Lo scorso ottobre, Stefano Galardini pubblica, per 8tto edizioni, È atroce la luce, un romanzo dai toni di tempo antico, capace, al contempo, di un respiro contemporaneo.

A catapultare in un passato ormai cancellato è già la scrittura di Galardini, che fin dal principio connota lo spazio-tempo dell’azione. Soffermiamoci un istante sulla seguente frase: «In cima alla salita le fronde degli ulivi cantavano nei refoli di brezza, Giuà alzò il capo, le gemme verdi che spiccavano tra le foglioline argentate promettevano a breve un buon raccolto». Prima ancora di sapere che tutto si svolgerà nella provincia ligure – non molto distante dal confine francese – Galardini, con una certa eleganza, ci informa del “sapore” che avrà il suo romanzo: si tratterà di un romanzo legato alla terra, alla campagna nello specifico, un luogo che sa essere benevolo e materno come nel passo appena letto – dove si parla di refoli di brezza, foglioline argentate e buoni raccolti – ma anche crudele e distruttivo, come si vedrà più avanti nella narrazione. Nei pressi di questo passo, senza bisogno di troppe indicazioni esplicite, veniamo a conoscere anche gli anni in cui si svolge l’azione. Siamo negli anni Ottanta del secolo scorso: non vi sono cellulari in vista, non c’è neanche l’Europa come la conosciamo oggi (il confine con la Francia è effettivamente un limite, e chi vuole andare di là deve stare attento a cosa porta con sé), il mezzo di comunicazione principale in questi luoghi remoti della provincia non è la televisione bensì la radio. Il dubbio può venire solo all’inizio – siamo nel passato? Siamo nel presente? – ma è subito spazzato via da piccoli indizi seminati qua e là, prima che alcune indicazioni specifiche legate a flashback fondamentali vengano a fissare, con la certezza dei numeri, l’anno specifico in cui ci muoviamo.
Anche la trama sa di passato. Alcuni contadini locali, nati e cresciuti in paesini dai nomi evocativi, che nient’altro conoscono se non i propri appezzamenti di terra sui quali hanno gettato il sangue e il sudore, devono ora fare i conti con la modernità. Quest’ultima è rappresentata da un’autostrada che, per collegare un’Italia che sembra a tratti straniera, deve passare per queste terre. Legarsi alla terra non è un atto semplice, né semplici sono le conseguenze. Legarsi alla terra vuol dire entrare in simbiosi con essa, come certi animali che si abbandonano alla morte quando l’ospite non è più in grado di sostenerli. Legarsi alla terra vuol dire non riuscire a immaginare un orizzonte che sia altro da quello conosciuto per una vita intera – o magari anche più, se la terra era del padre del proprio padre, praticamente dall’alba dei tempi –, al punto che le città risultano quasi luoghi estranei e distanti, inconcepibili come posti in cui vivere.
La prima parte della trama tratta di questo rapporto burrascoso fra una parte della popolazione di questo paesino sperduto in Liguria e l’amministrazione statale che deve far valere le proprie ragioni. Lentamente, però, con una finezza narrativa notevole, il focus si sposta altrove. Quando giunge l’alluvione che mette in moto la serie di eventi che sono di fatto il vero teatro dell’azione, siamo già oltre nella narrazione, dove emergono due elementi fondamentali, strettamente legati a quanto già affrontato: il cambiamento climatico, annodato in modo inseparabile con quello dell’abusivismo edilizio, e il tratto di lama che riguarda il mistero che avvolge la scomparsa del fratello del protagonista, che da oltre vent’anni sembrerebbe aver lasciato il paese per fare fortuna altrove.
Cambiamento climatico e abusivismo fanno da trait d’union fra passato e presente. Le case affastellate una sull’altra, i condoni, lo sfruttamento del terreno da parte delle amministrazioni comunali sono un male endemico in Italia. Si può dire che attraversano la sua storia dalle origini fino ai giorni nostri, e non sono rari i casi in cui, proprio a causa di una mala gestione del territorio, vi sono state frane, alluvioni e altri eventi catastrofici. L’alluvione che travolge il paese in cui vivono Giuà e sua moglie Rea, ma anche tutti gli altri personaggi di È atroce la luce, è talmente devastante da cambiare i connotati al territorio. Dopo l’alluvione tutti sono spaesati in un senso quasi etimologico del termine: sono senza paese, in quanto il luogo che conoscevano non c’è più. Sia coloro che hanno combattuto per conservare i propri terreni – e con essi la memoria sia individuale sia storica – sia coloro che hanno lottato per il progresso si ritrovano svuotati, privi di senso. Galardini sembra inviare un monito al lettore, ed è qui che il passato si congiunge al presente: il cambiamento climatico è in atto e noi non siamo pronti per affrontare le conseguenze che porterà con sé. Dovremmo fermarci un istante e ragionare per bene su come gestirlo prima che arrivi la catastrofe. Il paese del romanzo è, in piccolo, il nostro intero mondo, rappresenta in qualche modo tutta la civiltà umana.
Mentre il paese perde la propria identità e gli abitanti si rivoltano l’uno contro l’altro, il protagonista Giuà vive una diversa tragedia. L’alluvione infatti ha portato alla luce delle ossa e lui si convince che siano proprio di suo fratello Delio, scomparso tempo prima lasciando anche un figlio che Giuà e Rea hanno cresciuto come fosse il proprio. La ricerca della verità, mentre tutto intorno crolla, diventa per Giuà un’ossessione. Dal momento della dissepoltura, tutta l’attenzione di Giuà è rivolta a scoprire cosa è accaduto al fratello. In pochi giorni la sua vita viene stravolta: quelli che credeva amici si rivoltano contro di lui, perché i suoi tentativi di fare luce su un mistero rischiano di svelare tanti altri segreti della cittadinanza. Ma si sa che un prurito, una volta comparso, non può essere messo a tacere. Anche qui Galardini è padrone della propria scrittura. Il risultato è che le reazioni di Giuà, di sua moglie Rea e degli altri personaggi sono verosimili in un modo quasi doloroso.
A tal proposito, mai si percepisce il senso di finzione legato a una trama di pura invenzione. Anche a causa di eventi atmosferici e risorse naturali descritti sempre in termini altamente sensoriali, i lettori vengono irretiti non solo nella trama ma proprio dentro l’ambientazione. Quando arriva la notte, il buio che avvolge il paese senza corrente elettrica è un buio completo, primitivo. L’odore dell’erba bagnata è persistente, il sapore del vino è forte. L’acqua scende su di noi con una delicatezza che solo la vera acqua piovana è in grado di avere. Quasi mai troviamo elementi didascalici funzionali alla trama. Tutto avviene con una naturalezza che fa apparire la trama forte, corposa, quasi reale. Si gioisce con i personaggi e si soffre con loro, soprattutto dopo l’alluvione e tutto ciò che ne consegue.
È atroce la luce è in definitiva un romanzo saldo, sicuro e convincente, che sa unire gli elementi bucolici della campagna con temi contemporanei e pregni di un significato per noi fin troppo vicino.
Stefano Galardini è nato a Genova e vive tra la sua città d’origine e Monza. Ha esordito nel 2017 con il romanzo Il tempo dentro di noi (Edizioni Convalle) ed è apparso negli anni su varie antologie. Nella vita al di fuori della letteratura si occupa delle persone, lavorando come Operatore socio-sanitario.
Photo credit di copertina di Paul Mocan