Il gioco di ruolo (GDR, o in inglese Role Playing Game abbreviato in RPG) è un gioco nel quale ogni giocatore assume i panni di un personaggio specifico e, tramite la conversazione, l’uso di regole prestabilite e l’inserimento in un contesto geopolitico definito ambientazione, dà vita a una storia. Ciò che avviene nello scambio dialettico fra i giocatori e il master (ossia colui che tiene le redini delle sessioni di gioco) è una vera e propria esperienza narrativa, fatta di incipit, svolte, climax, cliffhanger e conclusione.
E cosa si è appena descritto in queste poche righe se qualcosa che somiglia alla stesura di un romanzo, di un racconto, di una sceneggiatura?
In questa serie di articoli dal titolo Role Play Write, andremo a parlare di come il GDR abbia diversi elementi caratterizzanti in comune con la scrittura creativa, e di come la pratica dell’uno possa influenzare l’altra (o viceversa).
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Nel 2002 ero al primo anno di un liceo scientifico di periferia a Roma e avevo da poco scoperto il mondo dei manga. Nello specifico parliamo di vere e proprie opere d’arte divenute negli anni iconiche, come Neon Genesis Evangelion, Gantze Berserk. Contestualmente avevo anche realizzato che i cartoni animati che trasmettevano su Italia 1 dopo pranzo – Dragon Ball, Pokémon, Holly e Benji, One Piece, solo per citarne alcuni – erano in realtà degli anime, ossia serie d’animazione giapponesi tratte appunto dai manga; e che di anime e manga ve ne erano un’infinità, e che addirittura esistevano dei luoghi – le fumetterie – dove era possibile arrivare a conoscere tutto lo scibile di questa cultura per me nuova. È appena il caso di far presente quale universo si fosse aperto davanti ai miei occhi.
Era sempre il 2001 quando – quasi la naturale prosecuzione degli eventi – per la prima volta giocai di ruolo, nello specifico alla terza edizione di Dungeons & Dragons (per gli amici: D&D), il gioco di ruolo più longevo da quando nel 1974 Gary Gygax e Dave Arneson hanno pensato bene di fondere le meccaniche dei wargames degli anni Settanta, che prevedevano uno scontro fra eserciti costituiti da miniature, con una costruzione del personaggio basata sulle ambientazioni tolkeniane, spostando l’attenzione dall’aspetto sociologico della guerra a quello psicologico delle scelte individuali.
La mia prima campagna fu un’avventura preimpostata intitolata La città della regina ragno che si svolgeva nei Forgotten Realms, l’universo immaginario forse più famoso fra i giocatori di ruolo e che ha ispirato anche le serie di videogiochi Baldur’s Gate, Neverwinter Nights e Icewind Dale. Imparare le regole di D&D 3.5 (la versione che forse ha battezzato più di una generazione di giocatori) fu un massacro. Il manuale, la cui copertina è diventata anch’essa iconica nel tempo, era un mattone di oltre trecento pagine, con regole talmente complesse e cervellotiche da sfidare i tomi che avrei studiato all’università (non di rado ho paragonato il linguaggio di D&D a quello “giuridico” della Critica della ragion pura di Kant), senza contare le espansioni, ognuna con regole aggiuntive, e le discussioni interminabili nei forum specializzati, nelle quali si sfidavano dottrine interpretative degne di un concilio vaticano.
Ma alla fine ce la facemmo. Io e il mio gruppo di amici creammo i nostri primi personaggi, umani, nani o elfi di livello 1. Il mio primo PG si chiamava Darvax – un nome che nel tempo è diventato una sorta di alter ego per tutto ciò che riguarda il virtuale, dai forum alle chat fino ai nomignoli usati sui social come Facebook o Instagram – ed era un umano guerriero neutrale malvagio. Ossia, nell’ottica manichea del gioco, perseguiva il male perché era l’unica alternativa al bene.
Inutile dire che Darvax era un personaggio piattissimo. Mentre il master – vale a dire colui che guida la narrazione, costruisce il mondo e gestisce gli eventi della campagna anche (o soprattutto) basandosi sulle azioni dei giocatori – leggeva dal libro dell’avventura le descrizioni dei luoghi che andavamo esplorando, il mio personaggio pensava solo ad arricchirsi e a trovare armi più potenti. Nulla lo muoveva se non un’indistinta brama di potere e un bisogno inspiegabile di sangue (rafforzato, c’è da dire, da un patto con un diavolo che, a fronte di un centinaio di anime donate, garantiva il possesso di uno spadone potentissimo). Darvax non aveva un passato: non una famiglia (a parte quella genericamente uccisa da un gruppo di orchi briganti: un classico background privo di fantasia per chi ha appena iniziato a giocare), non degli amici, non un altro essere vivente da amare (uomo o donna, umano o elfo cambiava poco). Darvax era una scheda riempita con delle statistiche sulla quale era appiccicata solo la voglia di conoscere un gioco e un universo nuovi. Qui è necessaria una piccola digressione. C’è da dire infatti che anche i videogiochi soddisfacevano lo stesso desiderio (nel 2001 avevo da poco scoperto la PlayStation: Resident Evil, Final Fantasy 8, Tekken 3) ma, rispetto al gdr, avevano due grossi limiti. Il primo riguardava il fatto che, a parte alcune eccezioni, si giocava da soli (oggi invece quasi tutti i videogiochi consentono di giocare online con altri giocatori). Il secondo – e qui siamo maggiormente sul tema di questa serie di articoli – aveva a che fare con gli script: al di là di una manciata di eventi aleatori e di alcuni diversi finali, quasi sempre il videogioco è simile a se stesso (c’è un termine per questo, “longevità”, che indica proprio la capacità di un gioco di resistere alla noia dovuta alla ripetizione di meccaniche preimpostate). Il gdr, in qualche modo, riusciva a bypassare entrambi i problemi: da un lato si giocava con altri amici e dall’altro nessuna sessione era uguale alle precedenti.
Era da poco uscito in tv La compagnia dell’anello (o forse già Le due torri), e tutto ciò che volevamo era rivivere le avventure di Frodo, Gandalf e Aragorn, sebbene in quel tentativo di emulazione si andasse a perdere tutta la complessità che poteva esservi dietro. Ma, citando il musicista statunitense Les Brown, puntando alla luna avevamo quantomeno vagato fra le stelle.
Nel 2019 circa – quindi diciott’anni dopo: una cifra altamente simbolica – si è conclusa una campagna con un altro gruppo, del quale facevano parte anche alcuni amici “storici” che avevano partecipato al mio battesimo del fuoco. Stavolta la campagna non era una di quelle ufficiali – a dire il vero anche il gioco era diverso: non D&D ma Pathfinder, quella che molti amanti del settore hanno sempre definito la vera quarta edizione di D&D, creata da un gruppo di dissidenti che, allontanatosi dalla Wizard of the Coast (la casa produttrice di D&D) dopo una serie di scelte discutibili sul futuro del più famoso gdr al mondo, ha pensato bene di creare un gioco praticamente identico ma con meccaniche e ambientazioni diverse.
La campagna era altamente sperimentale. Anziché esserci un solo gruppo formato da quattro o cinque giocatori, ne erano previsti due. La storia era la stessa ma affrontata da due punti di vista diversi, spesso contrastanti, il che comportava degli incontri che quasi sempre diventavano degli scontri da risolvere, se possibile, con la dialettica. Il mio personaggio, un elfo mago di nome Hellin, era il figlio maggiore di una casa nobiliare che aveva un ruolo rilevante nel governo della città. Hellin aveva un padre severo ma giusto, una madre altezzosa (come tutti gli elfi), un fratello guerriero e una sorella ancora troppo piccola per dedicarsi a qualsivoglia carriera. Hellin aveva un carattere riservato e rigido, e di certo gli studi dell’accademia non aiutavano a renderlo più malleabile o a farsi degli amici. Le sue idee erano ferree, e lui era sempre convinto di essere nel giusto.
Tutto è cambiato quando in città è scoppiata la guerra civile. Si sono create due fazioni e i giocatori (ops: i personaggi) hanno dovuto decidere da che parte stare: dalla parte dei rivoluzionari, che volevano un mondo libero e uguale per tutti, o da quella dei nobili, che prediligevano lo status quo? Ora, sapendo quel poco che si è scritto, secondo voi Hellin da che parte stava?
La campagna è durata un paio d’anni. Intere serate sono trascorse nel tentativo di convincere gli altri a una pace duratura e poi, quando un importante plot twist ha cambiato le carte in tavola, a riunificare i due gruppi per affrontare il vero nemico: una razza aliena desiderosa di conquiste. Hellin e gli altri hanno superato perdite, subito sconfitte, sono andati vicini alla morte ma alla fine, in qualche modo, hanno riconquistato la libertà. Stremati, i personaggi (e i giocatori con loro) hanno messo la parola fine a una campagna complessissima ed emotivamente sfidante, anche grazie ai due master che hanno saputo creare qualcosa di unico.
Ancora oggi di quella campagna conserviamo un bellissimo ricordo. C’era tutto a livello di gioco ma, a guardare bene la questione da un’altra prospettiva, c’era anche di più.
C’era una trama, tanto per cominciare: un inciting event che stravolge le vite tranquille dei personaggi più una serie di plot twist che cambiano le regole del gioco, senza contare i vari personaggi non giocanti (o png) che facevano da aiutanti o antagonisti non sempre facili da distinguere. La trama vedeva al centro le azioni dei personaggi, che contribuivano al suo svolgimento perché potevano scegliere da che parte stare e come condizionare il corso degli eventi.
C’era un’ambientazione. Il mondo in cui ci muovevamo era basato su Golarion, il pianeta immaginario di Pathfinder (l’alter ego, potremmo dire, di Toril, il mondo di D&D di cui i Forgotten Realms fanno parte). Golarion è composto da stati e nazioni, da territori inesplorati e città enormi, da deserti, giungle insidiose e mari solcati da pirati. La sua storia affonda i denti nel mito e nelle leggende e giunge fino alle soglie della (nostra) modernità. In Golarion esiste un politeismo che scava nei miti nordici, egizi e greco-romani. L’ambientazione di Pathfinder (e di D&D) è altamente strutturata, con manuali che approfondiscono le singole zone, così da consentire ai giocatori di creare dei background che non siano il classico «La mia famiglia è stata uccisa da un gruppo di orchi e ora cerco vendetta». I manuali stessi incitano i giocatori ad approfondire le storie dei personaggi, fornendo spunti su tratti razziali ed etnici, mestieri, difetti e pregi.
Infatti, oltre alla trama e all’ambientazione, nella nostra storia c’erano dei personaggi. Personaggi a tutto tondo, stavolta, ciascuno con una storia familiare innestata nel luogo e nel tempo in cui si svolgeva l’azione. Hellin ad esempio aveva dei sogni, delle paure, dei rituali quotidiani, dei principi e dei valori. Temeva per la sua vita, era affezionato ad alcuni personaggi e ne odiava altri, combatteva per uno scopo. Mangiava, dormiva, si lavava (cosa che spesso nelle campagne viene messa in secondo piano: i personaggi si scordano di mangiare, dormire e lavarsi e i master più attenti fanno pagare lo scotto cacciandoli via in presenza del re… giustamente).
Se tutto quello che avete letto finora vi sembra familiare forse è perché lo è. Quando iniziate un romanzo – non importa che sia fantasy: veramente non importa – ciò che vi trovate dentro sono un’ambientazione, una trama e una serie di personaggi che, nel corso degli eventi, affrontano quello che in gergo si chiama “arco di trasformazione del personaggio”, ossia un cambiamento radicale che li porta a rivedere alcune considerazioni, a superare dei traumi e ad affrontare le proprie paure.
In questo senso – e qui è il punto di questo articolo, anzi: di questa serie di articoli – è possibile dire che il gioco di ruolo sia la cosa che maggiormente si avvicina alla scrittura creativa. Dal punto di vista del giocatore, e ancor di più da quello del master, la costruzione dell’avventura è molto simile – per certi versi identica – alla stesura di un romanzo. Bisogna pensare a un insieme di regole che siano coerenti con l’ambientazione nella quale si svolgono (un’ambientazione vampiresca durante i secoli bui del medioevo, per fare un esempio, non può contemplare armi da fuoco o cellulari), prevedere una serie di eventi sfidanti per i personaggi e che li obblighi a delle scelte morali complesse (sacrificare qualcosa per ottenere qualcos’altro), e tutto un sistema di premi e punizioni che spronino a fare meglio, sempre meglio. Nelle campagne strutturate c’è quasi sempre un momento di caduta, dopo il quale – a seguito di una risoluzione dei personaggi – la situazione migliora, per arrivare al gran finale. È appena il caso di sottolineare come alcune campagne particolarmente funzionanti abbiano ispirato film e serie tv: un esempio fra tutti è la fortunata serie animata La leggenda di Vox Machina, basata sulla prima campagna della webserie a tema Dungeons & Dragons Critical Role, nella quale un gruppo di doppiatori professionisti affronta una campagna piuttosto lunga.
Personalmente parlando, da autore, ho trovato che i due mondi – il gioco di ruolo e la scrittura creativa – si compenetrino. La mia esperienza da giocatore di ruolo ha preceduto di molto quella da autore di racconti e non dubito neanche per un secondo che la prima abbia formato la seconda. Dal primo personaggio, quel Darvax che non sapeva di nulla e compiva azioni dettate solo da una generica bramosia di morte, a quell’Hellin di cui conoscevo vita, morte e miracoli, le avventure svolte nei miei oltre vent’anni di gioco hanno contribuito a migliorare la difficilissima arte della costruzione del personaggio. Perché tirare i dadi è bello, e poche cose sono soddisfacenti quanto l’abbattere un nemico facendo un 20 col dado; ma negli anni io e i miei amici abbiamo capito che la parte più bella e intrigante del gioco di ruolo non è tanto il gioco quanto il ruolo, ossia l’interpretazione del personaggio. Come può capitare con un personaggio a teatro o in una serie tv, a volte l’immedesimazione è talmente alta che si arriva a empatizzare tantissimo con chi spesso è molto (molto) diverso da sé. Non è un caso che uno degli eventi più terribili che possa capitare a un giocatore di ruolo sia la morte del personaggio in una fase avanzata della campagna. In alcuni casi viene vissuta quasi come un lutto personale. Un pg ben costruito, oltretutto, può diventare lo spunto per il protagonista di un racconto o un romanzo che si sta scrivendo.
C’è una cosa interessante che ho scoperto confrontandomi con altri giocatori. Quando si inizia a giocare di ruolo si tende a dire «il mio personaggio fa questo, il mio personaggio fa quell’altro». Nel tempo poi si passa a un più preciso «Hellin fa questo, Hellin fa quell’altro», per poi finire con «Io faccio questo, io faccio quell’altro».
Ed ecco che l’immedesimazione è completa.
In copertina, illustrazione di Anna Volpi (@aanniehunt)