Paese che vai, lingue che trovi. Lo spiegava già Zygmunt Bauman intessendo il suo diorama socio-culturale: la società liquida vuole una lingua liquida. Cioè le relazioni sociali di nuova generazione hanno bisogno di espressioni linguisticamente labili, elastiche abbastanza da veicolare una concettualizzazione sempre più polifocale e polifonica. Anche Umberto Eco sosteneva che il destino dell’Europa fosse il multilinguismo, inteso come versatilità del parlatore nel comunicare in più lingue pur senza averne una comprensione eccellente.

Il Linguaggio, in sostanza, evolve. Solo che la corsa verso questa mutazione è stroboscopica, prosegue a balzi esponenziali accelerati dal web, dalla multiculturalità endemica e dal crescente bisogno degli apparati statali di sintonizzarsi sulla frequenza delle nuove generazioni refrattarie alla propaganda; un bisogno primario, quindi, un autentico istinto di conservazione del potere stesso che fa scattare quella corsa agli armamenti linguistici dove si indovina nel Linguaggio lo strumento ideale per la comunicazione di massa. E così, nell’usura delle parole, il sonno della ragione genera mostri: al riparo dell’ignoranza si compiono ibridazioni mostruose, gentrificazioni del linguaggio, impropriamente consapevoli della brutalizzazione della lingua; grottesche congiunzioni di parlanti e parlatori, di fonemi e significati che hanno come risultato l’estinzione della monosemia.
Perché per parlare di linguaggio, oggi, bisogna anzitutto tener conto della sua entropia, cioè di quel valore preso in prestito alla termodinamica che misura il grado di disordine di un sistema. Un valore che tende ad aumentare a ogni successiva trasformazione, non importa verso quale direzione nel tempo e nello spazio, avanti o indietro, perché se il sistema va incontro a un cambiamento la sua entropia sale.
E così nel pandemonio sociale che impazza nel mondo sembra che ogni parola non appartenga più a sé stessa, che basti pronunciarla una sola volta di più per sentirsela sbriciolare tra i denti, friabile e scricchiolante come quei dialetti che fermentano il bruxismo, e il Linguaggio diventa solo un’altra vittima dello schiocco di dita del Thanos vocabolaristico che è in fondo il nostro secolo aggressivamente neologico.

Il cortocircuito semantico non va fermato, ma interpretato. Se la lingua è espressione delle necessità di coloro che la utilizzano, allora un secolo polifocale ha bisogno di un linguaggio polisemantico, ricco di espressioni e costrutti baumaniani, liquidi, spugnosi, gravidi di citazioni e riferimenti, che ammicchi al classicismo e dia il cinque al progressismo. Deve essere vivo e soprattutto vitale. Perché un Linguaggio che si proclama adatto a tutti, e quindi facilmente digeribile, glutenfree, senza olio di palma o grassi aggiunti, a chilometro zero, ipoallergenico – al bando irritazioni e reazioni avverse – etico, biologico, politically correct, sostenibile e senza grumi, saporito ma idoneo alla prova costume (e non dimentichiamo il body shaming) non può che essere un Linguaggio omogeneizzato. E l’omogeneizzazione conduce alla propaganda, nella lingua e nell’arte.
Che fine hanno fatto i pionieri delle parole, gli alchimisti delle sillabe, gli sperimentatori linguistici? Dove sono i Gadda, i Joyce e gli atomisti del nuovo secolo pronti a giocare con le indomabili forze vocabolaristiche? Che ne è stato delle meraviglie della sorpresa nella letteratura contemporanea, del brivido dell’aggettivo incistato chirurgicamente lì – e non altrove! –, da un narratore sopraffino, del leggere ‘con la spina dorsale’ decantato da Nabokov? Oggi i narratorifici producono fac-simili editoriali che impoveriscono la lingua facendone schizzare l’entropia alle stelle, un passo più vicini al collasso termodinamico della nostra meravigliosa infrastruttura linguistica. A meno che, seguendo l’esempio del celebre romanzo di Asimov, non riuscissimo ad aprire un canale di comunicazione con un’altra dimensione della lingua, un orizzonte che sia in grado di controbilanciare l’impoverimento del nostro contenuto semantico abbassandone l’entropia.

SOS, insomma, save our speak. Servono sperimentazione, prospettiva e visione. Oppure regrediremo, involveremo verso tempi preverbali e presemiotici, larve di pensieri e parole lobotomizzate dal collasso del Linguaggio come le future generazioni dell’Oceania orwelliana, cerebralmente tassidermizzate dal newspeak.
Immagine di copertina: Jean Arp, Untiteled composition, 1949