dai precedenti valori, da quelle vecchie forme di solidarietà e di comunità è sembrato a molti, in quel momento, una forma di emancipazione perché stava andando quasi tutto bene. Ora che quel sistema inizia ad andare in frantumi e non ci sono più quelle condizioni, si colgono i limiti di questo isolamento autoimposto che ha permesso alle istituzioni conniventi, nei decenni, di smontare pezzi interi del nostro stato di diritto e di appaltarlo a privati. Ora, se questo fosse inevitabile non lo so, ma capisco che le lusinghe di una vita comoda, forse, in quel momento, erano difficili da rifiutare. D’altra parte, anche ora che la nave cola a picco continuo a vedere una candida fiducia in questo sistema che molti pensano possa sempre essere aggiustato con poco sforzo. Uno sforzo così piccolo che non si realizza mai. Non vorrei commettere il reato di citazione di Mark Fisher, ma credo che questa sia una manifestazione della sua idea di Realismo Capitalista.

Guarda, è un bene che tu abbia citato Fisher, perché lo avrei fatto io. La mia impressione è che ci siano dei fumetti italiani contemporanei che mettono a fuoco proprio questa necessità di cambiamento radicale della contemporaneità. Diciamolo, il modello economico liberista e capitalista non è più sostenibile. Anzi, non è più sostenibile per un numero sempre maggiore di persone. Dall’altra parte, però, si racconta anche l’impossibilità di un vero cambiamento radicale. È da poco uscito La grande rimozione di Roberto Grossi, nel quale viene ripresa la celebre frase di Fisher «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Anche Lo schermo bianco di Enrico Pinto, attraverso una storia d’amore che incrocia il thriller, racconta il desiderio frustrato di un cambiamento radicale. Bestie in fuga sembra inserirsi in questo solco. Non ti chiedo quali possono essere le alternative, ma cosa può fare il fumetto in questo senso, sia come medium per raccontare una storia, che come settore della cultura.
Il fumetto è un medium che riesce a essere, da sempre, meno attaccabile degli altri. È riuscito a rimanere molto libero, probabilmente anche grazie al fatto che non ha bisogno di grossi finanziamenti per essere realizzato. Questa libertà si dovrebbe trasformare nel desiderio di rimanere sempre vicini ai propri intenti iniziali e soprattutto di perseguire una radicalità senza filtri nel racconto. Rispetto a parecchi film e serie tv che hanno processi di produzione molto lunghi, burrascosi e artificiosi, un fumetto ha modo di uscire in maniera più breve e diretta. Su cosa può dare il fumetto come settore della cultura, ti direi che ci sono entrato da pochissimo come autore e che lo sto ancora capendo; quindi, non so se ho una risposta. Quello che ho trovato in questi primi mesi di presentazioni nelle fiere e nei contesti di settore, è stata una buona complicità tra autori ed editori e anche una grande apertura ai nuovi arrivati come me. Quello che mi auguro possa fare questa realtà per sé stessa è restare una collettività inclusiva; quello che può fare per la necessità di cambiamento è tirare fuori tante voci nuove e tante belle storie che generino voglia di stare per strada, riconciliare le persone con la vita e con gli altri.

Un altro elemento importante negli equilibri del tuo fumetto è il ritmo. Questo è ricco di pause, quasi sincopato: unisce un tempo sospeso, legato alla natura e ai suoi ritmi, con il fervore di alcuni personaggi. Ci sono tempi infiniti in scambi di sguardi, in certe sigarette. Come hai lavorato al ritmo del racconto e alle pause?
In effetti è un aspetto cui tengo. Per condurre le scene le rileggo ossessivamente: lavoro con due schermi: sul primo ho la singola tavola aperta con Photoshop, mentre sull’altra ho il libro, distribuito a coppie di tavole a scorrimento su InDesign. Mi muovo per blocchi di quindici o venti pagine a seconda della scena, e la rileggo fino a quando non mi torna tutto, quasi come una canzone, un flow. In questo modo mi accorgo se ho un ritmo molto serrato in una data tavola, magari con un dialogo incalzante, e capisco che dopo quel fiume di parole serve mettere un punto o una pausa. È veramente qualcosa di musicale. Io sono un ascoltatore onnivoro, suono anche, ho cominciato a suonare ancora prima di disegnare. La musica era ed è la base della mia esistenza, mi dona suggestioni e mi potenzia la realtà. In Bestie in fuga i silenzi sono fondamentali, perché è un fumetto in cui si parla parecchio, poi c’è anche Franco che scrive, insomma, ci sono tante parole; di conseguenza i momenti di silenzio o le sigarette di cui parli sono pause riflessive, di maturazione di quello che ci si è detti poco prima.

Dopo aver concluso un lavoro così lungo e corposo hai ancora voglia di fare fumetti? Magari stai già pensando a qualcosa di nuovo?
Sì, assolutamente, ho già cominciato a scrivere. Sono soprattutto suggestioni, immagino che l’iter sarà simile a quello che ho seguito per Bestie in fuga, però stavolta ho qualche freccia in più nella faretra. Adesso mi conosco meglio, so dove voglio e posso andare a parare. E poi, onestamente, ci ho preso gusto.

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