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La grazia della nebbia. Fumana e le voci degli umili

Paolo Malaguti racconta il suo ultimo romanzo, dove la memoria diventa resistenza e le “strighe” tornano a parlare tra storia e mito.



Con Fumana (Einaudi, 2024), Paolo Malaguti conferma il suo talento nel tessere trame capaci di oscillare tra finzione e realtà storica. La sua scrittura si distingue per una rara capacità di essere al contempo lirica e concreta: da un lato, evoca la durezza della vita rurale; dall’altro, sonda con delicatezza le profondità dell’animo dei personaggi, i cosiddetti “umili”, portandoli al centro della scena con una forza letteraria che conferisce loro una struggente dignità.

Fumana, una bambina rimasta orfana e cresciuta dal nonno Petrolio, un vecchio pescatore burbero ma affettuoso, vive nelle campagne venete di fine Ottocento, un mondo in bilico tra fame, superstizione e la costante minaccia delle inondazioni. Fin da piccola, dimostra una misteriosa familiarità con la natura e con i luoghi più inaccessibili, una familiarità che la isola dal resto: infatti, gli abitanti del luogo la osservano con sospetto, poiché vedono ogni comportamento fuori dall’ordinario come una possibile minaccia.

Il pregio del libro, quindi, è rappresentare storicamente gli eventi in maniera convincente, ma soprattutto ricostruire la complessità delle relazioni sociali dimostrando che la Storia non è proprietà esclusiva dei dominatori. In tale cornice s’inserisce la figura della “striga”, la strega-contadina, a metà tra guaritrice e mediatrice con l’altrove, simbolo di un sapere considerato pericoloso, che ci permette di comprendere le dinamiche di controllo e di emarginazione femminile all’interno della comunità.

Fumana

Un esempio chiaro della capacità di Malaguti di costruire la connessione tra ambiente naturale e sfera intima si trova in questo brano:

«Fumana aveva capito che nella sua vita strana la nebbia era la cosa più vicina a una madre che avesse mai avuto, prima di incontrare la Lena.»

La nebbia (che in dialetto veneto si chiama proprio “fumana”) non è un semplice elemento naturale, piuttosto un rifugio materno; è sia un paesaggio fisico sia uno stato mentale, dove la protagonista ritrova il senso di appartenenza. Tuttavia, è soprattutto la figura di Lena, la “strigossa”, ad aprire alla dimensione di cura e protezione, perché, grazie al suo sapere non convenzionale, riesce a sanare le ferite del corpo e dello spirito diventando un inaspettato punto di riferimento.

Fumana, in sintesi, non è soltanto il racconto di una bambina e della sua formazione, bensì una riflessione più ampia sul rapporto tra natura e memoria. Attraverso una prosa limpida, restituisce voce agli “umili” e ci invita a scorgere la forza nascosta nelle esistenze invisibili, spesso lasciate ai margini delle grandi narrazioni storiche.

Iniziamo parlando dell’uso del dialetto, che è uno degli aspetti che colpisce nel corso della lettura. Quale significato ha avuto per lei usare il dialetto nelle voci dei personaggi? Lo vede come uno strumento di autenticità, resistenza culturale, o qualcos’altro?
Direi che prima di tutto l’uso del dialetto ubbidisce a una fascinazione letteraria nei confronti di quegli autori (Meneghello prima di tutto) che nel corso del Novecento si sono caratterizzati per uno stile che non si accontentava dell’italiano e andava a sondare intrecci interessanti con altri codici, inclusi i dialetti. Oltre a ciò devo dire che il dialetto non mi appartiene, la mia famiglia mi ha educato unicamente all’italiano, e in una certa fase della mia maturazione mi sono reso conto del fatto che questa scelta pedagogica aveva costituito anche una perdita per me, non solo linguistica, ma anche affettiva, perché in particolare con i miei nonni non ho mai potuto comunicare a fondo: tra noi c’era sempre una frattura linguistica. Infine credo che nella narrativa storica, qualora la trama lo consenta, l’uso dei dialetti possa costituire un valido strumento di realismo, grazie al quale il lettore può entrare più a fondo nel contesto sociale e geografico della narrazione.

Il dialetto ci introduce direttamente ai personaggi. Fumana e Petrolio sono figure fortemente caratterizzate, che vivono nelle campagne venete del tardo XIX secolo. Cosa rappresentano questi personaggi per lei e come pensa possano parlare ai lettori di oggi?
Fumana e Petrolio sono due “umili” prima di tutto. Sono ai margini della geografia e della storia, vivono vite apparentemente inutili, invisibili, eppure nel corso del romanzo scopriamo la loro forza, e quanto con le loro azioni siano in grado di incidere sul proprio destino e su quello della comunità. Al di là delle trame che di volta in volta provo a sviluppare, mi piace molto collocare i miei protagonisti su livelli socio-economici bassi, e mi piace, nel corso della trama, portarli a uno scontro aperto o indiretto con le strutture di potere che gravano su di loro. Trovo che dare voce a questi “ultimi” sia da un lato un atto di giustizia storica, visto che molto spesso la storia ha la voce e i volti dei vincitori e dei potenti. D’altra parte trovo questa scelta stimolante per il nostro presente, perché forse ci può aiutare a essere consapevoli del fatto che per quanto la nostra posizione ci possa apparire defilata e ininfluente ai fini dei grandi mutamenti del nostro tempo, non siamo mai del tutto impotenti di fronte al divenire degli eventi. Un margine di azione, un margine di scelta e quindi un margine di libertà ci è sempre dato, e dobbiamo, credo, farne un uso attento e consapevole.

La relazione tra i personaggi e l’ambiente è molto forte. La natura, le paludi e la geografia del territorio sembrano essere personaggi essenziali nel romanzo. Quanto la descrizione dei luoghi è ispirata da esperienze personali e quanto invece è stata una costruzione narrativa basata su ricerche?
In parte ambiento i miei romanzi quasi sempre in Veneto perché è la regione in cui sono nato e cresciuto, e questo mi permette di connotare i paesaggi con maggiore precisione, attingendo ai miei ricordi e alle mie esperienze. D’altra parte gli strumenti più importanti che uso per costruire il contesto sono sia le ricerche bibliografiche (storie locali, saggi di tradizioni popolari, ricerche fotografiche…) sia le letture di autrici e autori che hanno raccontato quei posti. Nel caso di Fumana ho letto e preso parecchia ispirazione da Bacchelli, Il mulino del Po, Viganò, L’Agnese va a morire, Cibotto, il già citato Meneghello… Al di là poi dei singoli paesaggi, amo provare a imitare il metodo di costruzione del paesaggio e di interazione tra paesaggio e personaggi che spesso adottava Rigoni Stern nei suoi romanzi, in particolar modo in Storia di Tönle.

Per approfondire il contesto, nel romanzo Fumana la vicenda è ambientata in un preciso quadro storico, dicevamo quello delle campagne venete di fine Ottocento. Come mai ha scelto questo periodo, e quali aspetti della storia locale l’hanno affascinata di più?
La scelta del periodo è stata legata al desiderio che avevo di raccontare la storia di una strigossa, cioè di una guaritrice, nel momento in cui quell’arte antica va in crisi con l’arrivo, più o meno nei primi vent’anni del Novecento, del medico condotto anche nelle campagne del nostro paese. Avevo già ambientato un paio di romanzi praticamente nello stesso arco cronologico, e trovo quel momento, tra fine Ottocento e metà Novecento, molto affascinante: in sessant’anni abbiamo due guerre mondiali, il fascismo, la crisi della civiltà contadina, la grande emigrazione… e appare incredibile pensare a quanto, soltanto settant’anni fa (un battito di ciglia in termini storici) l’Italia fosse un altro mondo rispetto al nostro presente.

Quanto lavoro è stato necessario per ricostruire le credenze popolari e la vita quotidiana di quel periodo? Ci può raccontare un aneddoto interessante emerso durante le sue ricerche?
Come dicevo questo non è il primo romanzo che ambiento in quel periodo e in quella parte d’Italia, pertanto avevo già una buona bibliografia di base. La sfida, per Fumana, è stata quella di studiare il mestiere delle strigosse, di cui non sapevo niente. Fortunatamente ho trovato degli ottimi saggi, su tutti le ricerche di Marisa Milani, che per anni ha insegnato Tradizioni popolari all’Università di Padova. Mi ha molto colpito scoprire che le segnatrici in alcune parti d’Italia (di sicuro in Emilia) non curavano solo mali “fisici” (come il fuoco di Sant’Antonio o la sciatica) ma anche mali psichici. Alcune strigosse ad esempio segnavano “l’anima caduta”, una bella espressione per indicare con ogni probabilità la depressione. Massaggiando lo stomaco cercavano di riportare l’anima nella giusta sede (la cassa toracica). E pare che la pratica avesse qualche effetto positivo.

La stregoneria e le superstizioni sono temi che emergono nel suo romanzo. Quali fonti storiche o studi ha consultato per rappresentare questo aspetto della cultura popolare?
La ricerca bibliografica per questo tema è stata un po’ più complessa del previsto sul principio, perché diversi titoli, che sulle prime apparivano seri e trattati secondo i crismi della ricerca storica o antropologica, poi si rivelavano indulgenti sul fronte dell’esoterismo, e quell’aspetto non mi interessava. Ho potuto contare in particolare sullo studio già citato di Marisa Milani, Streghe, morti ed esseri fantastici nel Veneto, un vero e proprio archivio di tradizioni orali, e inoltre su alcuni studi di medicina popolare in area padana editi dall’editrice Cierre.

La figura della strega (o “striga”) sembra mescolarsi alla realtà della vita rurale. In che modo ha cercato di bilanciare l’elemento folkloristico con quello realistico?
Confesso che all’inizio del progetto di scrittura ero abbastanza preoccupato proprio per questo aspetto. Mi domandavo come sarei riuscito a costruire una narrazione che fosse prima di tutto realistica e bene ancorata al contesto storico, ma che fosse ugualmente in grado di restituire le credenze popolari senza scetticismi, e che in sostanza potesse calare il lettore in una società che semplicemente includeva anche quelle pratiche, come vere e fededegne, nel proprio quotidiano. Ecco in effetti devo dire che le fonti mi hanno aiutato parecchio in questo aspetto: traspare infatti in maniera chiara come la presenza delle segnatrici o guaritrici, come quella dei “tiraossi” o “giustaossi”, fosse assolutamente normale e prevista nella comunità rurale. Le famiglie si rivolgevano alle segnatrici con la stessa facilità con cui domandavano aiuto alle levatrici nel momento del parto. La “segnatura” dunque, per quanto sia in ultima analisi un rituale magico (la cura cioè non è affidata a erbe, decotti o particolari manipolazioni della parte malata, ma unicamente ad alcuni gesti e a una frase di guarigione) era percepita come assolutamente normale, quotidiana.

Parlando di un certo tipo stregoneria, dobbiamo menzionare Carlo Ginzburg. In che modo le ricerche di Ginzburg hanno influenzato la sua rappresentazione delle credenze popolari in Fumana?
Devo dire che gli sudi di Ginzburg mi hanno accompagnato, sia pure in modo carsico, per parecchio tempo. Da piccolo ogni tanto mi divertivo a spulciare tra i libri di mio padre, e ricordo che tra tutti mi impressionava, per il titolo strano, Il formaggio e i vermi. Quando ho avuto qualche anno in più quindi me lo sono letto, e mi ha molto colpito quel modo di “fare storia” così diverso da quello che incontravo a scuola (ero al liceo all’epoca). Poi è stata la volta di I benandanti poi Storia notturna. Mi viene talvolta da credere che Ginzburg sia uno degli autori grazie ai quali mi sono naturalmente avvicinato alla narrativa storica, anche se, ripeto, si è trattato di un avvicinamento molto lento, e frutto di una frequentazione che dura da decenni.

Fumana segna un nuovo capitolo nella sua produzione letteraria. Come si inserisce questo libro rispetto alle sue opere precedenti?
Direi che per certi versi Fumana può chiudere un ciclo iniziato con Se l’acqua ride (Einaudi, 2023). Quattro romanzi (i quattro pubblicati a oggi con Einaudi) nei quali ho provato a rappresentare diverse storie di cambiamento e di resistenza al potere (politico, economico, militare, poco importa), cercando di destrutturare, quando la trama me lo permetteva, narrazioni e autonarrazioni ancora persistenti nella nostra memoria collettiva (ad esempio la narrazione fascista della Grande Guerra). Ciò che lega questi romanzi, oltre all’ambientazione veneta e al livello sociale basso dei protagonisti, è proprio il loro riuscire ad “andare contro”, magari anche solo con gesti simbolici, ma secondo me di grande importanza.

Per concludere, ora che ha affrontato un periodo storico così ricco di tradizione e superstizione, quali altre storie pensa di voler raccontare in futuro?
All’orizzonte ho un saggio narrato sulla pedagogia della Resistenza in Italia, ma sul fronte della narrativa mi sa che il prossimo romanzo mi porterà più indietro nel tempo: vorrei provare a costruire una narrazione sulla peste del 1630 nella Serenissima. Il tema è ampio ma molto bello e ricco di intersezioni con la recente pandemia. Poi confesso che vorrei cimentarmi con una narrazione non storica, o non pienamente storica, avvicinandomi, se non proprio alla piena contemporaneità, al nostro passato recente. Insomma le idee non mancano, speriamo bene!



Copertina: foto di Caterina Santinello

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