Il buon senso di Jane Austen, stuzzicato dalla cattiveria illuministica, ha prodotto un miracolo letterario in redingote di graffio, eleganza e proporzioni non facilmente replicabili, e organizzato una serie di rigorosissime Così fan tutte, manovrando figurine di ragazze come i mercenari nei conflitti dinastici, in brillanti strategie compositive. Ma tutte le ragazze, gli ufficiali, duchesse o parroci di campagna, erano solo pretesti, manichini accidentali per ragionamenti più diversi e ampi, a servizio di un grande scrittore interessato unicamente a scrivere e fare letteratura per la letteratura.
Purtroppo è stato facile tradire questo elemento evidentissimo, perché la macina del masscult non ha pietà, e, se solo si vuole, tutto può essere polverizzato e sfigurato sino a forzare spaventosi cambi di personalità letterarie. Uomini, donne, bambini, nonne e ziette, basette, medagliette, triplette di velette, panciotti, parenti e amici per il ballo e poker d’assi Regency, interi plotoni di coccarde terapeutiche per falsi lettori interessati solamente a fare una conta degli stivali Wellington, fra figurette e stereotipi in plastica dentro magioni e castelli: non è stato complesso far precipitare l’alta letteratura di Jane Austen nell’etichetta del “messaggio”, e lungo i baratri più dementi di semplificazioni parruccose e rappresentazioni setate in porcellana Capodimonte (o Limoges?) a base di centrini, teiere e vassoi scintillanti riempiti di tartine e biscotti, facendone stramazzare l’intelligenza e lo stile nella smania per un garrick di troppo. Il cinema ha dato un contributo fatale, affiancato dal bisogno di forzare istericamente Austen a ruolo di attaccapanni per sponsorship ideologiche. Tutti i film che riguardano i suoi romanzi azzerano la sofisticata estetica della conversazione su cui invece ha molto lavorato (presentare il miglior congegno possibile di conversation piece quasi in forma di ‘duello’ senza vincitori era la grande preoccupazione di Jane Austen), condannandola all’esteriorità più etologica. Inscenano dialoghi smorfiosi, enfatizzando miagolii e piroette dei rispettivi «caratteri sessuali» invece che i rilievi puramente psicologici e i comportamenti innati, con le loro sfumature importanti. Così da sabotare non tanto i contenuti dei discorsi (spesso trasposti fedelmente), ma il loro Stile, rendendo provinciale e manichea quell’immagine invece universale, scivolosa ed enigmatica di incontro, o di scontro, fra individui, tutto interno e sotterraneo. Immagine che non si legge, e soprattutto non si vede, dai minuscoli finestrini ideologici degli scompartimenti di genere, ma con un giocoso monocolo sempre un po’ di traverso, divertendosi a essere ora Collins coi suoi sermoni, ora Wickam con i suoi stupidi stivali, ora il pas de deux Bennet e Darcy, perfetti amanti che all’inizio si trovano quasi insopportabili. Soprattutto, non è mancato il tentativo molesto, andato a buon fine, di presentarci la sua letteratura secondo metafora di box elettivo per una “letteratura femminile”, di ‘lotta’, ‘affermazione’ e premiazione di tutto ciò che significa essere donne (che dire allora di Yeats, Canova, Byron, Goethe, Catullo e Properzio, Botticelli, Dante e Gautier? Si direbbe non abbiano saputo fare altrettanto?).
Ma si fa un torto alla Signora Austen e alle sue trovate strutturalmente perfette, oppure a tutta la Letteratura (e a tutta l’Arte), pensando che sia “serva di idee” e di qualcosa, o che abbia esaltato un pensiero di genere? Ha senso parlare di una letteratura sessuata? I romanzi della Austen sono ostaggio di equivoci vecchi e nuovi, ma quello di giudicarla un’autrice “rosa” potrebbe essere il peggiore di tutti. Manganelli la riteneva uno dei suoi scrittori preferiti, diceva che avrebbe voluto scrivere un romanzo come Emma, definendolo un cruciverba perfetto, giustamente abbagliato dal dato formale di natura enigmistica che bene la Austen sapeva maneggiare, per tutti i giochi di velamento articolati con i personaggi. Certamente pensando a scritti come Northanger Abbey, dove castelli e abbazie funzionano come metafore di romanzi neri e satire filosofiche. Elementi rilevati anche da Arbasino, fra i quali l’abilità austeniana di occultare, dietro apparenti macchiette, figure meta-letterarie. Livelli di ironia suprema, raggiunta nei suoi maggiori romanzi, in cui si travestono da melensaggini da Miss provinciali le più estreme raffinatezze d’una fantasia romanzesca sterminata, qualità formale che non cela altro che un culto della composizione e dell’inventio letteraria. Il cinema, la televisione, e tanto giornalismo fuffaiolo, rischiano pure di farla passare per una vittoriana. Quando invece appartiene con fermezza al Settecento, come Rousseau e Mozart, di cui condivide le idee sulla Natura e sull’Amore.
Sapranno tutti questi amatori che “Jane”, così la chiamano (come si farebbe con una vicina di pianerottolo), è nata nel 1775? E che dunque i suoi veri contemporanei sono Goethe, Chateaubriand, le prime sinfonie di Beethoven, le tragedie di Kleist e Schiller? Peccato, però, pensare che lo Stile Impero funzionerebbe nei suoi confronti come ‘categoria’ ancor più eccentrica del Vittorianesimo preso dal lato spiacevole. Arbasino ci invita a non dimenticare che dopo tutto la stesura di Orgoglio e Pregiudizio è parallela all’apparizione dei risultati più maturi di Restif de la Bretonne e dell’Abate Casti. E che come Mozart, Jane Austen è un’artista senza correlativi obiettivi che il Settecento ha cercato di produrre “fuori tempo” con diversi aggiustamenti successivi (Fielding, Richardson e naturalmente la Commedia di Maniere). Nel fare questo, molti Castelli di Otranto sono stati inghiottiti, e Misteri di Udolph, ma trascurando ogni affinità ironica o tentazione preromantica (incluso Sterne!), in favore delle strutture falsamente chiuse di un finto realismo rosato e bugiardamente “già borghese”. Quando Austen inizia a lavorare, come tirocinante di parodie, à la Proust, i grossi Balzac e Stendhal non sono ancora nati e Scott e Byron gattonano appena, e i suoi antecedenti come Defoe e Fielding raccontavano ancora con la vecchia tecnica della nonna al camino, e strutturalmente lo stesso Sade tutto sommato non faceva che infilare perline sul filo, come nella pratica del “allora, dove eravamo rimasti ieri sera?”, oppure del “mia cara, oggi te ne devo raccontare un’altra”. Arbasino definisce la signorina dell’Hampshire «il Primo Romanziere Moderno», che senza muoversi dal suo vicariato inventa la forma di una Tradizione che non esisteva (ed è quindi una grande scrittrice semplicemente perché lo era, non in quanto donna. Esattamente come Flaubert o Petronio non erano grandi scrittori in quanto uomini). Non le interessano nulla il viaggio, le passioni, il sentimento, l’apprendistato di fanciulle e ufficiali, i balli e le cucine: i suoi ‘contenuti’ si limitano alla famiglia (come per Sofocle, Freud, Compton Burnett) e al denaro, ed è come trovarsi dentro una bizzarra specie di sofisticato Financial Times. Si occupa di soldi, di eredità, di matrimoni, di convenzioni di classe, di “cose serie”, in una solida lingua senza scrupoli e senza emozioni, che fa fronte ai “moti del cuore” secca come uno schiaffo, e riduce l’Amore a un gioco sociale che richiama l’attenzione solo per i suoi fini economici (“i figli cadetti non possono sposarsi come vogliono. A meno che non amino delle donne ricche: mi pare che lo facciano spessissimo”, scriveva lei). Forster riconosceva a Jane Austen l’indiscusso talento, «superiore anche a Dickens», di organizzare meglio di molti altri i personaggi, di procurare attraverso il loro ingresso «un piacere leggero sempre nuovo a differenza di quello derivante dalla ripetizione meccanica» presentata da coevi o predecessori. E se nei suoi romanzi non ci sono personaggi capaci di stagliarsi soli e imponenti come alberi – cosa che piacerebbe ai poco intenditori – in realtà il risultato è quello di una stoffa di fine tessuto dalla quale non si può togliere nulla. Tutti i personaggi di Jane Austen (vera figlia di Shakespeare, con le sue eroine che resistono alla storicizzazione, tra le immagini più rare di libertà interiore. Come Rosalinda, per esempio, Elizabeth Bennet è arguta, amabile, florida di spirito e sentimento) sono disponibili a una vita più ampia rispetto a quella che l’intreccio ‘chiede’ loro di vivere, non esauriscono mai le loro possibilità: Austen può applicare loro le varie etichette senza incatenarli. Ecco il passo di Forster in Aspetti del Romanzo:
«perché mai i personaggi di Jane Austen ci procurano un piacere leggero ma nuovo tutte le volte che compaiono, diversamente dal piacere meccanicamente ripetuto che ci procura un personaggio di Dickens? […] lei era una vera artista, che non metteva mai in caricatura i suoi personaggi. Ma la risposta più esatta è che i suoi personaggi, pur essendo minori, sono assai meglio organizzati di quelli di lui. Si manifestano a tutto tondo e anche se l’intreccio pretendesse da essi qualcosa di più sarebbero sempre all’altezza della situazione […]. Tutti i personaggi di Jane Austen sono disponibili per una vita più larga, per una vita quale la vicenda dei suoi libri richiede loro raramente di vivere: ed è per questo che la vita narrata da lei ci dà tanta soddisfazione. In ogni sua opera troviamo di questi personaggi, all’apparenza tanto semplici e piatti, che mai richiedono tuttavia una seconda presentazione, ma che non esauriscono mai le loro possibilità: Henry Tilney, il signor Woodhouse, Charlotte Lucas […] L’autrice può sì applicare ai suoi personaggi le varie etichette: “Buon senso”, “Orgoglio”, “Sensibilità”, “Prevenzione”, ma di simili qualifiche essi non rimangono prigionieri, né moralmente né psicologicamente.»
Per quanto riguarda un presunto sguardo rosa confetto sul mondo, in realtà il suo romanticismo è divergente, in quanto ne fa l’ironia più assoluta, senza mai smutandarla in cinismo. Austen voleva che la trama romantica non fosse ‘convincente’, che apparisse fallimentare, per sottolineare come le trame apertamente rosate siano intrinsecamente artificiali. Le interessava una forma di romanticismo personalizzata, vivamente cerebrale, mediato dalle note dei contrappunti ironico-satirici (come è stato per Shakespeare, anche in Molto rumore per nulla). Padroneggiare tutte queste distinzioni non è però ciò che hanno fatto quanti hanno letto e continuano a leggere Jane Austen, errore che si è pagato non solo in ambito critico ma anche e soprattutto nella dimensione audiovisiva, dove ogni generazione di assaltatori di libri trasforma le sue opere in una fonte inesauribile di idee ricevute e distorsioni a ribasso. E non c’è stato luogo più sfavorevole dello spazio online per una sistematica e militarizzata reinvenzione ideologica della sua attività di autore in chiave pink regency. Non c’è limite alla nanificazione trasognata della Austen, diventata quasi un ministro straccione di TikTok e pagliaccio battutista per ulteriori rom-com, con le “bookinfluencer” che sfoggiano volumi delle sue opere dolcemente impilati come peluche, consigliando al pubblico «le migliori letture da cui iniziare», le citazioni su cui soffermarsi o «condividendo riflessioni» da bancone sui personaggi più emblematici. Altre utenti cercano di riproporre lo stile e il make-up delle sue protagoniste (cosa avrà dato il colpo di grazia? la rinascita di una generica fantasia bucolica, a seguito dell’esperienza del lockdown, con il crollo dei miti legati al piacere della vita urbana, a vantaggio di comunità più contenute e «a contatto con la natura e un piccolo-piccolo mondo antico perduto? una nuova ondata di rappresentazioni che celebrano l’idillio di una “vita d’epoca” sempre più agreste e irraggiungibile?). E quindi, “Jane una di noi!”, anche grazie a sempre più nuove tendenze consumiste, con Shein che vende grembiuli in lino con volant, per sognare, fra una pizza, una cozza, una tazza di the e un selfie di viaggio, di calcare finalmente le riverite ombre di Pemberline (ovviamente alla faccia di Lady Catherine de Bourgh!). Per dessert, entusiastici bookclub italiani interamente dedicati a Sora Jane, con ‘guide letterarie’ e speaker radiofoniche per incontri pomeridiani di due ore ciascuno, più «afternoon tea» selezionato direttamente dalla Italian Tea Society. Eppure, niente è più lontano da tutto questo trambusto di esibizioni e opinioni dal lavoro che Austen aveva fatto, né avrebbe gradito di essere eletta portavoce in pizzo Sangallo per feroci schermaglie fra i sessi, proprio lei che cercava l’equilibrio concettuale nel respiro ampio delle Idee. E che aveva disincarnato, come tutti gli intellettuali veri hanno fatto, lo stereotipo del fare sessuato, distillandolo, ridicolizzandolo, universalizzato sotto la forma variegata e complessa di human nature e senza l’ombra del risentimento. Ed è probabile che sia proprio in Persuasione (ultimo suo romanzo, pubblicato postumo) che questa convinta ricerca di balance ha trovato in Anne Elliot, la protagonista, il massimo risultato: “ragione e sentimento” connessi e aizzati reciprocamente, nella colta raffinatezza e attraente malinconia di Anne. Un’eroina insolita dal percorso opposto a quello delle “colleghe” che iniziavano incendiarie per finire pompiere, ricondotte a più miti consigli del buon senso (il grande valore-feticcio del Settecento).
A essere stato decisivo magari fu l’ambiente termale di Bath località spesso frequentata da Austen e vissuta con distacco e fastidio per il suo essere essenzialmente una sciocca vetrina del bel mondo inglese dell’epoca. Credeva che lo scontro di personalità, non dei sessi, fosse il centro del mondo, e faceva un favore a quelli di noi che sospettano che tutti i misteri della vita siano contenuti nel microcosmo della famiglia, che le relazioni personali prefigurino tutto il resto e che vadano rappresentate con risate ed elegantissime sciabolate. Considerare Austen un’ironista però non è sufficiente, era innanzitutto un genio della volontà secondo fantasia. L’aspetto saliente di questo specifico tipo di volontà che aveva scoperto è il suo puntare verso la personalità come elemento elastico, argine a ogni irrigidimento categoriale, verso la profonda libertà dell’individuazione, qualcosa che non è possibile colorare con nessuna gradazione di rosa. Meglio aprire i suoi libri, studiare la critica letteraria che si è occupata della sua scrittura seriamente e non ascoltare nessuno, per evitare il rischio di imbattersi in una Jane senza Jane Austen.