Search
Close this search box.

Un libro che divorerei. Giuseppe Pontiggia e l’arte del parere editoriale

Da Yourcenar a Calvino, il volume rivela i pareri di lettura dello scrittore, lettore onnivoro e bibliomane

Un libro che divorerei, curato da una devota ed esperta della materia come Daniela Marcheschi, edito da Palingenia, che contiene circa duecentocinquanta pareri editoriali di Giuseppe Pontiggia, spicca nelle librerie che lo espongono.
L’oggetto editoriale è molto bello, solido, pesante, la carta piacevole al tatto, la legatura eccellente, i margini ampi, i caratteri di stampa di facile lettura, come dicevo sembra un libro inglese che sarebbe piaciuto al suo autore. Ovviamente le sue qualità non terminano con l’analisi dell’oggetto-libro. Spiccano ancora di più quando lo si apre e ci s’immerge nella lettura di questi pareri editoriali, una scelta limitata ma esauriente dei circa quattromila che Pontiggia stilò in un trentennio di collaborazione con Mondadori e Adelphi. Quattromila in trent’anni fa una media esatta di 133,3 periodico (numero inquietante che rasenta l’infinito) ovvero poco più di dodici al mese, uno ogni due giorni e mezzo.

C’è una bella fotografia di Pontiggia alle prese con uno di questi dattiloscritti, disteso sul divano del salotto, pachidermicamente aggiogato al suo destino editoriale ma anche alla curiosità che mai gli è venuta meno. A volte ha scherzato su questo aspetto del suo mestiere, come nel racconto Lettore di casa editrice, pubblicato ne La morte in banca, dove al maldestro consulente capita tra le mani un plico che legge con avidità ma esprimendo un parere negativo. Lo restituisce al suo superiore che, stupito, gli chiede:
«Ma questo non doveva leggerlo. Non si è accorto che è una traduzione?»
«No.»
«È Delitto e castigo.»

pontiggia

In un’altra circostanza lo sguardo di Pontiggia è più benevolo. Uno dei personaggi de Il giocatore invisibile, Marco Cattaneo, è un lettore di casa editrice. Trascrivo l’intero brano che lo introduce e che è un perfetto autoritratto del Peppo: «Manoscritti di ogni dimensione, alcuni minuscoli, altri giganteschi, racchiusi in raccoglitori cubici come vocabolari, gli venivano lasciati in portineria da commessi frettolosi. Lui scendeva ogni giorno a ritirarli, li svolgeva dall’involucro, li soppesava, leggeva il nome dell’autore e il titolo, poi risaliva nel suo studio, dove li allineava su una cassapanca nera. Quando arrivava il loro turno, si sdraiava sul divano di finta pelle e cominciava a leggerli. La speranza di scoprire anche lui uno scrittore nuovo in uno sconosciuto non lo abbandonava mai, ma non si realizzò molto frequentemente nel corso degli anni. Le rare volte era stata una strana, intensa effimera felicità, un partecipare silenzioso e decisivo alla gioia di un altro.»

Ecco, non si dovrebbe leggere questo libro senza avere bene in mente i due brani che ho citato.
L’ironia e il rifiuto da una parte, la speranza e la tenue felicità dall’altra, perché molti di questi pareri editoriali si chiudono con un rifiuto che poi il mondo editorale trasforma in una pubblicazione furba o, viceversa, con un parere positivo che poi lo stesso mondo editoriale trasforma in un rifiuto. Ricordo che me ne parlava con una certa amarezza: «Non sempre si pubblicano libri meritevoli e spesso, per tante ragioni che non hanno nulla a che fare con la letteratura, se ne pubblicano di brutti».
Poi mi guardava accennando un sorriso amaro e terminava con un suo intercalare che cercava conforto nelle sue opinioni: «Ti pare?»

pontiggia

Conosco tanti scrittori passati al suo setaccio. Praticamente non c’è autore che abbia esordito negli anni Ottanta o Novanta che non abbia atteso, magari in maniera inconsapevole, un parere editoriale da Pontiggia. E dopo di quello, se il parere era positivo, un aiuto, un incoraggiamento a proseguire nella maledetta passione dello scrivere. Posso testimoniarlo e come me, dicevo, molti altri.
In questa scelta tra i famigerati 133,3 periodico testi annuali spiccano però le traduzioni, anche in questo caso, a volte promosse, a volte bocciate e, anche in questo caso, a volte bocciate quelle promosse dal consulente e promosse quelle bocciate. Per questo, se nei testi qui raccolti spunta qua e là la felicità sciasciana dello scrivere, compare in controluce anche una malcelata amarezza; una consapevolezza che quell’immane lavoro di setaccio viene poi modificato da mille altri fattori, da mille altre esigenze. E che vale ancora l’impietoso monito dei latini ‘habent sua fata libelli’.

Per chiudere lo scrigno, lasciamo emergere pareri positivi che poi non hanno avuto seguito: Peter Larkin, Marguerite Yourcenar, Marcel Jouhandeau, J. Rodolfo Wilcock, Manlio Sgalambro e molti altri. O al contrario testi poco commerciali ma che hanno ottenuto la pubblicazione, come Giorgio Manganelli o, per chiudere, il parere positivo a Un dramma borghese di Guido Morselli: «Un testo tra Laclos e Musil da pubblicare insieme con gli altri rifiutati».
Al lettore il seguito della vicenda.

categorie
menu