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Interrogare la Mitologia Familiare

“Quello che so di te”, romanzo della scrittrice Nadia Terranova, indaga la vicenda di Venera, internata al Mandalari

«Lasciateci libere di non farcela, né come madri né come artiste. Lasciateci sperimentare il fallimento,
lasciate che ci concentriamo sull’unica cosa che importa: non cadere, o cadere senza uccidere chi amiamo.
Lasciateci ovunque fallire in pace.»

Quando la scrittrice Nadia Terranova diventa madre ha molti motivi per cadere: «Mi sporgo verso la culla, guardo giù verso il cratere», scrive nell’incipit del suo nuovo romanzo, Quello che so di te, uscito il 14 gennaio per Guanda; per poi domandarsi nelle pagine immediatamente successive: «Come si torna a scrivere dopo un parto, come si continua a essere spietati sulla pagina?» Si può altresì proteggere l’esperienza della maternità dall’incendio della scrittura, e viceversa? «Scrivere», osserva in una delle numerose incursioni metaletterarie che puntellano il romanzo, «è appiccare incendi, bombardare città, stanare i prigionieri. I figli invece si proteggono, si strappano alle rovine, si portano via dai roghi».

Oltre che dalla scrittura Terranova sente di dover proteggere la figlia (e se stessa) dalla “Mitologia Familiare” che sin da bambina le ha raccontato di quando Venera – nome scelto dalla scrittrice per chiamare la bisnonna – cadde al circo, pochi giorni prima di partorire la terzogenita, Giovanna, la quale, a causa di quella caduta, non nascerà mai. È così che Venera – tra l’altro unica sopravvissuta agli innumerevoli aborti della madre – si ritrova di fronte a un lutto più grande di lei, di fronte a sensi di colpa che la faranno sentire inadeguata e addirittura assassina, a parole che le usciranno a stento fino a prosciugarsi completamente durante il breve, ma non per questo meno scioccante, ricovero al Mandalari, il manicomio di Messina. È qui che Venera diventa “mussu cuciutu”, tradotto dal siciliano: muso cucito.

A scucirle le parole sarà la nipote scrittrice, e per farlo dovrà assumersene tutta la responsabilità, e dunque anche il dubbio che sia legittimo scavare nel passato della bisnonna: «Scrivere è sancire l’impossibilità, per questo processo, di diventare reversibile. Mi prendo il compito, da lei non richiesto, di farlo a nome di entrambe». Del resto Venera le appare spesso in sogno: è un fantasma che l’accompagna sin da bambina e che addirittura si incarna sul suo corpo di puerpera nella forma di «una macchia scura sullo zigomo sinistro». «Ma un conto è sognare il passato», ci avverte il secondo capitolo della seconda parte del libro, «un conto andarselo a prendere». È infatti in questa seconda parte, il cui titolo coincide con il numero di matricola, il 12.283, attribuito a Venera all’ingresso al Mandalari il 22 giugno 1928, che Terranova compie un doloroso viaggio dentro la realtà manicomiale, nel tentativo di ricostruire cosa sia davvero accaduto alla bisnonna, e perché.

Sin dalle prime parole carpite agli adulti, sin dai primi non detti, la Mitologia Familiare ha silenziosamente suggerito a Nadia un legame indissolubile tra maternità e manicomio; anche per questo, sporgendosi sulla culla della figlia, Nadia sa immediatamente quello che non può permettersi, ovvero lasciarsi cadere nell’abisso della follia: «Scrivere è interrompere questa linea di pazzia ma prima devo diventare un osso cavo, il megafono di una voce estranea, la replica di eventi che cercano di nuovo un palco, occhi pieni di dettagli che si fossilizzano sulla pelle come abrasioni».

La scrittrice deve trasformarsi in un palco dove la Mitologia Familiare – che lei stessa, nel presentare il libro, ha definito la vera protagonista – può inscenare il passato; e nel contempo deve farsi attrice mentre la Mitologia, come un coro greco, ne commenta i gesti e le parole, aggiusta il corso degli avvenimenti, e, perché no, cambia versione. Come se non bastasse la Mitologia aggiunge un altro tassello raccontandole della figlia di Rinuccia – nonna materna di Nadia nonché figlia di Venera – la zia morta cadendo nel vuoto durante una gita nei pressi dell’Etna. Ritorna l’immagine del vulcano siciliano, di cui Terranova ha più volte parlato e scritto, e che i siciliani chiamano “la Montagna”: l’Etna è femmina, una Grande Madre.

Anche il corpo gravido di una donna può essere paragonato a un vulcano che non si spegne dopo l’eruzione, nemmeno dopo il parto: un corpo spalancato che ha bisogno di tempo per ridefinire i propri confini, quel tempo che la lingua sembra proprio non volergli concedere, tutta presa dall’ansia di etichettare: «Il lessico della parentela è indifferente alle nostre incertezze o inadeguatezze, sordo alle nostre suppliche; la parola che definisce il ruolo è già pronta per noi dopo un parto, un matrimonio o un lutto: madre, moglie, vedova, orfana. La nostra definizione ci precede, spesso per sbarrarci». E sulle definizioni si finisce per inciampare. Così Terranova, «figlia e nipote di donne che cadono», deve prestare attenzione, non solo per la storia familiare che la precede, ma per il fatto stesso di essere diventata madre, e dunque soggetto vulnerabile, bersaglio degli sguardi e dei commenti giudicanti di chi come la «Dok» si aggira su internet con la missione di stanare le cattive madri. Ma se la Dok, nel libro definita «psicoterapeuta del DISTACCO», diventa immediatamente il peggior incubo della scrittrice, rappresenta anche il pungolo che risveglia in lei la consapevolezza di sapere ciò che non siamo, e soprattutto ciò che non vogliamo diventare: madri alla gogna, e perché poi? Perché colpevoli di cadere?

«Cadere non cado», ripete Venera come un mantra, «cadere non cado – cadete voi, io non cadrò mai più». E se il segreto fosse invece imparare a cadere? Magari trasformando una tenda da circo comprata in un grande magazzino nella tana della propria figlia: «La ruberia più infima e codarda che abbia potuto usare alla storia di Venera», ma pure antidoto efficace, necessario. O ancora: imparare a cadere affidandosi a tutte quelle donne che si prendono cura dei nostri figli, senza per forza essere a loro volta madri, e che Terranova, prendendo a prestito la parola spagnola “co-madria”, chiama affettuosamente “co-madri”.  

Per imparare a cadere Terranova deve affrontare la Mitologia Familiare, non lasciandosi spaventare dalla ferocia delle coincidenze (eventi, numeri e mesi ricorrenti), e dal peso, a volte insopportabile, del proprio genogramma; deve scavare nel passato consapevole dei baratri che si apriranno nel presente. Non le basterà guardare Venera da uno spioncino nella parete come veniva concesso al marito quando la andava a “trovare”: la storia di Venera, del suo internamento, della sua anamnesi, dell’avvicendarsi dei medici che l’hanno visitata, dovrà essere squadernata. Così, oltre che memoir e confessione (La confessione come genere letterario, per citare María Zambrano), Quello che so di te è anche indagine e inchiesta sul manicomio: la storia di Venera da vicenda personale diventa collettiva, da questione privata universale.

Allontanatasi dalla forma romanzesca classica, a cui ci aveva finora abituati, in questo nuovo libro Nadia Terranova approda a una forma ibrida e sfuggente, come quella delle creature mitologiche che popolano lo Stretto, particolarmente care alla scrittrice di Messina. Non poteva essere altrimenti per un libro che sonda questo impervio cammino matrilineare, senza mai dimenticarsi, però, che anche gli uomini di questa storia – mariti, padri, figli – possono impazzire e cadere. Con Quello che so di te Terranova conferma il suo talento, procedendo in equilibrio, seppur precario, come un’acrobata. È il segreto della sua prosa, e la sua tenuta: istintiva e nel contempo controllata, capace di avvicinarsi al fondo delle cose e sostarvi in punta di piedi, grazie a una scrittura capace di creare un incantesimo e nel contempo spezzarlo, «interrompere il non detto, o crearne uno nuovo». La scelta di affidare il racconto a un io che sin dalla prima pagina afferma di essere l’autrice in persona – Nadia donna, figlia e madre prima ancora che scrittrice – non deve però trarre in inganno: ad agire maggiormente sulla Mitologia Familiare sarà, infatti, l’intento letterario che muove un testo certamente ibrido, ma molto più vicino allo spirito romanzesco di quello che poteva inizialmente sembrare: «Scrivere è anche una profezia, quante volte ho trasformato in memoria un sogno o una visione del futuro?»


In copertina: Paride Matini, da Fermata Spettacolo

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