Un’estate rovente, una Milano febbrile, un rave che divampa. E tutti danzarono (La nave di Teseo) segna un nuovo capitolo nella produzione di Alessandro Bertante, autore che ama esplorare da angolature diverse le tensioni della contemporaneità e della memoria storica. Se in Mordi e fuggi (2022) ha raccontato la nascita delle BR negli anni di piombo, e in Nina dei lupi (2011) un futuro post-apocalittico, qui si immerge in un presente allucinato, dove gli argini tra realtà e percezione si sfaldano.
La copertina, con un dipinto di Pieter Brueghel il Giovane, non è solo un elemento estetico, ma prefigura il caos rituale e la dissoluzione dell’individuo che Bertante traduce in parole. La sua scrittura, di forte impatto visivo, procede per immagini che restituiscono il rave come un’esperienza sensoriale assoluta. Bastano pochi dettagli per evocare la forza che modella lo spazio e trascina i corpi: «È una visione impressionante, ogni metro quadrato del parco è occupato da un ragazzo che balla ma non sente più nemmeno la musica, balla e basta, come fosse solo, l’unica persona rimasta al mondo, balla senza mai fermarsi, guardando fisso davanti a sé, senza prendere fiato, senza bere o scambiare una parola con nessuno dei suoi compari».

Tuttavia, questo rave non è soltanto una manifestazione, un momento di aggregazione spontaneo: è un fenomeno costruito. A orchestrarlo è il sindaco di Milano, una figura abietta che per due giorni trasforma la città in un vero e proprio inferno, fatto di rumore e movimento, dove presto si supera ogni limite, dove alienazione ed euforia si confondono, dove si aprono continue occasioni per esercitare la violenza.
In questo scenario si muove Ivan Boscolo, docente universitario, separato, particolarmente incline all’abuso di farmaci e alcolici; un uomo segnato dal lutto per la morte del padre. La consapevolezza della propria decadenza è lucida e crudele, come emerge da questa auto-presentazione: «Sembravo un povero coglione, l’immagine perfetta dell’uomo maturo che affronta l’estate avvilito dalla sua penosa condizione di emarginato sociale». Eppure, neanche la disillusione può proteggerlo da ciò che accade in città quando scopre che sua figlia Micol, diciassettenne, è sparita nel vortice della festa.
Da quel momento, la sua ricerca lo porta sempre più a fondo nel cuore caotico del rave. Il percorso tra strade invase dalla musica e dall’euforia diventa una corsa contro il tempo, in un mondo che sembra disfarsi sotto i suoi occhi. Ad accompagnarlo, almeno in parte, c’è Francesca, la sua ex moglie. Ma il loro viaggio non è una semplice esplorazione fisica, di tipo materiale, bensì emotiva, a tratti identitaria: un viaggio tra rabbia e malinconia, tra rovinosi cedimenti fisici e improvvise fiammate d’energia e d’orgoglio; un viaggio descritto con crudo realismo, senza eccessi spettacolari, in un crescendo che richiama le derive violente delle nostre metropoli.
Uno dei punti di forza del romanzo è la qualità della scrittura. Bertante costruisce una prosa solida e incisiva, alternando precisione espressiva e passaggi evocativi. «Qui ci sono i giovani uomini, questi saranno giorni di dolore», per esempio, è una frase che suggerisce un senso di ineluttabilità lasciando che le parole agiscano senza bisogno di spiegazioni. Accanto a questi squarci più poetici, meditativi, e alla costante crescita della tensione, l’autore inserisce un’ironia tagliente che aggiunge profondità senza alleggerire il dramma. Battute come «in un pomeriggio potevo bere anche tre vodka tonic belli carichi, quattro nei momenti di malinconia che erano i più frequenti» incorniciano la trama con uno sguardo sarcastico e mai compiaciuto. Questa combinazione di registri rende il romanzo cadenzato e coinvolgente. E forse la sua brevità, data dalle 151 pagine, amplifica un altro aspetto centrale: il rimanere tenacemente ancorato al presente, al qui e ora della bolgia, per poi proiettarsi avanti e indietro nel tempo – soprattutto indietro. Il rave si intreccia di continuo con visioni della Milano degli anni Ottanta e Novanta e con echi di antiche forme di follia collettiva.
Non a caso, uno degli episodi più significativi, dove peraltro il ritmo incalzante dei primi capitoli rallenta, è quello in cui Ivan si confronta con Alessio Slaviero, docente di Storia dei movimenti ereticali. Qui, la vicenda si apre a una prospettiva più ampia, che collega il rave contemporaneo a fenomeni storici, come il Ballo di Strasburgo del 1518, in cui decine di persone furono colpite da un’irrefrenabile frenesia che le portò a danzare allo sfinimento. Ecco, ciò che rende efficace queste proiezioni è l’assenza di una spiegazione definitiva; né allora né oggi si è riusciti a razionalizzare fenomeni simili. Ed è proprio qui che il romanzo gioca con il senso di smarrimento: come il protagonista, anche il lettore si trova di fronte a un evento che sfugge a ogni logica.

In questo continuo slittamento tra epoche e stati di coscienza, Bertante suggerisce che certe dinamiche non appartengono a una civiltà precisa, ma sono radicate nell’essere umano. A tal proposito, va segnalato che non soltanto il tempo sembra essere diventato malleabile, ma anche lo spazio urbano. Il percorso tracciato dagli spostamenti di Ivan rimanda a una città debordiana, concreta e vissuta, sì, eppure pregna di contenuto psichico. Durante la malia del rave, gli spazi familiari si deformano, si trasfigurano, avvolti da mistero e insensatezza.
Questa percezione alterata emerge con forza in una delle scene più emblematiche del libro: al centro della città, un reparto di poliziotti in tenuta antisommossa è pronto a intervenire. Ma, all’improvviso, un giovane agente abbandona scudo e manganello, si sfila il casco e, sotto gli occhi attoniti di colleghi e “ammaliati”, inizia a ballare. I suoi movimenti sono fluidi, liberatori, rituali. L’attrito si sospende in un istante irreale, in cui il confine tra repressione e abbandono si dissolve.
La scena, più che un colpo di teatro, è una chiave di lettura dell’intero romanzo. Il poliziotto che si lascia trascinare dalla musica non compie solo un atto di ribellione, ma diventa il simbolo di un contagio che travolge ogni ruolo prestabilito. Nel rave, ogni struttura – sociale, urbana, gerarchica – si sgretola, aprendo a dinamiche più ambigue e imprevedibili.
Al di là dei fenomeni visibili, dei colpi di scena, dei rimandi storici e delle riflessioni e delle azioni di Ivan, talvolta garbate, talvolta brutali, il vero motore del romanzo è qualcosa di più ingombrante e inafferrabile: il corpo – che non è solo una presenza fisica, ma un elemento narrativo imprescindibile, il simbolo di una battaglia su cui anche oggi, nella vita reale, si consuma il conflitto quotidiano. Da un lato, c’è il corpo di Ivan, logorato dal tempo e dall’ipocondria che lo immobilizza, ma che, una volta scatenato, diventa implacabile. Dall’altro, ci sono i corpi dei giovani nel rave, esaltati, frenetici, attraversati da vampate di vitalità che si spengono e si riaccendono, fino all’esaurimento totale.
Bertante ha il merito di raccontare il corpo come ultima frontiera, e la città come arena in cui decidere se resistere o dissolversi. Perciò, in questa tensione, nell’oscillazione continua tra apparizione e sparizione, il romanzo trova il suo gesto più autentico: non offre risposte, ma trascina il lettore nella stessa vertigine che sconvolge i suoi personaggi.
In copertina:
Pieter Brughel il Giovane, Il ballo di san Giovanni a Molenbeek, 1592