Da qui, si vede tutto quello che Anna non ha. Tutto quello che Anna ci ha provato a lasciare, con la stessa disperazione con cui si pronunciano gli addii. Tutto quello da cui, invece, non è riuscita a congedarsi e che, rimanendole attaccato dentro, ha reso ogni cosa un caleidoscopio incapace di ricomporla o ricomporsi, restituendo sempre colori, sempre pezzetti, sempre frammenti. Anna è solo una bambina, Anna è per sempre una bambina, e Bondì, raccontandola nelle sue incomprensibili fratture, esercita l’arte delle cicatrici, carezzando i danni senza vergognarsi delle ferite.
Piatti rotti (Giulio Perrone, 2024) mi ha ricordato la pratica giapponese del kintsugi che, invece di liberarsi degli oggetti spezzati, ne evidenzia le lesioni, impreziosendole con l’oro. Qui, la materia preziosa è precisamente la prosa di Esther Bondì al suo esordio letterario.
All’interno della narrazione, infatti, non solo si spezza il ricordo che, più che rappresentare un passato perduto, ci ricorda che quel qualcosa, nonostante tutto, esiste ancora, ma le crepe della memoria sono valorizzate dal cariarsi della lingua:
«Sul tagliere, i gomiti, mangia, / le lenzuola, il biliardo / il triangolo, no: / silenzio, silenzio, silenzio / chi-dorme-non-pesci / non è un’opinione / il cerchio perfetto: / con la mamma o con il papà?».

L’emblema del piatto rotto, elemento fisico che titola il romanzo e sintetizza un male concreto, che ci riporta al comune e al quotidiano, diventa simbolo potente della fragilità delle relazioni umane, della loro impossibilità di riparazione, eppure permanenza nello spazio, persistenza nel tempo: quel che proprio non si può rimettere insieme, può, comunque, essere conservato, anche se non sarà come prima, perché conservare non necessariamente corrisponde all’essere salvi.
Mi sembra, in quest’ottica, che Bondì si inserisca nel solco di quella capacità straordinaria che ha avuto Annie Ernaux ne Gli anni (L’Orma Editore, 2015) di fondere la propria memoria con quella del mondo. Piatti rotti, infatti, non ci restituisce soltanto il punto di vista di Anna, ma si fa voce di una generazione che, sempre più forte, cerca di evidenziare e raccontare a modo proprio la crisi della famiglia (ma, più correttamente, delle famiglie): il non saper più essere genitori, il non saper essere figli, la paura di non saper diventare genitori a propria volta, «Madre ha insegnato la paura più grande: che figlia, anche madre può diventare».
Sullo sfondo, un dolore comune seppur con matrici diverse: Ernaux nella realizzazione della vecchiaia e la conseguente disillusione dello sguardo al passato, Bondì nell’irrealizzazione dell’essere adulti e, quindi, l’incapacità di separarsi dai ricordi. Per entrambe, l’impossibilità di provare, ancora una volta, l’eccezionale.
La famiglia è il teatro della memoria: «Famiglia rimane in famiglia». Una struttura tanto fragile quanto necessaria che rappresenta il nucleo del ricordo, della nostalgia. Si affronta, ma da un diverso punto di vista, una dinamica simile a quella di Domenico Starnone in Lacci (Einaudi, 2016): la famiglia come un sistema di tensioni e di nodi irrisolti, dove l’abbandono e il ritorno diventano le chiavi per comprendere il passato. Anna, la protagonista, infatti, è una bambina che cresce tra cambiamenti improvvisi, genitori instabili e macerie emotive che spesso gli adulti lasciano dietro di sé, incomprensibili ai figli, e con cui però questi ultimi dovranno, presto o tardi, fare i conti. Riecheggia, da lontano, anche Claudia Durastanti con il suo La straniera (La nave di Teseo, 2019):
«L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti. C’è il sesso, l’intimità, ma non quel bisogno».
Allo stesso modo, il dialogo tra Anna e il padre – capace di andarsene senza mai farlo per davvero e, nonostante questo, ricostruirsi una vita nuova (passando dall’essere un «padre-pane» a un «padre-bistecca») – la madre – che non c’è davvero mai stata («madre-fantasma non voleva le figlie, il suo sogno con loro sbiadiva. Madre-vecchia non tornerà mai: Anna ha finalmente capito»), ma non è nemmeno stata in grado di liberare le figlie da sé – rappresenta tutto ciò che non esiste, quello spazio tra le schegge e il resto che è tanto presente nel suo essere rotto e tanto intoccabile nel suo essere vuoto e «le parole si spezzano e Anna le perde, il silenzio circonda impera e dispera e nel silenzio Anna non mette, al silenzio ritorna il silenzio e lo spazio va a capo da sé. […] Anna prova a spiegare ma la bocca è l’imbuto, da fuori a dentro le parole tornano indietro e cadono in basso».
E, all’interno della famiglia, la relazione con la madre è il nodo contuso della narrazione.
«Madre non ha insegnato tacchi, unghie, cappotti, cappelli, studiare, a fare gli amici, a fare i biscotti, a leggere il giornale. Madre ha insegnato a odiare, a perdere tutto, a mistificare, madre ha insegnato a strisciare sui muri, a non farsi gli amici, a dire bugie, madre ha insegnato che tanto una quadra si trova», facendo di Piatti rotti un nuovo elemento nel processo di dissacrazione delle madri, nel solco del recente Il fuoco che ti porti dentro (A. Franchini, Marsilio 2024), Cose che non si raccontano (A. Lattanzi, Einaudi 2023), Cos’hai nel sangue (G. Giovagnoli, Nottetempo 2022), Il nome della madre (R. Camurri, NNE 2020).
In un periodo storico come quello che stiamo attraversando, segnato da una continua accelerazione e dall’incapacità di fermarsi a riflettere, Piatti rotti è un’opera di attualità che incarna quell’attenzione crescente, sia a livello individuale che collettivo, nei confronti della memoria, per quanto i supporti tecnologici la rendano sempre più inafferrabile perché, appunto, frammentata dalla frenesia della contemporaneità che ci costringe a focalizzarci sull’urgente piuttosto che sull’importante. Contrapponendosi all’uso che troppi brand stanno facendo della nostalgia come strumento di marketing, evocando sentimenti di comfort e sicurezza al solo fine di influenzare le scelte d’acquisto, Esther Bondì non idealizza, anzi, spinge chi legge a confrontarsi con le proprie di crepe, con i propri piatti rotti dell’esistenza nonché con le ferite del nostro tempo. Per la Anna di Bondì, infatti, la dimensione del ricordo è un’opportunità di evitare la distorsione della realtà felice, rimanendo intrappolata in qualcosa di inestricabile perché la risoluzione non era a lei che spettava.
Questo romanzo colpisce per la sua delicatezza affettuosa, per la sua capacità di raccontare l’universale attraverso un particolare anche irrilevante, trasformando la narrazione in un percorso di guarigione emotiva, perché la memoria non è fatta solo di fessure e di vuoti, ma anche di imperfetta, eppure vera, bellezza. In Piatti rotti, Bondì ci racconta del candore perfido dei ricordi. Di come ci lasci irrisolti, feriti e contenti – e noi solo grazie possiamo dirle.
In copertina: foto di CHUTTERSNAP su Unsplash