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Memoria e materia. Fogli stampati e blocchi di carta strappati

Tra Finestras e Marostica, un viaggio nel potere trasformativo della scrittura sospeso tra il ricordo familiare e un paese che lotta contro l’oblio

All’inizio di maggio 2024 ero in Spagna. Qualche mese prima avevo deciso che avrei trascorso il weekend del mio quarantesimo compleanno nella val de Boì, dove il piano era di fare trekking sui Pirenei. Avevo studiato la zona, scelto l’itinerario, prenotato un albergo. Quel che non avevo considerato, e non credo fosse un caso, è che all’inizio di maggio tra i 2000 e i 3000 metri ci potesse essere ancora la neve. Sciocco, si dirà, ma quando l’inverno sembra non finire mai, l’arrivo dei primi giorni di sole può facilmente indurre un’amnesia atmosferica. Non volendo camminare sulla neve, ma avendo prenotato un albergo senza possibilità di cancellazione, ho comunque deciso di seguire i piani. Avrei soggiornato dove stabilito, ma invece che salire sui Pirenei mi sarei fermata a camminare più a sud, al confine tra Catalogna e Aragona, nella sierra del Montsec. Così, per una serie di coincidenze, che forse i più considereranno sviste o errori di pianificazione, mi sono ritrovata a esplorare una piccola porzione di quella grande area della Spagna conosciuta come “la Spagna vuota” e a cui lo scrittore Sergio del Molino ha dedicato un intero, affascinante libro (La Spagna vuota, Sellerio, traduzione di Maria Nicola).

Mentre il primo giorno mi sono trovata a percorrere il canyon che costituisce il Camino Natural de Montfalcó, il secondo sono finita a Finestras, un villaggio abbandonato nel 1960 a causa di un’inondazione che lo recise completamente dalla già limitata infrastruttura stradale spagnola. Quasi del tutto isolati, gli abitanti, dopo un iniziale tentativo di ripresa, si videro costretti a lasciare il paese per trasferirsi altrove: alla più vicina Huesca o, sulla scia di una vasta migrazione interna che ha visto le zone interne svuotarsi drammaticamente, verso le più attrattive Barcellona, Terragona o addirittura Madrid.
La ragione che mi ha portata a Finestras non era però l’interesse storico per quel villaggio, quanto, superficialmente, la ricerca di un percorso abbastanza inusuale e interessante da controbilanciare il mio fallito piano originario sui Pirenei. Secondo una serie di blog che avevo consultato prima della partenza, sembrava infatti che proprio accanto a Finestras, attorno al reservoir di Canelles, lo stesso che era esondato e aveva distrutto il villaggio, si trovasse la “Muraglia cinese di Spagna”, una lunga e inusuale formazione geologica il cui aspetto ricorda, appunto, quello di una muraglia.
Ritenendo che la curiosità improvvisa per quella strana formazione e per quel nome così alieno, unite alla serie di fotografie che corredavano gli articoli consultati, dovesse essere soddisfatta, nonostante l’indeterminatezza delle indicazioni – girare a destra dopo la miniera abbandonata di Huesca e percorrere la strada sterrata attorno al reservoir fino a Finestras – indicazioni sprovviste di qualunque coordinate geografica o distanza chilometrica e rese ancor più complicate dall’assenza di segnale telefonico, alla fine sono arrivata a destinazione.

L’aridità del reservoir, conseguenza della grave siccità che sta colpendo la Spagna negli ultimi anni a causa del riscaldamento globale, aveva complicato il viaggio: per quanto intuissi di essere sulla strada sterrata corretta, il reservoir era invisibile. Tutto aveva l’aspetto di un grande bosco assetato, dove l’unico rumore era quello dei grilli e delle cavallette.
La conferma di trovarmi nel posto giusto è arrivata alla fine nella forma di un piccolo cartello scritto a penna che indicava la direzione per Finestras e la cappella dedicata alla Vergine Maria. Confortata, ho parcheggiato e mi sono avviata a piedi verso il villaggio abbandonato.

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La muraglia cinese di Spagna sorge a poca distanza da Finestras. Basta prendere una via laterale della piazzetta e subito si possono vedere a poche centinaia di metri le famose formazioni. Le foto che avevo consultato mostravano un forte contrasto tra il bosco, le formazioni rocciose e il blu dell’acqua del reservoir, la realtà invece appariva monocroma, verde, grigia e arancione. Interessante certo da un punto di vista geologico, ma meno grandiosa di quanto i vari blog la facessero sembrare.

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Sono quindi rientrata al centro di Finestras per visitare i resti del villaggio e oltrepassato il frantoio al centro della piazzetta mi sono avviata verso la cappella. Ed è lì, prima di entrare e ammirare i resti dell’edificio, il cui blu delle mura interne forniva con le piante il contrasto cromatico che cercavo al di fuori, che sulla porta due lettere hanno catturato la mia attenzione.
Nella prima, l’Associacion de Amigos y Proprietarios de Finestras chiedeva che si smettesse di chiamare le formazioni geologiche “Muraglia Cinese” e che si usassero i nomi tradizionali “Les roques de la vila” o “Les dents de Finestras”. Nella seconda invece, scritta nel dicembre 2017, la novantenne Maria Patrocinio esprimeva riconoscenza e amore alla sua amata Finestras, villaggio natale del marito Sisco, e chiedeva a chiunque vi passasse di prendersi cura di quell’incantevole angolo della Ribagorza. La lettera si chiudeva con la preghiera che non la si strappasse, perché era stata scritta col cuore, luogo in cui Maria Patrocinio avrebbe portato sempre Finestras.

Così, in piedi sulla soglia della chiesa, di fronte a quelle due lettere, senza alcuna pianificazione, mi sono trovata a riflettere sul rapporto tra spazio, corpo, scrittura, memoria e trauma.
Pur riferendosi specificatamente al rapporto con Finestras, le due lettere suggeriscono infatti due considerazioni più generali: da un lato che il nostro rapporto con lo spazio e la sua memoria è continuamente distorto e alterato da una lingua globalizzante che sovrascrive le specificità locali, dall’altro che questo rapporto spesso si esprime ed è mediato attraverso il corpo e le sue metafore.
Denti e cuore diventano, grazie al linguaggio, gli organi di uno spazio che esiste tanto fisicamente quanto virtualmente nel ricordo delle persone. La stessa lingua capace di obliterare la memoria locale può attivare la fusione tra corpo e spazio, trasferire Finestras nel cuore, sganciarla da un qui e ora spaziale e temporale per renderla un oggetto astratto di affezione.

Nella loro diversità, ma tematizzando entrambe il corpo, le due lettere esprimono la paura che la memoria di Finestras possa svanire. Mentre la lettera dell’Associacion de Amigos y Proprietarios teme che i denti possano scomparire dietro una muraglia, quella di Maria Patrocinio chiede con il cuore che ci si prenda cura del paese che lei porta nel cuore. La paura è che, abbandonata una volta, Finestras possa essere dimenticata per sempre. Non solo cancellata dalle acque, ma anche dalla memoria. Il corpo in questo senso diventa il linguaggio attraverso cui mediare la propria esperienza (in questo caso anche traumatica) di un luogo.
Ma c’è un altro elemento fondamentale in questa trasformazione, ed è il corpo fisico e materiale attraverso cui si esprime il linguaggio e (si spera) agisca la trasformazione auspicata, ovvero i due fogli di carta A4 inseriti in due carpette di plastica e appesi alla pietra della soglia della chiesa con lo scotch. La banalità del materiale usato e la stampa al computer, lungi dallo screditare e sminuire il messaggio di cui si fanno veicoli, ne sottolineano l’umiltà e l’urgenza. L’inserimento dei fogli nelle carpette, il loro posizionamento sullo stipite, la salvaguardia della loro integrità concretizzano il bisogno e la speranza di chi li ha appesi che questi vengano letti (oltre che il rispetto da parte dei visitatori che non li hanno rimossi o alterati). Al di là del contenuto dei testi, questi semplici supporti aggiungono ai messaggi di cui sono veicolo una dimensione emotiva, li amplificano, mostrando al lettore l’urgenza da parte di chi li ha composti di raggiungere il destinatario.

Mentre stavo in piedi sulla soglia, cercando di decifrarli col mio spagnolo rudimentale, non ho potuto fare a meno di chiedermi come Maria Patrocinio sia riuscita a far appendere il suo messaggio su quello stipite, se lo abbia scritto prima a mano, se abbia chiesto a qualcuno di trascriverlo a computer o se sia stata l’iniziativa di un/a conoscente. Chi ha digitato la lettera a computer? Lo ha fatto alla presenza di Maria? Dove l’ha stampata? Chi ha camminato fino a quella chiesa così difficile da raggiungere e ha appeso i fogli con lo scotch? Lo ha fatto in una giornata soleggiata come quella in cui io stavo visitando Finestras?
Scattando una foto a quelle due lettere, senza sapere ancora che oltre otto mesi più tardi ne avrei scritto, non ho potuto fare a meno di pensare a tutto il lavoro e alle conversazioni che devono essere avvenute perché quei due messaggi arrivassero ad essere appesi sulle pietre della chiesa. A come i due fogli A4, prima di diventare strumenti di memoria e trasformazione, dovessero essere appartenuti a una risma prodotta in maniera industriale, a come sia arrivata a casa (o al negozio) di chi ha stampato il messaggio. E poi ancora più indietro alla trasformazione che ha preceduto la produzione della risma, alle coincidenze quasi magiche per cui alcune specifiche fibre, tra possibili infinite altre, siano finite a sovrapporsi ai resti di Finestras e a partecipare allo sforzo privato e collettivo di salvare il paese dall’oblio.

***

Alcuni mesi dopo la visita a Finestras, a fine settembre, ero di passaggio a Marostica, un paesino nella provincia di Vicenza che, oltre ad essere famoso per una bizzarra partita a scacchi nella piazza principale, è anche il paese dove vivono mia nonna e mia mamma e dove ho trascorso i miei primi diciott’anni di vita.
Vivendo all’estero da oltre dodici anni, la mia relazione con questo paese è cambiata. La necessità di pianificare i viaggi di ritorno e la limitata durata dei soggiorni hanno influenzato nel tempo il modo in cui ci trascorro le poche giornate – a volte persino solo alcune ore – che ho a disposizione. In maniera quasi fisiologica si è imposta un’equazione esperienziale per cui quanto più breve è il tempo di permanenza, tanto più è importante che esso sia significativo, “utile a qualcosa” – alla riscoperta delle radici, al recupero di storie familiari passate, al processo di cicatrizzazione di strappi personali.

Il risultato è che, pur visitandolo un paio di volte l’anno, quanto più questo luogo di origine si allontana da me nel tempo, tanto più simbolicamente ed emotivamente mi si avvicina. Da quando non posso essere lì quanto e quando voglio, tanto più lo visito attraverso i ricordi, la scrittura e la letteratura, tanto più lo sento vicino. Così è successo nei due anni in cui ho scritto Wild Swimming (Bompiani), in cui seduta in vari café di Londra – come in questo momento – ho chiuso gli occhi davanti a un documento word e ho cercato di riattraversare le vie di Marostica, la corte che separava casa di mia nonna da quella di mia mamma, la piazza con la scacchiera, le colline da cui nei giorni tersi si riesce a vedere in lontananza il brillio dell’Adriatico, i sentieri sull’altipiano di Asiago su cui camminavo seguendo le tracce dei racconti di Mario Rigoni Stern. In questo processo di ri-visualizzazione, mentre mi sforzavo di rendere vivi i ricordi dei luoghi, hanno iniziato anche a riapparirmi le persone che li affollavano.
Tra queste è emersa la mia bisnonna, la signora Teresa Poletto.

La mia bisnonna fa capolino tra le pagine di Wild Swimming come scrittrice di autofiction ante litteram. Morta nel 2011 a centouno anni, alla fine degli anni Ottanta-inizio Novanta si era iscritta all’Università degli anziani, dove aveva seguito corsi di scrittura creativa, letteratura e storia locale. All’epoca, come accenno nel libro, vivevo con lei e mia nonna Maria e se mi concentro bene riesco ancora a vederla seduta su una poltrona a dondolo a scrivere le sue memorie sugli anni della guerra, incorniciandole in aneddoti fittizi e interrompendosi regolarmente per ingoiare ciliegie col nocciolo intero (Marostica è anche famosa per le ciliegie, nda.).
Quando ho ricevuto il primo computer, probabilmente vedendomi trascorrere il tempo di fronte allo schermo, la nonna Teresa (anche se era bisnonna nel linguaggio familiare è sempre stata nonna) mi ha chiesto di trascriverle uno dei racconti. Non sapevo me lo stesse chiedendo per una pubblicazione che l’università stava compilando con i testi degli studenti, magari lo avrei fatto con maggior entusiasmo, ma in ogni caso lo trascrissi come richiesto, correggendo i numerosi errori ortografici che erano conseguenza di un’educazione interrotta a dodici anni. Ricordo che nel racconto si immaginava seduta con noi nipoti a guardare un documentario sulle condizioni di vita di alcuni bambini cinesi e che, di fronte al nostro stupore e alle nostre domande, iniziava a raccontarci, tramite un lungo flashback, come anche lei avesse conosciuto quella miseria durante la guerra.  
Nella più triste e prosaica realtà che ci circondava, nessuno di noi nipoti aveva mai guardato un documentario con lei, né tantomeno le aveva mai chiesto di raccontare la sua infanzia, eppure lei, novella scrittrice a novant’anni, aveva trovato il modo e la forma per liberare la propria versione del passato sulla carta.

Dev’essere stato l’atto di trascrizione di quel racconto ad averlo impresso nella mia memoria – tanto da essere entrato indirettamente in Wild Swimming mentre mi interrogavo su che cosa sia un “racconto vero” – ma soprattutto, dev’essere stata la sua connessione con la trascrizione della lettera di Maria Patrocinio, a farmelo tornare in mente quando, durante quel rientro a Marostica, con l’aiuto di mia nonna Maria (la figlia di Teresa) a cui avevo chiesto di recuperarlo, mi sono ritrovata una sera al tavolo della cucina a scartabellare l’archivio “Teresa Poletto”, ovvero una cartellina di cartone blu con l’elastico contenente varie carte e fotografie, e a scoprire tra queste proprio il famoso racconto che avevo trascritto io al computer e che era poi finito nell’antologia dell’università, anche questa preziosamente conservata nella cartellina. 

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All’improvviso, mentre mia mamma e mia nonna a poca distanza chiacchieravano del più e del meno, io mi sono ritrovata a riattraversare con quelle poche carte la vita di una donna che non solo è stata presente fino ai miei ventisette anni, ma con cui ho addirittura vissuto e trascorso tutti i pomeriggi tra i quattro e i dieci anni, guardandola scrivere quegli stessi testi che avevo tra le mani ora, a quarant’anni, dopo aver scritto io stessa un libro in cui lei faceva un’apparizione impegnata a scrivere e a minacciarmi di lanciarmi uno scoresòn se l’avessi disturbata troppo.
Chi era quella donna così presente nella mia vita eppure, mi rendevo conto ora, così sconosciuta? Tanto più simile a me nel suo bisogno di scrivere per esplorare e capire il suo passato e le sue origini, di quanto avevo creduto durante l’adolescenza? E di quanto avevo pensato negli anni seguenti in cui mi sarei allontanata sempre di più prima da Marostica e poi dall’Italia per tagliare i ponti con un passato e un luogo che ho sempre percepito come doloroso e troppo stretto? Che cosa rendeva le nostre vite, così radicalmente diverse e imparagonabili, ora stranamente simili?

Mentre continuavo a sfogliare i documenti, intenzionata ora, per via di quella regola “della massima significanza” a cui accennavo sopra, a fare del recupero della vita della bisnonna Teresa la mia nuova ragione e missione di ogni immediato passaggio a Marostica, e allo stesso pensavo, impressionata e commossa, all’orgoglio che immaginavo ora dovesse aver provato nel vedere il suo racconto dattiloscritto e inserito nell’antologia dell’università, tanto da averlo conservato tra le sue carte più preziose, orgoglio di cui inconsapevolmente ero stata parte, e che in un certo senso inseriva bizzarramente la mia presenza in un’antologia del passato allo stesso modo in cui io avevo inserito la bisnonna in un romanzo del futuro, che sono incappata in qualcosa di ancora più curioso. Un blocco Pigna con un misterioso titolo in copertina. Perso il riccordo.

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Era il titolo di un racconto? Un appunto? Chi aveva perso il ricordo? Quale ricordo era stato perso? Che si riferisse a qualcosa relativo a “Moliano Veneto” (=Mogliano Veneto), il paese che appare scarabocchiato poco più in basso? A un episodio, una persona, una sensazione?
Ho aperto il blocco per cercare di scoprire qualcosa, ma le prime pagine erano sparite, strappate, svanite, rimanevano solo le tracce di una sensazione (sentirsi come Cenerentola) e di un possibile corteggiamento.

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Ho rigirato il blocco tra le mani e tanto più guardavo quel titolo e quelle pagine strappate, tanto più le parole e il racconto hanno iniziato a perdere rilevanza rispetto all’oggetto stesso, un comune blocco di carta elevato taumaturgicamente a dispositivo della memoria.
Quell’oggetto marchiato da tre parole sembrava materializzare le sensazioni che stavo provando in quel momento nei confronti della vita della mia bisnonna. Avevo anche io “perso il ricordo” di lei, trattenuto solo tracce sparse e sconnesse, riassemblate tra loro dal bisogno di creare una narrazione del passato che colmasse immaginativamente buchi allargati dal tempo e dallo spazio, buchi oggi incolmabili dalla sua assenza?
Ho avvicinato lo sguardo alle pagine strappate. Ancora contenevano parole, frammenti di qualcosa che deve essere stato solo nella sua memoria e nella sua immaginazione. Qualcosa ora scomparso per sempre a meno che non avessi recuperato i fogli mancanti.

Mentre rimuginavo su quella scoperta casuale e in un certo senso magica, ho ripensato di nuovo al viaggio di alcuni mesi prima a Finestras e ai fogli A4 appesi al muro della chiesa.
Quei fogli bianchi stampati e infilati in una carpetta, quanto quel blocco Pigna, oggetti qualunque, di bassa qualità e prodotti industrialmente, mi sembrano indicare qualcosa di importante sul rapporto tra memoria e scrittura, ovvero la rilevanza della materialità nel processo di riconfigurazione del nostro rapporto con lo spazio e il tempo.
La materialità della carta, che sia integra o deteriorata, dà sostanza e amplifica il valore delle parole che contiene. I fogli strappati del blocco Pigna parlano di un “ricordo perduto” quanto il presunto racconto mancante, allo stesso modo in cui i fogli bianchi protetti da una carpetta di plastica qualunque amplificano il desiderio di preservare la memoria di Finestras racchiuso nelle parole che ci sono impresse.
Alla stregua di un rituale alchemico, la scrittura sembra prendere corpo attraverso e nella materialità di questi semplici oggetti di fattura industriale, trasformandoli in dispositivi memoriali dalle qualità trasformative. La qualità e lo stato di conservazione della carta consustanziano il ricordo di cui sono depositari.
Anche se c’è una differenza tra un foglio stampato a computer e replicabile e un blocco con dei racconti scritti a mano, nel momento in cui questi oggetti sono “attivati” dalla scrittura, e da una serie di circostanze specifiche (le coordinate geografiche del loro ritrovamento, il viaggio che li ha portati a quel punto, il tempo che sono rimasti esibiti o conservati, ecc.) iniziano ad “agire” un influsso su ciò che li circonda, siano queste le mura di una chiesa, una pila di documenti in una carpetta con un elastico, le persone che li leggono o tengono tra le mani.

Ripensando a come le mie esperienze di Finestras e di mia nonna siano state profondamente trasformate da due fogli e un blocco di carta strappato, mi chiedo se non siano proprio la progressiva dematerializzazione e digitalizzazione delle nostre vite a riportare al centro i sensi, il bisogno di esperienza tangibile e la materialità delle cose. Negli anni in cui le reti neurali vengono trained con corpora di dati (messaggi testuali, email, testi scritti) di persone defunte per poter generare chatbox in grado di replicarne la voce, ecco che sembrano ritornare l’odore della carta e il fascino per l’ingombro di un elastico, il dispiacere e la meraviglia per lo strappo della pagina perduta di un blocco.

Forse non è un caso che musei, gallerie e archivi siano tornati a focalizzarsi sulla materialità e sui sensi, sulle risposte creative e partecipative da parte del pubblico agli oggetti esibiti, al punto da far parlare di un vero e proprio material turn. In fondo, se un foglio A4 ha il potere di ridare vita a un villaggio abbandonato e di trasformare una muraglia in denti, e un blocco Pigna può sostanziare un’assenza di memoria e riallacciare un legame nascosto tra le pieghe del tempo, forse tramite gli oggetti e la parola abbiamo più potere sul mondo e su noi stessi di quanto crediamo.

PS.:
Questo pezzo è stato stampato su dei fogli bianchi A4, e posizionato tra le carte dell’archivio Teresa Poletto.




In copertina:
Cornelis Norbertus Gijsbrechts,
Trompe-l’œil: Letter Rack with an Hourglass, Razor and Scissors, 1664

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