Ogni tanto capita di fare sogni che, anche dopo il risveglio,
sembrano proseguire altrove: quello era un sogno così.
Han Kang, Non dico addio
She carried on walking, white flakes whirling thick and fast around her face and body.
Unable to fathom what on earth it could be, this thing so cold, so hostile.
This vanishing fragility, this oppressive weight of beauty.
Han Kang, The white book
I sogni tormentano le protagoniste dei romanzi di Han Kang, la scrittrice coreana insignita del Premio Nobel lo scorso ottobre.
Ne La vegetariana (Adelphi, 2016) il suo primo libro pubblicato in Italia – nella traduzione di Milena Zemira Ciccimarra – la protagonista smette di mangiare carne a partire da un sogno: «Un sogno? Che diavolo dici? Lo sai che ora è?», le risponde il marito quando in piena notte la trova immobile davanti al frigorifero aperto. Sebbene il marito non ne tenga minimamente conto, definendolo addirittura «ridicolo», via via che la descrizione della scena iniziale del sogno procede, non può fare a meno di chiedersi se quello che sta vedendo stia accadendo davvero, o se non sia piuttosto frutto di un’allucinazione, un sogno ad occhi aperti. La scelta di affidare la narrazione della prima parte del libro alla voce scettica del marito contribuisce a rendere la situazione ancora più surreale: «Cosa poteva assorbire la sua attenzione nel pallido bagliore dello sportello bianco nel frigorifero, nel buio pesto della cucina, alle quattro del mattino?». La risposta arriverà l’indomani, in piena luce, quando il marito ritroverà la moglie nuovamente davanti al frigorifero e, sparpagliati sul pavimento intorno a lei, pezzi di carne e di pesce congelati: un’insolita carneficina che allude al sogno di sangue che la insegue, un sogno angosciante che agisce sullo stato di veglia e ne modifica i comportamenti, anticipando addirittura il futuro.
«I miei vestiti sono ancora bagnati di sangue. Nasconditi, nasconditi dietro gli alberi. Accovàcciati, non farti vedere da nessuno. Le mie mani insanguinate. La mia bocca insanguinata. Che cosa ho fatto in quel granaio? Mi sono ficcata in bocca quella massa cruda e rossa, l’ho sentita premere contro le gengive e il palato, molle e scivolosa di sangue cremisi.
Masticavo qualcosa che sembrava così reale, ma non poteva esserlo, era impossibile. La mia faccia, l’espressione dei miei occhi… era senza dubbio la mia faccia, ma non l’avevo mai vista.
Oppure no, non era la mia, ma era così familiare… Nulla ha senso. Familiare eppure sconosciuta… quella sensazione così vivida, strana, spaventosamente inquietante.»
Se la dimensione onirica rimanda a ciò che è impossibile, sconosciuto e inquietante, dall’altra parte si dà come reale e familiare: è infatti “perturbante” proprio perché come ci ha spiegato Freud oscilla tra ciò che ci è familiare e nel contempo estraneo. È su questa soglia che si muove l’opera di Han Kang.
Il passaggio dalla terza alla prima persona, evidenziato dall’uso del corsivo (con un procedimento stilistico noto ai lettori di Han), ci consente di immergerci completamente nella dimensione onirica della protagonista: è solo dalla voce della moglie che possiamo comprendere l’angoscia generata dal sogno i cui frammenti sparsi nel testo interrompono il racconto del coniuge. Il cambio dei tempi verbali, dal passato remoto usato per narrare le vicende cosiddette reali al presente e passato prossimo del sogno, presentifica e dilata l’accadimento lasciandogli contemporaneamente un margine di mistero: «Che cosa ho fatto in quel granaio?», si domanda la moglie aumentando un senso di colpa che diventa sempre più ingombrante.
Ma di quale colpa si sarebbe macchiata la moglie? Durante la lettura de La vegetariana il rifiuto di mangiare carne della protagonista potrebbe in un primo momento essere interpretato in una prospettiva animalista, o considerato una scelta che rimanda esclusivamente al suo vissuto, alla sua sensibilità; a questo proposito non è un caso che a tentare di forzare il suo rifiuto sia proprio il padre, «eroe della guerra del Vietnam», ficcandole con violenza un pezzettino di maiale in bocca, che lei sputerà immediatamente per poi tentare di togliersi la vita con un grosso coltello, aggiungendo così altro sangue a quello del sogno. Forse, è leggendo l’intera opera di Han Kang, e in particolare Atti umani (Adelphi, 2017; traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) che il sogno della protagonista può essere meglio compreso. In questo libro, in cui Han affida a una polifonia di voci il racconto del massacro avvenuto nel maggio 1980 nel suo paese natale, Gwangju, nella Corea del Sud, comprendiamo quanto l’orrore provocato da quella carneficina continui a pesare e agire nelle generazioni successive, quanto il passato non possa e non debba essere insabbiato:
«Da quel momento, fui invaso dall’odio per il mio corpo. Per i nostri corpi, gettati lì come pezzi di carne. Le nostre facce sporche in decomposizione, che puzzavano al sole.
Se potessi chiudere gli occhi. Se avessi potuto sottrarmi alla vista dei nostri corpi, quella carne marcescente ormai fusa in un’unica massa, simile alla carcassa in decomposizione di un mostro dalle molteplici gambe. Se avessi potuto dormire, dormire davvero, non questa tremula, nebulosa insonnia. Se avessi potuto tuffarmi a testa in giù sul fondo della mia oscura consapevolezza.
Se potessi nascondermi nei sogni. O forse nei ricordi.»
A parlare qui è «l’amico del ragazzo», come recita il titolo del capitolo, e per ragazzo si intende Dong-ho il quindicenne morto durante il massacro, il “tu” con cui tutte le voci narranti – una per capitolo – intrecciano un toccante dialogo. Trasferitasi con la sua famiglia a Seul poco prima del massacro, la piccola Kang, che allora ha solo nove anni, scopre che Dong-ho è uno studente nella scuola dove insegna il padre, e questo dettaglio insieme alla giovane età della vittima la colpisce e ferisce insieme. Intercettando i discorsi e soprattutto i silenzi degli adulti intorno al terribile evento storico, la undicenne Kang riuscirà due anni dopo a sfogliare di nascosto un libro in cui sono raccolte le fotografie del massacro, nonostante il padre avesse infilato il volume al contrario nella libreria, in modo che il dorso non fosse leggibile ai figli. È in quel libro che Kang “vede” il massacro, in particolare il volto di una donna sfigurato da una baionetta. Nell’epilogo di Atti umani la scrittrice racconta come durante la scrittura del libro e, prima ancora, durante la consultazione delle fonti storiche abbia iniziato ad avere problemi di insonnia e ad essere tormentata (come le sue stesse protagoniste) da sogni terrificanti, che non le hanno dato pace nonostante continuasse a ripetersi che erano solamente sogni.
È ancora sulla natura dei sogni che s’interroga il professore de L’ora di greco (Adelphi, 2023; traduzione di Lia Iovenitti) quando, riprendendo in mano un libro di Borges, che aveva portato con sé durante il trasferimento con la famiglia dalla Corea alla Germania, ritrova una frase in cui il mondo viene definito un’illusione e la vita un sogno. Proprio lì il professore aveva annotato: «Eppure com’è vivido il sogno! Il sangue scorre, e lacrime brucianti sgorgano!».
Nelle storie piene di sogni raccontate da Han Kang scorre molto sangue. Nell’ultimo e straordinario romanzo della scrittrice, appena pubblicato da Adelphi nella traduzione di Lia Iovenitti con il titolo Non dico addio, il sangue scorre di nuovo copiosamente, nonostante una tormenta di neve cerchi di cancellarne le tracce: è di sangue il filo rosso su cui stanno appollaiati gli uccellini bianchi nella bellissima immagine scelta per la copertina: filo rosso di un’opera che, come leggiamo nelle motivazioni del Nobel, «con la sua intensa prosa poetica affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana».
«Cadeva una neve rada», annuncia l’incipit che guarda caso è anche l’incipit del sogno con cui si apre il libro. L’imperfetto della traduzione italiana restituisce la durata di una condizione metereologica (e non solo) che accompagnerà la protagonista e il lettore per quasi tutta la storia, avvolgendo e nascondendo luoghi e persone dentro un’atmosfera sospesa e rarefatta. Nel sogno la neve cade su una pianura sconosciuta puntellata da migliaia di alberi dalle cime recise, tronchi neri «inclinati e storti» come «migliaia di uomini, donne e bambini emaciati», e dietro a ciascun tronco si scorge un tumulo che il mare livido insidia, «strappando le ossa alla sepoltura».
Gyeong-ha, la protagonista, ha iniziato ad essere tormentata da questo sogno nel 2014 dopo aver scritto e pubblicato un libro su un massacro – proprio come è accaduto ad Han Kang; ma se all’inizio, al pari della stessa scrittrice, ha creduto che il sogno fosse una conseguenza diretta del libro, in un secondo momento inizia a viverlo come un segno premonitore che la mette in guardia sul proprio futuro, nonché sulla sua incapacità (o volontà?) di congedarsi, di dire addio.
Gyeong-ha propone all’amica, In-seon, di trasformare il sogno in un’installazione artistica: il sogno, condividendolo, smetterebbe di essere soltanto suo, sempre che lo sia mai stato… Entusiasta, In-seon si butta a capofitto nella realizzazione del progetto, nonostante Gyeong-ha le abbia nel frattempo chiesto di abbandonarlo, giustificandosi con un misterioso «mi sono sbagliata». A chi appartiene adesso il sogno? A Gyeong-ha oppure a In-seon? E perché Gyeong-ha non vuole più trasformare quel sogno in arte? Teme che l’arte possa violare, profanare la realtà, come si legge tra le righe nella Vegetariana?
“Per colpa” del sogno In-seon si taglia un dito con la sega elettrica, e viene trasportata in una clinica di Seul da l’isola di Jeju proprio dove alcuni anni prima si era trasferita per accudire la madre e dove è rimasta a vivere dopo la sua morte. Dalla clinica contatta l’amica per chiederle di recarsi sull’isola per non fare morire di sete Ama, il suo pappagallino. Così, sull’isola di Jeju, sotto una terribile tormenta di neve, Gyeong-ha non rivivrà solo il massacro avvenuto nell’isola nel 1948, di cui la madre di In-seon è stata testimone, ma si renderà conto di come il sogno della pianura innevata abbia direttamente a che fare con quella carneficina.
Gyeong-ha e In-seon hanno ereditato traumi familiari e storici? Come ci ha spiegato la psicanalista Galit Atlas nell’interessante libro su L’eredità emotiva (Raffaello Cortina, 2022): «Le persone che amiamo e quelle che ci hanno cresciuto vivono dentro di noi; proviamo il loro dolore emotivo, sogniamo i loro ricordi, conosciamo anche ciò che non ci è stato esplicitamente comunicato e tutto questo plasma la nostra vita in modi che non sempre comprendiamo». Anche per questo nei libri di Han Kang le voci narranti si moltiplicano: chi prende parola nei libri di Han non è mai solo una persona.
Passato e presente si mescolano dentro la tormenta: i fiocchi di neve verso cui Gyeong-ha aveva teso le manine da bambina sono gli stessi che settant’anni prima avevano ricoperto i volti di centinaia di bambini, donne e anziani nello spiazzo della scuola elementare di Jeju, gli stessi che ora cadono sul suo corpo mentre cerca di raggiungere la casa di In-seon. Allo stesso modo i fiocchi di neve non sono mai solo fiocchi di neve, ma all’improvviso si tramutano in piccoli uccelli bianchi, come Ama e Ami, la coppia di pappagallini di In-seon; così come le luci flebili che illuminano l’oscurità in cui è immersa la storia trasformano la parete, e il mondo intero, in un teatro di ombre:
«Immobile sul lampadario, come concentrato nell’ascolto, Ami teneva la testa rivolta verso di me. Con un occhio seguiva le ombre mutevoli di In-seon e Ama sul muro, con l’altro guardava gli alberi in cortile, che oscillavano nelle luci della sera al di là della finestra. Avrei tanto voluto sapere com’era vivere così, con una doppia visuale. Forse era come quel canone a due voci? O come vivere allo stesso tempo nel sogno e nella realtà?»