Conoscenza
C’è un distico di Claudia Rankine che gioca sul verbo police in inglese, che vuol dire controllare e vigilare. A questo verbo Rankine, dopo aver raccontato di vari omicidi commessi da umani in divisa, assegna un oggetto strano: l’“immaginazione”. Dice police my imagination: «Because white men can’t police their imagination, black men are dying». Dato che i bianchi non riescono a vigilare sulla loro immaginazione, a tenerla a bada, i neri stanno morendo.
C’è una litania di Carl Schmitt, giurista maledetto, che da vecchio gioca sulla triade politica / polizia / politesse. Vuol dire che i tre lemmi hanno la stessa radice – la città – e, seppur significano tre cose diverse, a quella origine ancora rispondono, trainando il progresso moderno, stabilizzando e controllando. E quindi la polizia è una questione della città. La gentilezza (i modi di ingaggio politico) pure. Ma pure la gentilezza è una questione della polizia – anche se quasi viene da sorridere a pensarlo. Eppure Schmitt ha ragione: la polizia per secoli è stata oggetto di una scienza che, come spiega Foucault, mirava al buon impiego delle forze dello Stato, ma nel farlo prendeva in considerazione ogni attività individuale e sociale. Coi suoi modi d’ingaggio, la polizia vigilava su ogni cosa che avesse riflessi pubblici: sanità, circolazione delle merci, lavoro, lotta all’ozio. Era ovunque.
C’è poi una formula di Max Weber che dice che lo Stato ha il monopolio dell’uso legittimo della violenza: solo chi è armato dallo Stato può utilizzare a giusto titolo la forza. Questa formula la usano tutti, tutti più o meno pensano che sia esatta, anche se questo non vuol dire che non sia un rischio.
È uscito per l’editore nottetempo un libro che unisce questi tre punti, quello di Rankine, quello di Schmitt e quello di Weber. Ha un titolo “weberiano”, Il braccio armato del potere, e un sottotitolo meno: “Storie e idee per conoscere la polizia italiana”. L’autore, Michele Di Giorgio, è uno storico e si occupa della storia della polizia – cosa rara, tra gli storici. Sono pochi infatti gli studi italiani al riguardo, per «la falsa idea che occuparsi di questi temi poteva esporre al rischio di apparire meno rigorosi, meno misurati e troppo militanti». Di Giorgio ha scritto un testo non specialistico, e straordinariamente ricco e utile. Un libro che naturalmente non è “contro la polizia”, lo dice subito, perché è un’operazione conoscitiva, appunto. Usa storie e idee per conoscere meglio un problema lungo secoli.
Continuità
Perché la polizia, al di là della sua ricca etimologia, è un problema.
Che in Italia, al netto di elogi retorici e serie TV spesso zuccherose, la polizia sia un fattore d’ordine pubblico ma al contempo di disordine è una convinzione condivisa nel tessuto sociale: chiunque sa che in momenti difficili deve rivolgersi alla polizia, chiunque sa che non sempre può essere la scelta migliore. Che la questione-polizia vada conosciuta, al di là di posizionamenti politici, per «svolgere quel ruolo di osservazione e monitoraggio necessario ad assicurare la tenuta democratica delle forze dell’ordine», come spiega persuasivamente Di Giorgio nella sua premessa, è qualcosa che, tra dichiarazioni insensate (come quelle ineffabili del titolare del dicastero dei Trasporti), difese d’ufficio e astio accumulato, sfugge adesso ai più. Ma non è sempre stato così. Se nel momento di maggior tensione sociale nell’Italia repubblicana (tra gli anni Sessanta e Settanta), intellettuali schierati ma diversissimi come Pier Paolo Pasolini e Stefano Rodotà si sono dedicati al tema della democratizzazione della polizia, è singolare notare come oggi, in un regime di isolamento e intorpidimento coatto delle lotte sociali, il tema venga trattato con una fortissima tensione emotiva in relazione alla dinamica di singoli episodi di abusi, senza insistere sulla questione della violenza sistemica.
Una violenza sistemica che si nutre del disordine strutturale e cronico a livello organizzativo. E che, in era democratica, si adagia su una continuità sospetta di uomini e ruoli tra periodo fascista e periodo antifascista. Con una serie di contraddizioni annesse: «Nel 1947 molti degli alti funzionari che avevano operato sotto il fascismo […] erano nuovamente in servizio», e i partigiani entrati in servizio furono più o meno gentilmente epurati dal micidiale ministro degli Interni Scelba. La polizia fu militarizzata, disciplinata, allineata ideologicamente alle posizioni governative, incistata dalla persistenza della figura dei prefetti, che tanto avevano contato in era fascista, e tanto contarono dopo. Questo è il vizio d’origine – che tanto ha pesato sul piano sociologico e politico: le repressioni violente e più volte omicide di lotte operaie e contadine nell’immediato dopoguerra non si contano.
Fino alla riforma del 1981, la polizia fu insieme militare e civile, sottoposta simultaneamente a funzionari e prefetti con effetti di confusione, insoddisfazione e, soprattutto, livellamento verso il basso della cultura democratica di chi ne faceva parte. La riforma del 1981, pur molto frenata, introdusse però dei meccanismi d’ingresso in cui, accanto alla smilitarizzazione del corpo, la cultura e formazione degli agenti (finalmente anche donne, anche qui con notevoli inciampi) cominciarono a contare. E fu permessa la sindacalizzazione, anche se osteggiata, e tenuta forzosamente separata dal resto delle rappresentanze. Sono seguite riforme analoghe anche per gli altri corpi – carabinieri e militari. Eppure, conclude Di Giorgio sottolineando quanto queste aperture vengano spesso sabotate anche in parlamento, è arduo «immaginare un ruolo positivo e progressivo del sindacalismo militare, anche in chiave di controllo democratico».
Macedonia
Durante le audizioni dei processi legati alla vicenda della scuola Diaz a Genova nel 2001, quando un centinaio di persone furono aggredite dalle forze dell’ordine mentre dormivano e rischiarono di morire per i colpi ricevuti e le torture, qualcuno degli imputati parlò dell’operazione come di una «macedonia di polizia». Nell’assalto furono cioè coinvolte quasi tutte le “forze” che Di Giorgio elenca nel primo capitolo, per mostrare la notevole confusione istituzionale italica, ogniqualvolta parliamo di forze dell’ordine. Già, perché polizia, carabinieri, finanzieri, e poi guardie penitenziarie e forestali, sono altrettanti corpi che dipendono da ministeri diversi (interni, difesa, finanze, giustizia, agricoltura), che non collaborano volentieri, anche se i loro compiti, a volte estremamente dettagliati, come vuole la storia del lemma, in parte si intrecciano. La loro storia è una storia di «concorrenza, ma potremmo anche dire rivalità, gelosia, opposizione e sovrapposizione». Un pluralismo a volte difeso come garanzia democratica, che tuttavia porta «inefficienza, contrasti e talvolta incidenti». E favorisce lobbismi incrociati, come quello che vede l’attuale sottosegretario Delmastro tessere «legami stretti e informali» coi filoni più estremisti della polizia penitenziaria.
Nell’intreccio opaco tra polizia e politica, da anni la legislazione – il cui esito ultimo è l’attuale e pericolosissimo Ddl 1160, che tra l’altro vuole consentire agli agenti di detenere armi fuori servizio – tende a intervenire ampliando il campo d’azione delle forze dell’ordine, spesso richiamandosi a emergenze reali, ma spesso solo “percepite”. In questa chiave, «questioni importanti e delicate sono state lasciate a una gestione “tecnica”, che nel corso degli anni ha concesso ai corpi un’autonomia inedita e pericolosa». Un’autonomia che, al netto della copertura ideologica della sicurezza, spesso ha favorito e favorisce abusi.
Cercate di capire
In una poesia chiamata Per Serantini. 1972, richiamata da Di Giorgio, Franco Fortini ricorda un giovane anarchico ammazzato di botte – e poi lasciato morire – in una caserma di Pisa nel maggio di quell’anno. Menziona gli assassini: «Alcuni miei concittadini armati / agenti della polizia repubblicana scatenati». Venti anni dopo, in Composita solvantur, ricorderà un grido udito in strada durante una manifestazione di quegli anni: «Cercate di capire / questa sera ci ammazzano». E chi ci ammazzava erano i poliziotti.
Ma poliziotti, ricorda Di Giorgio, sono anche quelli che fino alla riforma del 1981 erano sottoposti a pessime condizioni di vita e lavoro, «disciplina eccessiva, obbligo di celibato, retribuzioni scarse, isolamento, emarginazione, odio sociale». Condizioni che portavano (e portano) chi compie quella scelta professionale, perlopiù per mere ragioni economiche, a stati psicologici borderline, con una cronica tendenza a rivolgere contro di sé le armi di cui sono dotati (davvero notevole – una media che sfiora i cinquanta all’anno – la «contabilità del male oscuro» che menziona Di Giorgio). E il tema weberiano – di essere gli unici titolati a usare la violenza legittimamente – si scontra non solo con margini di arbitrio molto ampi, ma anche e soprattutto con un condizionamento ideologico conservatore, che ne fanno il braccio armato, appunto, di poteri politici e sociali poco democratici.
Alla negatività delle condizioni materiali si intreccia un immaginario di corpo spesso “claustrofobico” al di là delle riforme, in cui il senso d’appartenenza è andato, e va, oltre ogni principio di legalità e democrazia (bastino i casi Diaz, Cucchi e Aldrovandi come esempio).
Le classi pericolose
La vecchia questione prima tedesca poi europea che voleva che la Polizei intervenisse su ogni aspetto della vita quotidiana, che sorvegliasse e tenesse a bada la «moltiplicazione e interconnessione dei bisogni quotidiani» (Hegel), che insomma vi fosse uno sguardo dell’autorità pubblica su tutto, non è affatto passata di moda. La polizia italiana, spiega Di Giorgio in coda, è stata spinta dalla politica (di ambedue le parti, coerentemente destrorse nel manipolare la diade decoro-degrado) a «svolgere un lavoro improprio di “pulizia sociale”, trasformandola in un ammortizzatore […] e mostrando un’idea di sicurezza di classe da usare contro le persone considerate indesiderabili: povere, senza casa, con problemi mentali, legate al mondo della prostituzione, tossicodipendenti, nomadi o migranti». Se in Hegel proprio nel capitolo sulla polizia spuntava la “plebe”, come irrazionale ingestibile della sua filosofia del diritto, anche oggi alla polizia spetta il compito di gestire le “classi pericolose”, perlopiù portando il nemico sociale fuori dallo sguardo e dal diritto stesso.
L’assenza di gestione politica dei fenomeni migratori, o il loro totale contrasto che fa uso di misure illegali, porta al rapido convergere e sovrapporsi delle classi pericolose negli “indesiderabili”, la cui esistenza è un perpetuo, ed esclusivo, interfacciarsi con corpi di polizia spesso impreparati. Col risultato che, anche da noi, come dice Rankine, dato che gli uomini bianchi non tengono a bada la propria immaginazione, il povero, come nemico sociale, sta estremamente male, e a volte muore.
In copertina: ©Ansa, Massimo Percossi