Marielle Anselmo firma la raccolta poetica Vers la mer (Unicité, 2022), la cui traduzione italiana – a cura di Angelo Vannini – apre la nuova collana della casa editrice anconetana Affinità Elettive, che deve il suo nome, la lumière obstinément, ad alcune parole di un verso di Nicole Brossard, amatissima poeta quebecchese. Insieme alla raccolta di Anselmo, la collana esordisce con Museo dell’osso e dell’acqua della stessa Brossard, con traduzione di Micol Bez, Jessy Simonini e Angelo Vannini. Lo stesso Vannini, che è anche il curatore della collana, pensa a questo progetto secondo il desiderio, diventato volontà, di dialogare con la poesia francofona – pur non volendo limitarsi a questo solo idioma – e accordando un posto privilegiato alla traduzione in quanto interrogazione non solo linguistica. A tal proposito, spiega Vannini che «l’idea alla base è quella di fornire ai lettori e alle lettrici dei testi capaci di costituire una zona dove sostare – una zona in cui attardarsi, e soggiornare in stato d’interrogazione».
Scegliere di pubblicare insieme due poete, Marielle Anselmo e Nicole Brossard, entrambe francofone, ma con una traiettoria spaziale molto diversa, risponde all’intento di agevolare dialoghi in cui la parola si rivela nella poetica di corpi situati e posizionati, mostrando la nostra condizione di esseri che abitano il mondo – presenti nel mondo, al mondo. Verso il mare parla anche di questo, dell’abitare il mondo, le sue acque, di sentirsene parte, di essere acqua. E questo traghettare, questo trasmutare, è detto convocando il più scabro versificare, quello che deve il suo ritmo a una economia formale essenziale, quella del levare, che toglie – senza dimenticare ciò che è andato, perso – tutto quello che si portano via le onde insieme alla schiuma e alla sabbia:
nel giorno
degli addii
senza addiiil tuo labbro
non mi morde più
come il mare
si è ritirato
I versi di Marielle Anselmo vanno in direzione di quei luoghi situati al limitare tra il visibile di una quotidianità che all’apparenza è facilmente leggibile e l’invisibile che abita il silenzio, quello che permea le cose, i luoghi e gli umani:
cade la notte
e
cado io
nella tristezza
solitudine
di Enea
nella sua barca
sette anni
e te
porto ancora
in me
In un viaggio composto da ventuno tappe, respiri e componimenti, questa cartografia si libera dei confini in una parola che accoglie l’alterità ed insieme a essa la morte. Dicendo il lutto, il dolore della perdita, la nostalgia, quella che dimora proprio in quel luogo dell’immaginario in cui Enea – qui personaggia – scopre anche la speranza di non essere mai davvero sola.
Per Limina, abbiamo intervistato la poeta.

La tua raccolta, insieme a quella della poeta quebecchese Nicole Brossard, apre la collana la lumière obstinément. Vuoi parlarci dell’iter che ti ha portato a pubblicare la tua prima raccolta tradotta in lingua italiana? Cosa rappresenta per te l’attraversamento dal francese all’italiano?
Sono felice e commossa di questa pubblicazione in italiano. In poesia, le traduzioni nascono da incontri, spesso tra poeti. Angelo Vannini, che ho conosciuto a una lettura pubblica, intendeva tradurre alcune delle poesie di questa raccolta per una rivista. Quando ha iniziato a tradurre la raccolta, quest’ultima l’ha letteralmente preso per mano, e Angelo ha tradotto l’intera raccolta. Mi piace questa immagine della poesia che “prende la mano”, che ti porta via. Ricorda le parole di Paul Celan, per il quale la poesia era «una stretta di mano». Da una stretta di mano, dunque, è nata questa traduzione. Leggere la raccolta in italiano mi ha commossa. Sono di origine italiana, siciliana, per la precisione; sono cresciuta in Tunisia, parlando francese, circondata dall’arabo, certo, ma anche vicina all’italiano – la lingua dei miei nonni, la lingua che parlavamo d’estate quando andavamo a trovarli. Era anche una delle lingue della Tunisia coloniale e, nel periodo post-coloniale della mia infanzia, l’unica autorizzata a essere trasmessa da un canale televisivo straniero, la RAI, un privilegio di cui non godeva Antenne2, il canale francese. Una lingua estremamente familiare, quindi, anche se non la parlo da molto tempo. Il lavoro di Angelo è fatto con una tale delicatezza e sensibilità che, quando ho letto la sua traduzione, ho avuto l’impressione che la mia poesia avesse trovato la sua lingua madre. È stato profondamente commovente. Io scrivo con il suono, con l’infrasensibile, cercando ciò che ancora risuona, in modo discreto, infinitesimale. Forse, nella traduzione italiana, la poesia aveva ritrovato i suoni che aveva perso in francese.
Dicevamo che Brossard apre insieme a te questa nuova collana di poesia. Puoi parlarci della tua relazione con la scrittura delle donne e della portata della genealogia femminile e femminista nella tua scrittura?
Sono felice e onorata di aprire questa raccolta con lei. Ho un rapporto con la scrittura delle donne, con la genealogia femminile, che ho scoperto e affermato quando ho incontrato Hélène Cixous alla fine degli anni Ottanta. Dopo averla sentita parlare su France Culture di Marina Tsevtaïeva e Rainer Maria Rilke, ho deciso di seguire il suo seminario e di fare con lei un DEA a Paris 8, fuggendo dalla vecchia Sorbona, che era troppo conservatrice e mi soffocava. Fino a quando non ho incontrato Cixous, all’età di 20 anni, avevo una coscienza femminista – l’avevo avuta fin dall’infanzia, nel paese mediterraneo in cui ero cresciuta, e mi rivoltava la disparità di trattamento tra uomini e donne – ma questa coscienza non era molto elaborata. Direi che era una consapevolezza “primaria”, limitata a una richiesta di uguaglianza. Inoltre, aveva poche applicazioni alla letteratura. Ho avuto una cultura scolastica e universitaria molto tradizionale, essenzialmente maschile, con l’eccezione di alcune autrici come Marie de France, Louise Labé, Mme de Sévigné e Colette. Nelle scuole secondarie, le autrici del ventesimo secolo sono entrate a far parte del corpus canonico solo negli anni Novanta, attraverso antologie letterarie rivolte agli studenti delle scuole secondarie, come quella di Henri Mitterand. Negli anni Ottanta, nonostante la grande produzione intellettuale e teorica, la questione femminile era generalmente poco presente nelle università, l’arena istituzionale per eccellenza. Si giocava ai suoi margini. Il Centre d’Etudes Féminines, creato da Cixous nel 1974 presso l’Università sperimentale di Vincennes (poi Università di Parigi 8), che permetteva alle studentesse non solo di fare ricerca ma anche di convalidare gli UE o un diploma come il dottorato, era un’eccezione. L’incontro con Hélène Cixous e poi con le Editions des Femmes e la sua fondatrice, l’attivista e psicoanalista Antoinette Fouque, mi ha portato a ripensare il mondo e le relazioni umane dal punto di vista delle relazioni di genere e, in particolare, della cancellazione storica del femminile. È stato un rovesciamento totale di prospettiva, una decostruzione di tutti i miei schemi di pensiero. Ricordo che il mio interesse per questi temi, la mia biblioteca femminile o femminista, venivano spesso derisi anche dalle persone a me più vicine. A quel tempo, i media, il discorso generale, era che il movimento delle donne – nato a malapena come movimento – fosse morto: che i diritti erano stati conquistati, l’uguaglianza raggiunta, e che non c’era più nulla da rivendicare… “Andare avanti, andare a casa” era la parola d’ordine. La censura era molto forte su questi temi, soprattutto nel panorama “liberale libertario” francese. Basta guardare i programmi televisivi letterari di quel periodo, recentemente ripubblicati, per vedere il processo per pedofilia di un famoso scrittore che ne faceva l’apologia. All’epoca, poche giovani donne si interessavano a questi temi, e al seminario di Cixous ero sicuramente una delle più giovani. Rimpiangevo di non essere nata una generazione prima, di non aver vissuto il maggio ‘68, gli anni Settanta e l’MLF, che vedevo come un grande movimento di rivolta, o una rivoluzione “copernicana”, per citare Antoinette Fouque.
E questi ultimi anni? Quale è il loro portato?
Sono felice di ciò che è accaduto con il movimento MeToo, che sta nuovamente trasformando il movimento delle donne in un movimento popolare e di massa, e con la sua riappropriazione e trasformazione da parte delle giovani generazioni. Tuttavia, come possiamo vedere oggi, c’è ancora tutto da fare – e soprattutto c’è ancora da fare, profondamente, una rivoluzione della mente. Hélène Cixous diceva che ci sarebbero volute due generazioni perché l’idea prendesse piede: eccoci qui. Con Cixous ho scoperto un grande corpus letterario, sia femminile che maschile, soprattutto straniero, affrontato in modo totalmente nuovo, non accademico, che ha lasciato in me una forte impronta: Marina Tsevtaïeva, Anna Akhmatova, Nelly Sachs, Ingeborg Bachman, Clarice Lispector… Il seminario di Hélène Cixous è stato il mio “asilo”, per così dire. Mi ha permesso di reintegrare le donne e il femminile, di pensarli nella scrittura, di pensare a una forma di filiazione o di eredità femminile in uno schema letterario che fino ad allora era stato per me quasi esclusivamente maschile e patrilineare. Poter dire, affermare, che c’era una scrittura, una creazione – e un godimento – che passava attraverso le donne, era già togliere un divieto. Lo devo a Hélène Cixous e ad Antoinette Fouque. Infine, nella mia genealogia femminile, c’è anche Saffo, la poetessa lirica, che ho conosciuto in quegli anni (devo dire che fino ad allora l’avevo solo intravista). L’ho scoperta davvero grazie alla magnifica voce e all’interpretazione che la portò in Francia nel 1991 (riferimenti), quella di Angélique Ionatos – che cantava i suoi versi in greco moderno, nella traduzione di Odysseas Elytis. Saffo era anche questo desiderio sospeso, espresso attraverso la forma frammentaria e lacunosa in cui ci è giunta e che restituivano le traduzioni. Questa forma frammentaria, questa assenza di parola, ha avuto una profonda influenza sulla mia scrittura, che tratta di frammenti, di mancanza e di desiderio. La forma – sperimentata nella mia prima raccolta, Jardins (Tarabuste, 2009) – è rimasta, anzi si è affermata. Lo spazio bianco e il silenzio hanno un ruolo sempre più importante nella mia scrittura. Ma hanno mutato di significato.

La lettura della tua raccolta mi ha condotta in un viaggio poetico, in solitaria, in cui i versi – come frammenti – costituiscono i punti d’appoggio per lo slancio ma anche per le soste tra le varie tappe della traversata. Cosa c’è del viaggio, cosa della perdita, dell’imprevisto e cosa del nostos?
Il mio viaggio poetico è fatto di frammenti, soste, isole, attraversamenti – e di una forma di eroismo solitario, invisibile, inaudito che ogni viaggiatore conosce. Probabilmente non è originale, ma credo che all’inizio della poesia ci fosse il lutto, la perdita – qualunque poetessa, qualunque poeta è Orfeo. Questa raccolta fa seguito alla prima, il cui cuore era il lutto. È un tentativo di andare oltre quel lutto – ma non è in realtà la sua eco moltiplicata? Può essere letta come un diario di viaggio: ci lasciamo alle spalle lo spazio familiare, antico, primordiale, mediterraneo (il Paese in cui siamo nati, in senso lato) per viaggiare verso l’Estremo Oriente, verso i luoghi più lontani e più nuovi, verso l’ignoto che incute timore e terrore allo stesso tempo. Un viaggio in cui, come scriveva Costantino Kavafis nella sua poesia Itaca, potremmo incontrare i “Lestrigoni” e i “Ciclopi”… La raccolta è composta da ventuno tappe, che potrebbero essere paragonate alle 21 stazioni di un pellegrinaggio. Sono appunti presi sul ciglio della strada, mentre si cammina – se volessimo seguire la tradizione giapponese del poeta-pellegrino, quella di Bashô. Ogni passo è pieno di sorprese, incontri e novità assolute come se si fosse appena nati, come se si vedessero le cose per la prima volta. Ma il viaggio non è privo di rischi. Così le parole sono luoghi di riposo, di sosta, a volte rifugi di fortuna – a volte isole, luoghi di terra, luoghi di riconnessione con la realtà. Ognuna è una presenza intensa. Ognuna ha una forte identità. Il poema, nella sua totalità dispersa, è un arcipelago, una formazione di penisole. Si potrebbe pensare all’arcipelago giapponese, o all’esplosione di isole che è la Grecia… È così che la vedo io. Questa cartografia è la mia mappa mentale. Questa è una poesia narrativa: quindi il frammento viene ripreso dalla narrazione, che lo colloca in una continuità. Le voci circolano, vengono ascoltate, tessono un filo – il corsivo le restituisce. La forma rende visibili queste continuità spesso sotterranee. La dimensione frammentaria di questo poema narrativo cerca di restituire la potenza del silenzio e, a volte, l’esperienza della scomparsa della lingua (francese). La lingua è il polmone. In realtà, non c’è modo di tornare indietro, e questo è ciò che ci insegna questo viaggio: questo libro è l’esperienza di un non-ritorno, di una rottura radicale, di un viaggio nell’aperto.
In questa tua raccolta, tre sono le parole che mi hanno cullata: “isola”, che si ripete e torna a più riprese, “mare”, che abita lo stesso titolo ed il nome proprio di “Enea” della prima poesia. Puoi dirci come nella tua raccolta si intesse un legame, se c’è, tra di loro?
Il mare è il primo paesaggio. Ho vissuto a lungo in esso, al punto da immaginarmi fatta di acqua e di rive tanto quanto di carne. Spero che sia anche il mio ultimo paesaggio. “Enea” va inteso come “sorella maggiore”. È la figlia maggiore che ha perso il fratello: da sola nella sua barca, non riuscirà a riportarlo indietro dalla sua traversata degli Inferi. Per quanto si sforzi, non può fare nulla per riportarlo in vita. Enea è l’altro nome di Orfeo. Mentre seguiamo il filo sotterraneo dell’Oltretomba, però, a un certo punto ci ritroviamo all’esterno. Si esce fuori. In questo grande spazio aperto, pieno di vita e di sorprese, di bellezza mozzafiato. Di rinnovate promesse – mantenute o infrante.
In copertina:
Jean Baptiste Camille Corot, Orfeo guida Euridice fuori dall’Oltretomba,1861, Museum of Fine Arts, Houston