Nasce dal buio, il mondo. Viene alla Genesi già inscatolato nel suo bolo di paura e disastro. Polvere, vento: l’esordio planetario è essiccato. Poi soffia ancora il vento: soffio che ha fame dice il Qohélet. Il diorama aurorale condivide con la tattica darwiniana la medesima tabula rasa prima dell’arrivo dell’acqua. E in Dostoevskij (il film/la serie) dei fratelli D’Innocenzo (Fabio e Damiano) appare prima l’acqua, poi arriva il vento. Un inizio al rovescio. Si comincia con la morte, infatti, quella di Enzo Vitello. S’insinua l’ipotesi di vivere nel Bardo, di aver visto una specie di remake-crime dell’ultimo – invisto e inviso – Iñárritu Bardo (o, per rimanere nella letteratura, di Antoine Volodine). Si finisce ancora nell’acqua, con una morbidezza agfatica della luce di Matteo Cocco che ricorda Diego Garcia (il DOP di Carlos Reygadas) o Sayombhu Mukdeeprom (direttore della fotografia per Weerasethakul). Dall’acqua vengono le creature, nell’acqua sguazzano gli organismi protocellulari che hanno i volti di Filippo Timi, Carlotta Gamba, Federico Vanni, Gabriel Montesi e tutto il resto del meraviglioso cast (lezione autorizzata peraltro dei medesimi registi). Sono vite esposte all’edema. Sono corpi che possono morire sparati, sgozzati, strangolati, presi d’agguato, arsi vivi: la morte più terribile, letta ad alta voce (è un mondo fonosensibile, questo: si sentono i respiri, i mormorii come in un romanzo messicano, i latrati, gli scoppi lynchiani delle sigarette arse, c’è un Pascoli horror che veglia sulle notti) due volte nelle cinque ore del film/serie.
Dostoevskij è una serie originale Sky in sei puntate trasmesse al cinema – in due, bertolucciani, atti a luglio ’24 – e, nel febbraio precedente, proiettate in anteprima a Berlino. Un serial killer uccide senza apparente movente vittime irrelate: nessun legame, nessuna pista, se non lettere scritte a mano dal serial killer stesso, soprannominato dagli sbirri: Dostoevskij. Il poliziotto che gli dà la caccia è Enzo Vitello (Timi). Dentro questo contenitore c’è spazio per tutto, ma il gioco è poco ludico: i registi, infatti, giocano coi generi, ma nel modo neo-tragico che avrebbe Antonio Moresco, ad esempio, quando gioca coi generi negli Incendiati o nell’Addio. Come si fa a parlare di gioco, oggi, come ne avremmo parlato quindici anni fa? Chi c’è, ancora, che non comprende somaticamente l’azzeramento spaziale tra la critica di un oggetto culturale, l’oggetto culturale stesso e il mercato che l’ha prodotto? Goodbye Cinema Hello cinephilia (Jonathan Rosenbaum). Tant’è che Dostoevskij (che avrebbe potuto chiamarsi sadicamente: Stanislavskij) “gioca” pochissimo col genere: la scrittura, in fondo, nel suo whudonit è molto semplice. Lo schema “caccia all’uomo” attraversa le stazioni della Passione secondo Enzo Vitello (ma una Passion come l’avrebbe vista Mel Gibson) con una tale semplicità che il gioco è lo stesso, tragicissimo, di quello giocato da Nicolas Winding Refn (2011) o Takeshi Kitano di Violent cop (1989) quando, per loro parte, giocavano (trastulli per animali) col crime. Certo che c’è permutazione di molte cose, molti riferimenti a un canone ampio, amplissimo: i D’Innocenzo, come producer musicali, remixano elementi allotri che possono produrre una gastronomia da trivial pursuit: da dove viene cosa ci si domanda volentieri. Ma mi sottraggo a questo gioco – anche perché gioco non è – e non m’interessa seguire il filo dei riferimenti estetici in senso largo (ma non rinuncio a quest’unico riferimento, che mi pare ancora poco bazzicato: la casamatta dei poliziotti, le loro divise che, in Indizi, i due autori dicono essere ispirate a quelle delle forze di polizia serbo-bosniache, il posizionamento spaziale di questa stazione di polizia che contravviene alle regole della security pubblica, per somigliare sempre più a una Fortezza Bastiani mi paiono venire dagli avamposti ozploitation del primissimo Interceptor [1979]). Non è gioco, dicevo. È il DIY della cinematografia europea, la spinta autonomista del fan che assembla il proprio incubo con materiali d’archivio. È un wargame, una “guerra delle voci” (Moresco) come nei Canti del caos (lì, la donna scartavetrata azzerava la distanza fra interno ed esterno). E naturalmente come in Dostoevskij-scrittore.
Dostoevskij è sempre stato nell’opera dei D’Innocenzo, molto prima che diventasse una figura del loro cinema: lo era nel magistero del parricidio, nella latente pedofilia, nella morte di Dio che sembra autorizzare le gesta del serial killer: se Dio è morto allora tutto è possibile (diversamente Lacan dirà che niente è più possibile, se Dio è morto). Un avatar del divino muove i personaggi: il morto-in-vita Vitello, il “pietoso” Baubau che uccide senza criterio e lascia sulle scene del crimine lettere colme di nichilismo. Dostoevskij colpisce la vita stessa – contro il mondo, contro la vita – è vero, ma trafigge soprattutto l’inganno sociale di sentirsi, avidamente, penultimi. Di farsi bastare una guerra tra poveri per rimanere nella penultima posizione e non lasciarsi declassare. Dostoevskij colpisce per curare dal principio di Piacere occidentale.
Del resto, se c’è un motto possibile per questo film, mi verrebbe da dire: la vita è bella se si ha un privilegio. Sprawl urbano, hinterland, paesaggio postatomico; è tutta proliferazione vegetale, scarto ibrido di linfa e macchina, talea cementizia dentro la muraglia delle acacie: è tutta pianta infestante, erbaccia schiumante. Pollai, infestazioni di pennuti nei secchi della farina, case senz’intonato che scoscendono alla maniera di villette (il divenire-casa del rifugio di Ambra [Gamba, la figlia di Vitello] somiglia a una delle villette di Favolacce esposta a millenni di radiazioni), roulotte, seminterrati, bidonville: anche in abitazioni abitate da umani e zombi i personaggi vedono una “casa”. L’umano si abitua a tutto: i due giovani che comprano la casa in riva al fiume – la stessa sensazione galleggiante di Suttre – sono genuinamente felici, sanno che questi locali sbucciati saranno la loro casa. Anche se la vita che si vede nel film è, spesso, “nuda vita”, bios che si veste di stracci, nondimeno è neighborhood Per tutti loro c’è la cura-Dostoevskij.
Ma l’angelo della morte disegnato dai D’Innocenzo non è solo un calmieratore sociale. Dostoevskij è la Cosa. E di cose è pieno il film. Chincaglierie rugginose, gattini d’ottone, cineserie luminose, fogli scarabocchiati strappati da settimanali di carta chimica, riviste d’intrattenimento ricevute per corrispondenza (ma t’immagini la Posta in questo cosmo?), bottiglioni di plastica per olio o acqua o miscela, damigiane, fornelli incrostati da eruzioni di caffè, impasto per pizza e truciolato. Lucette di Natale fuori stagione – anche se nella serie, in qualche modo, è sempre Natale: è sempre la rovina del dono. Ci sono le cose, ma non ci sono le origini delle cose: niente edicole, discount, bar (solo uno, a dire il vero, in una sequenza memorabile con protagonista titanico Federico Vanni), rifornimenti, stazioni di benzina. Perché tutte queste cose irrelate? Gli stessi umani sono cose fra le cose, immersi in un paesaggio che è quello di Béla Tarr, il vento del Cavallo di Torino, la stessa impressione di Terra che si sta prosciugando. Gente immersa nelle cose.
In un bel libro che s’intitola Cose Felice Cimatti, parlando di Sartre, dice che lo stato d’animo di un soggetto che perde la sua autopercezione e diventa cosa fra le cose è l’angoscia. Un’angoscia totale, senza linguaggio, senza coscienza. Il sintomo di quest’angoscia è: la nausea. La nausea che fa vomitare: eiezione dell’interno sull’esterno, ultima poltiglia da eliminare per “scartavetrarsi” e sentirsi oltre-linguaggio. Sentirsi cosa: il «niente di umano dell’oggetto» (Roland Barthes per Robbe-Grillet), digrignando i denti, urlano, sbattendo contro i muri, spezzando ossa, triturando lattine di birra, dormendo con gli scarponi sul materasso nudo, sentendo urlare la notte, bestemmiando contro gli oggetti senza Stato, new extremity e Federigo Tozzi in un’inquadratura (ma anche: Mario Monicelli e chi vede il film capirà).
Ma poi, inaspettatamente, in fondo a questo percorso di spoliazione violenta, forse: l’illuminazione. Un abbaglio violento. Di nuovo, infine: l’acqua. Un totale naturale, il primo dove tutto respira.