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Un ritratto in chiaroscuro di Berthe Morisot

Il libro di Mika Biermann attraverso la finzione biografica si ripropone di mettere in luce l’eterno dissidio tra vita e arte

La rivisitazione letteraria della vita di Berthe Morisot, prima pittrice impressionista, operata da Mika Biermann è audace, quasi dissacrante. Il libro Tre notti nella vita di Berthe Morisot, pubblicato da L’orma editore, propone un’immersione sensuale nella vita intima di una donna nel tentativo di mettere in luce l’eterno dissidio tra vita e arte.
Sull’onda del ribaltamento del canone operato negli ultimi anni, ecco che le donne pittrici vengono messe al centro di una narrazione che a lungo le ha escluse o ridotte semplicemente al ruolo passivo e ornamentario di muse. Il nome di Berthe Morisot, pittrice impressionista, è tra i più interessanti emersi nel corso di questa lenta ma continua riscoperta. Le opere di Morisot stanno conoscendo una nuova valorizzazione, esposte per la prima volta in Italia attraverso due importanti retrospettive, la mostra Impression, Morisot presso il Palazzo Ducale di Genova e Berthe Morisot. Pittrice impressionista presso la GAM di Torino.

Veniva chiamata la “pittrice della luce” a causa del tratto delicato delle sue pennellate e dei colori vivaci da lei utilizzati. Berthe Morisot era artefice di quella nouvelle peinture che nel 1874 fece grande scalpore tra la critica parigina: Edgar Degas voleva dare a quel nuovo movimento artistico il nome di “Gli intransigenti”, ma un giornalista lo anticipò sui tempi battezzandoli come “Gli Impressionisti”. Berthe, che era stata musa di Manet e ne avrebbe sposato il fratello, cavalcava quell’onda anomala della pittura moderna francese con audacia affermandosi soprattutto grazie ai dipinti luminosi realizzati en plein air. Ottenne un certo successo in vita, annoverata tra coloro che furono definite Les grandes dames de l’Impressionisme, ma la sua completa emancipazione si rivelò un’utopia: sulla sua tomba, situata a Passy nella periferia di Parigi, è incisa un’epigrafe letteralmente lapidaria che la inchioda in eterno al suo ruolo “femminile” di moglie: «Berthe Morisot, vedova di Eugène Manet».

Il riscatto di Berthe Morisot si sta attuando soltanto ora, grazie alla riscoperta delle sue opere pittoriche e anche attraverso nuove narrazioni che si focalizzano sulla sua vita mettendo in luce il sentire audace di una donna venuta troppo in anticipo sul proprio tempo. Il libro di Mika Biermann, pubblicato da L’orma editore con la traduzione di Chiara Licata, adotta il punto di vista personale dell’artista lasciando la narrazione storica ai margini per porre l’accento soprattutto sul dissidio tra vita e arte sperimentato da una donna che si stava muovendo su un territorio inesplorato – e a lungo vietato agli esponenti del suo sesso. Le storie di Biermann, scrittore e studioso d’arte tedesco che collabora con il Museo di Belle arti di Marsiglia, si propongono come «fantasie biografiche» sulla vita dei pittori: tra i suoi scritti troviamo Tre donne nella vita di Vincent van Gogh (L’orma editore) e Tre giorni nella vita di Paul Cézanne, la cui pubblicazione italiana è prevista nel 2025. L’intento autoriale di Biermann dunque non ha pretese veritiere né di analisi storico-artistica, ma appare esclusivamente romanzesco. Come accaduto precedentemente con Van Gogh, anche con Morisot lo scrittore gioca a reinventare i particolari del suo vissuto basandosi su un determinato periodo della sua vita, ovvero un breve trasferimento in campagna, alla periferia di Parigi. Abbiamo pochi dati biografici certi relativi all’esistenza della prima donna impressionista e Biermann, nella sua coraggiosa operazione narrativa, si diverte a ribaltare le premesse del biografo ufficiale Armand Fourreau citato nell’esergo:

«Vita avvilente per un biografo affamato di avventure, avido di eccitazione.»

Ecco, l’esistenza di Berthe Morisot raccontata dalla penna di Mika Biermann è tutto fuorché “avvilente”, anzi appare come un concentrato di vitalità, passione ed erotismo. L’autore non compie uno studio sull’opera della pittrice, né un’analisi biografica della sua vita, poiché non è questo il suo intento: attraverso la scrittura, Biermann ci restituisce l’intensità della pittura di Morisot, cercando di cogliere l’inquietudine segreta che ha animato sotterraneamente la sua arte. Il libro procede così per scene che sembrano quadri pittoreschi e, al contempo, metafore di qualcosa di più profondo, a partire dall’incipit «Il treno fila attraverso i campi come una smagliatura in una calza di seta» o ancora «Il cavalletto di campagna, con le sue giunture in rame, somiglia a una piccola forca», sino al grande quadro finale che rappresenta il vero tema morale del romanzo, ovvero: «L’arte è fare delle scelte». Scelte o rinunce? Questa la domanda che, nelle pagine finali, ossessiona il lettore come un tarlo.

Nelle biografie di tutti i più grandi artisti c’è un libro non scritto o un quadro mai dipinto – in questo caso un quadro abbandonato – ed è proprio in quella mancanza che è racchiuso il segreto supremo del loro genio. Narrando Le tre notti nella vita di Berthe Morisot, Mika Biermann mette in luce un processo di creazione artistica che passa attraverso il corpo, esplicitando che l’arte non è mai separata dalla vita. Per raccontare una donna fuori dagli schemi era anche necessario dare voce all’indicibile: Berthe Morisot è stata la pioniera di un nuovo sguardo, attraverso la sua pittura ci ha consegnato un “nuovo modo di vedere”, dunque i suoi pensieri dovevano essere per forza l’estensione della sua visione, sfuggire alle maglie del rigido moralismo della società dell’epoca. Anziché focalizzarsi sull’arte pittorica di Berthe Morisot, Biermann si focalizza sul suo percorso di scoperta interiore immaginando un periodo di crisi e dunque, necessariamente, di creazione nell’esistenza della pittrice.

Berthe Morisot, La culla (1872)

La Storia in senso proprio in questo libro appare soltanto a tratti mediante aneddoti curiosi che trapelano attraverso i dialoghi tra i protagonisti: lo scandalo dell’Olympia di Manet; il pugno di Camille Pissarro a un giornalista impertinente; la pittura impudente di Courbet e la sua Origine del mondo che, per essere trasportata senza incorrere nella censura, dovette essere nascosta dietro una natura morta. La vita sovrasta l’arte e persino i grandi pittori non sono altro che uomini: Pissarro è malato di cancro allo stomaco, Edgar (Manet) è un idealista che «rischia di far venire brutte idee ai giovani» dipingendo una «puttana dal ventre giallo» e non si salva neppure Gustave Courbet, viene ritratto spietatamente come un vecchio gobbo e poco piacente.    

Metà Ottocento, nell’arte il nudo è dappertutto e la gente si scandalizza, si indigna, e poi di nascosto acquista quei quadri incriminati e li ripone negli anfratti più segreti delle proprie abitazioni. Berthe impasta i colori sulla tavolozza, come se si facessero la guerra, e aggredisce la tela con rabbia; è il suo modo di dipingere e di ribellarsi. Ci viene descritta anche la fatica della sua arte: dipingeva en plein air, non in un atelier, trasportando il cavalletto e tutti gli strumenti con le proprie mani, sudando e faticando, camminando tra lo sterco, la melma e la polvere, perché «la pittura dal vero non è una passeggiata». Ma è proprio il vero ciò che a lei interessa, il tentativo di catturare un lembo di cielo. 
«Il nudo è dappertutto» osserva «tranne che nella vita». E allora ecco che lei cerca di indagare i misteri di Eros per riportarli sulla tela in modo moderno: il suo quadro preferito è Amore e Psiche di Elisabetta Sirani, perché lo ha dipinto una donna il cui occhio riesce a cogliere bene i «rischi dell’amore».

Le notti di Berthe Morisot, nel libro di Mika Biermann, attraversano il sottile discrimine che separa vita e arte, dimostrando che «Non si può tradurre il mondo che è fatto di colori; tranne durante la notte». Nell’oscurità senza colori – nel nero che lei non può (o non vuole) dipingere – Berthe Morisot viene a contatto con il desiderio che è il segreto della propria vocazione artistica. C’è un’impurità inconfessabile nel desiderio, così come nell’arte: la tela non è più bianca, una macchia la sovrasta, il dipinto è quella macchia che prima non c’era. Il ritratto, però, non si può abbracciare, non è che una semplice immagine. L’arte o la vita? È l’eterno, indicibile, dissidio nell’esistenza di ogni artista. Berthe, nel finale della fantasia biografica di Mika Biermann, sembra scegliere la vita: dice al marito Eugène di volere un figlio:

 «Se è una ragazza, la chiameremo Julie.»

Quella figlia non ancora nata – ma che presto nascerà e avrà proprio quel nome – viene evocata nel tentativo di nascondere o sopperire a una mancanza. Un personaggio centrale nel libro è la disinibita contadinella Nine: Berthe la ritrasse davvero? Tra le sue opere troviamo numerosi ritratti di giovani fanciulle in fiore, come Contadina con il bucato (1881), Contadina tra i tulipani (1890) o, ancora, Ragazza contadina (1890), curiosamente il soggetto si ripete, ma l’identità anagrafica di queste ragazze rimane sconosciuta. È esistita davvero una Nine nella vita di Morisot? Non possiamo sapere se le cose siano andate effettivamente così, non potremo mai saperlo: arte e scrittura, del resto, colmano i “non detti” della vita. Lo sguardo di Berthe Morisot ci viene restituito da un altro ritratto, che oggi la identifica: è il quadro Berthe con un mazzo di violette (1872) realizzato da Édouard Manet e ora conservato al Musée d’Orsay di Parigi.

Édouard Manet, Berthe con un mazzo di violette (1872)

Non è un quadro veritiero, è forse un’altra fantasia d’artista: Berthe Morisot fu restituita ai posteri vestita di nero, su sfondo nero ­ – il colore della notte che lei non poteva né voleva dipingere. Anche i suoi occhi, in quel dipinto, sono scuri; mentre nella realtà sappiamo che erano verdi, di un bel «verde imperiale».
Lei che era la pittrice della luce venne ritratta da Manet in nero, immersa nell’oscurità dal quale il suo profilo bianco appena traspare. Forse per ritrovare Berthe Morisot e i suoi occhi verdi dobbiamo ricercarla nelle opere da lei dipinte, anche nei quadri non dipinti o abbandonati, come suggerisce Mika Biermann nella sua ardita ricostruzione romanzesca, magari nel dipinto La culla (Le Berceau, 1872)­ – il più celebre e incompreso – in cui raffigurava una toccante scena di maternità dalla quale lei appariva esclusa: erano ritratte infatti la sorella Edma e la figlioletta appena nata di lei, Blanche. Anche in quel quadro il nome di Julie – la figlia ancora non nata – aleggia sospeso come una promessa o, forse, un desiderio. È sempre la vita a dare impulso all’arte: senza quel desiderio, il quadro sarebbe vuoto, un semplice e vezzoso esercizio di stile, invece quel quadro parla, anche grazie agli occhi verdi di Berthe Morisot. Ed è allora che ci rendiamo conto che quegli occhi non dovevano essere ritratti o rubati, perché è lei stessa a consegnarci il proprio sguardo attraverso i suoi dipinti.
No, lei non era la musa di Édouard Manet né la vedova di Eugène Manet: era Berthe Morisot, una pittrice, che impastava i colori come luce. E aveva gli occhi verdi.



In copertina: In Front of the Mirror, Berthe Morisot (1890)

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