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La battaglia culturale si combatte in presenza

Riflessioni sul concetto sfuggente di woke a partire dal saggio “Guerre culturali e neoliberismo” di Mimmo Cangiano

Tra gli spettri anglofoni che si aggirano per l’Italia, quello del woke è certamente uno dei meno compresi. Se ormai, per quanto riguarda il “gender”, sono fioriti studi puntuali che cercano di mettere a fuoco la sua costruzione arbitraria da parte delle destre – pensiamo ai lavori di Massimo Prearo e di Lorenzo Bernini, nonché all’ultimo lavoro di Judith Butler –, il woke pare essere tuttora ammantato di un’aura nebulosa. L’ultimo saggio di Mimmo Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo (nottetempo) va dunque encomiato per aver tentato non solo di parlare di woke in Italia, ma anche per averlo fatto senza quello sguardo sprezzante che spesso caratterizza l’atteggiamento della torre d’avorio accademica che dall’alto osserva e giudica la società. Parte della forza del woke, d’altronde, sta proprio nei discorsi di pancia e “etico-sentimentali” che imperversano sulle bolle social di Instagram o X/Twitter, al riparo dai circoli accademici. Specifico fin da subito che scrivo dalla prospettiva di una persona che, avendo studiato nel Regno Unito, si è scontrata e ha assimilato, volente o nolente, determinate pratiche riconducibili all’etichetta di woke fin dagli studi triennali; il mio, come d’altronde quello di Cangiano, non è uno dei soliti discorsi disfattisti e veteronostalgici che si incontrano spesso negli ultimi anni.

Cangiano

Guerre culturali e neoliberismo chiarisce fin dall’inizio che non si tratta di «un libro sulla cancel culture (anche se ogni tanto si parla di cancel culture), e neanche [di] un libro sul politicamente corretto (anche se qualche volta si parla di politicamente corretto)». Piuttosto, anticipa Cangiano, si tratta di «un volume che tenta da un lato di ricostruire il dibattito – e la sua genealogia – su tutta una serie di temi che sono diventati il centro delle attuali culture wars (questioni identitarie, di classe, anti-razzismo, anti-sessismo, prospettive liberal, postmodernismo, ruolo della Theory), dall’altro di proporre alcune soluzioni interpretative in un quadro di analisi che, fortemente propenso a prestare orecchio alle nuove questioni emerse, resta ancorato al materialismo storico». Il libro si concentra sulla necessità di riportare le lotte politiche su un piano materiale; una prospettiva necessaria in un clima politico come quello attuale in cui è sempre più facile ridurre l’attivismo politico all’assimilazione passiva di post polemici e di infografiche social. Complici le maggiori piattaforme dei social media, le lotte oggi più visibili sono quelle che imperversano attraverso un hashtag, mentre le persone che davvero occupano le piazze vengono ridotte sempre più spesso a un lontano mormorio sommesso.

Lungi dal rappresentare l’effettivo impegno politico di diversi movimenti e collettivi su tutto il territorio italiano, questa immagine rimane tuttavia un importante monito a chi crede fermamente di fare attivismo unicamente attraverso i social media. Su queste piattaforme, a chi produce contenuti viene costantemente intimato di seguire tutti gli “hot topic” del momento e di pubblicare tanto e frequentemente, pena l’esclusione dal mercato d’attenzione (profondamente plasmato dalla legge della scarsità) che vige attualmente. Mediante l’applicazione di complessi algoritmi che premiano o penalizzano specifici temi o parole, i meccanismi social invitano chi li utilizza a dover rispondere sempre più a specifiche dinamiche simboliche e rappresentative pur di potersi tagliare una fetta di pubblico rilevante. Che la lotta su queste piattaforme si sia smaterializzata, quindi, non dovrebbe, di base, nemmeno sorprenderci: da utile strumento di aggregazione che può portare tante persone in piazza (come successe per esempio in seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin, per non parlare dei più noti casi esteri del #MeToo e del #BlackLivesMatter), spesso la piattaforma social si riduce a essere una cassa di risonanza ipersatura che più che generare azione produce infiniti discorsi di azione.

Nonostante Cangiano eviti tutto questo discorso legato alle piattaforme dell’attivismo politico, il suo discorso risuona profondamente con l’esperienza e con i corpi di chi ha tentato, pien* di speranze, di utilizzare i social media per ripoliticizzare la cultura e materializzare la lotta, specialmente in seguito alla pandemia e all’isolamento da essa generato. In questo saggio ritroviamo un marxismo più attento a ciò che accade al mondo neoliberale da qualche decennio, tra dinamiche di diversity management per aziende e grandi corporation e precarizzazione di (quasi) ogni settore, tra la “femminilizzazione” del mercato del lavoro e un’espansione a macchia d’olio della produttività ipertrofica a discapito del diritto al riposo e all’ozio, fino ad arrivare alla diffusione dell’identitarismo, delle logiche vittimarie (già puntualmente esaminate da Daniele Giglioli in Critica della vittima) e della parcellizzazione – con conseguente brandizzazione – delle identificazioni a scopo di profitto e/o di attenzione (social-)mediatica. Intermezzando interventi macro dettati da una linea fortemente e dichiaratamente marxista con aneddoti di stampo personale frutto di anni di esperienza nel sistema accademico statunitense, Guerre culturali e neoliberismo è un saggio che parla del e al nostro tempo, consentendoci di osservarlo dall’alto in termini di scala – forse il maggiore vantaggio di ogni prospettiva marxista – ma senza necessariamente portare spiacevoli giudizi di valore che rischierebbero di risultare nel solito discorso veteronostalgico così tipico di una certa accademia.

Ci sono però degli elementi critici nella trattazione di Cangiano che vanno sottolineati, non per ridimensionare l’importanza del discorso che viene portato avanti, quanto per continuare il dialogo che si è inevitabilmente creato in seguito alla pubblicazione del libro. Primo fra tutti, a mio avviso, è il discorso sui mezzi e le tecnologie attraverso cui si può portare avanti la lotta; tema quanto mai attuale e anzi fondante proprio del discorso woke, eppure evidentemente assente dal testo. Anche se vogliamo allontanarci dalle derive tecnodeterministiche che attraversano alcuni spazi, è verità universalmente riconosciuta che le tecnologie che utilizziamo per produrre discorsi non siano semplici recipienti trasparenti in cui inserire contenuti. Al contrario, complici le dinamiche di mercato che regolano il funzionamento dei social media, la questione del woke diventa ancora più stratificata: se anche Cangiano intuisce questa mercificazione delle identità all’interno del mercato neoliberale, Guerre culturali e neoliberismo si trattiene dall’interrogarsi sui mezzi attraverso cui queste dinamiche si concretizzano nello spazio digitale e su come essi intervengano nello spazio pubblico plasmando e per così dire astraendo (sempre con le dovute eccezioni) la lotta.

Il secondo ordine di perplessità risiede per me nella questione lessicale che solleva Cangiano, in particolare in riferimento ai lemmi “alleanza” e “intersezionalità” – probabilmente due dei termini che vedono maggiore circolazione non solo sui social media ma anche in molti movimenti politici attuali. In linea con un marxismo in questo caso certamente più ortodosso, Cangiano si discosta da discorsi imperniati sull’alleanza e sull’intersezionalità delle lotte, preferendo a questi termini così in voga i più classici “compagno” (rispetto a “alleato”) e “totalità” (invece che “intersezionalità”). La giustificazione che propone Cangiano ha a che fare con tutto il portato politico ben differente di questi termini – così riassume la questione citando Jodi Dean:

«siccome la lotta non è più quella per l’abbattimento del sistema economico che materialmente e a scopo di profitto produce discriminazione (di genere, di razza ecc.), le stesse identità altre (in particolare quelle appartenenti alle categorie dominanti del maschio bianco abile e cisgender) perdono […] il possibile status di “compagno” per ridursi a quello di “alleato” (ally): figura che, mentre riflette sul proprio privilegio identitario (“check your privilege!”), ha il compito di confrontarsi non con il capitale e con lo Stato che produce sfruttamento e oppressione, ma col discomfort che il suo privilegio può produrre nei suoi stessi alleati. Un processo di autoconsapevolezza progressiva a sua volta saldamente interna alle ragioni di un individuo che si pensa come singolo.»

Il discorso confonde a mio avviso due termini piuttosto vicini e certamente imparentati in inglese: la allyship e la alliance. Se la prima si riduce a essere una superficiale dichiarazione identitaria esterna alla lotta in questione (io che scrivo, per esempio, non posso che considerarmi alleato a – e quindi tacere di – questioni legate alla razzializzazione), la seconda prevede una comunanza di intenti e visioni politiche all’interno di un sistema basato sulle differenze (di genere, sessualità, razza, classe, abilità, etc.). Rimane vero il discorso di Cangiano (e di Dean, da cui questo discorso viene in parte ripreso) per quanto riguarda la allyship in quanto strumento che spinge a disidentificarsi dalla lotta politica per dichiarare la propria posizione individuale al di fuori di una categoria esistente; lo spazio di manovra, qui, è puramente discorsivo. La alliance, al contrario, mi pare partire da premesse simili eppure fondamentalmente diverse: il discorso veicolato da questo termine insiste sì sulle differenze che attraversano i corpi e le persone, ma solo per riunirle in un processo politico comune. Sappiamo e tocchiamo con mano le nostre diverse esperienze, ci poniamo in una situazione di ascolto nei confronti di coloro che sono più lontan* dal nostro mondo, ma lo facciamo sempre al fine di portare avanti un fronte unitario – seppur variegato – di lotta politica. È questo, evidentemente, ciò che porta le persone ancora in piazza per i femminicidi, per la Palestina, per una scuola o un’università meno povere (in tutti i sensi del termine).

Mi permetto anch’io, come Cangiano, di intessere questo discorso con il personale-politico. Da quando ho all’incirca quindici anni, frequento regolarmente ambienti politicizzati e festival dove si tende a favorire una comprensione materialista della realtà. Di recente, sono tornato in un contesto a me caro che si fregia di identificazioni e valori in cui credo fermamente quali l’antisessismo, l’antirazzismo e l’anticapitalismo; uno spazio che frequento da letteralmente metà della mia vita. Per quanto avessi potuto toccare con mano delle problematiche legate alla gestione di questo spazio sempre più aperto (per motivi comprensibilmente legati all’autofinanziamento) anche negli ultimi anni, specialmente ponendomi in dialogo con, ma soprattutto in ascolto di, collettivi sul territorio, quest’anno è stata la prima volta che non mi sono sentito al sicuro, una sera, a circolare mano nella mano con il mio ragazzo. Ho realizzato subito che quel senso di sconforto e disagio non era solo mio, ma di tante altre persone – specialmente femminilizzate e/o appartenenti a minoranze sessuali – che attraversavano quegli spazi compagni.

Non si tratta, qui, di stare all’interno di discorsi che si esauriscono nel safetyism giustamente problematizzato da Cangiano: ritengo fondamentale cercare di portare una complessificazione della trattazione di queste tematiche all’interno di ambienti dove le pratiche politiche che fanno uso del famoso “il personale è politico” si riducono a fare una lista di identità e a eseguire prontamente un sentito mea culpa individuale che nulla può davanti alle macchinazioni del capitale. Penso però, sulla base della mia esperienza personale e politica, che i discorsi macro non siano in grado di rispondere a queste dinamiche, e anzi spesso non si curino nemmeno di farlo. Guardare ai processi produttivi e politici su ampia scala spesso impone di ignorare questi affetti, eppure sono proprio questi affetti ad avermi portato a una politicizzazione della cultura e a una forma di attivismo che potesse dare un senso a quello che pensavo. Mi chiedo quindi se dietro a questa mancata preoccupazione verso dinamiche di dis/affezione non ci sia forse quel vecchio spettro patriarcale che intima che determinate dinamiche siano fondamentali mentre altre – legate per giunta proprio al senso di benessere a cui il capitale ci fa ambire, e che costantemente tuttavia non può che negare – occupino un posto gerarchicamente inferiore. Quella “capitalista riluttante” che era Virginia Woolf già l’aveva intuito nel 1929 quando criticava il critico letterario che riteneva che un romanzo che trattasse di guerra fosse importante mentre un testo organizzato intorno ai sentimenti di donne in un salotto fosse insignificante.

Parlare con persone compagne, specialmente se femminilizzate, significa spesso confrontarsi con alcune delle più importanti impasse che l’identificazione stessa porta con sé in molti spazi. Per quanto non manchino interventi da parte di collettivi (trans)femministi e queer, spesso gli spazi compagni non riescono a uscire da determinate dinamiche evidentemente sessiste, omofobe e transfobiche (per non parlare di questioni speciste e abiliste), e questo è un fatto con cui bisogna venire a patti onde evitare quello splendido quanto caustico neologismo che è brompagno. Mi viene anche da pensare, a partire dall’umiltà della mia posizione che sicuramente ignora determinate correnti e dinamiche interne al marxismo stesso, che passare da una scala macro a una meso comporti cambiare determinati strumenti che utilizziamo, concetti che veicoliamo, e, di fatto, ambizioni politiche. Il concetto di alleanza – non come allyship ma come alliance – aiuta a fare anche questo, perché mantiene a fuoco le differenze che la dicitura compagno a volte non può fare a meno di spostare in secondo piano mentre quest’ultima evidentemente pone in primo piano degli assunti e dei progetti che non tutte le persone oppresse interessate possono condividere.

Allo stesso modo, l’intersezionalità consente di comprendere come la questione identitaria non si debba ridurre a una semplice somma dei nostri posizionamenti personal-politici. Come ricordato da Cangiano, si tratta di un termine coniato da Kimberlé Crenshaw alla fine degli anni Ottanta per cui le «disuguaglianze sociali» vanno intese attraverso una rete di «effetti dell’oppressione […] molteplici e intrecciati». Se la sua deriva liberal porta evidentemente a quel diversity, equity and inclusion che si fa forte unicamente della rispettabilità borghese allo scopo nemmeno troppo celato di fare delle identità dei pacchetti circoscritti e quindi meglio gestibili, operando così una sanitizzazione della corsa al profitto, quello che Cangiano definisce un «intersezionalismo woke» rischia invece di «occultare non solo la dialettica fra sfruttamento e oppressione (e dunque la connessione fra modo di produzione e sistema delle relazioni sociali), ma in questo modo anche la capacità del capitale di modificare continuamente i suoi rapporti con i sistemi ideologici, dunque con le stesse modalità dell’oppressione». Se a dominare è il paradigma vittimario per cui una persona viene individualmente discriminata sul posto di lavoro o in ufficio, il cambiamento non potrà che essere un tentativo maldestro di ricostituire una patina di finto progressismo che è essa stessa una merce prontamente scambiabile per un ritorno di immagine o di profitto. E fino a qui, il discorso mi convince completamente.

Ciò che però manca in questo discorso altrimenti puntuale è la contestualizzazione del concepimento del termine da parte di Crenshaw – sicuramente nota, in realtà, a Cangiano: chi ha coniato il termine lo ha fatto all’interno di un quadro giuridico, ossia per cercare di meglio comprendere come la legge non riuscisse ad approcciarsi alle donne nere statunitensi come a delle cittadine a tutti gli effetti. È chiaro, dunque, che l’intersezionalità fosse fin dalla sua origine uno strumento utile a comprendere le dinamiche discriminatorie – più che di sfruttamento – che tocca(va)no le persone oppresse secondo diversi assi. Questo non significa, tuttavia, che il termine – come qualsiasi altro lemma che attraversa tempi, linguaggi e spazi diversi – non si sia trasformato negli ultimi decenni, fino a diventare uno dei concetti fondanti di molti collettivi. Nella pratica politica di Non una di meno, per esempio, l’intersezionalità si articola nella critica rivolta al sistema sulla base di diversi assi di oppressione al fine di smascherare precisamente i complessi funzionamenti del capitale – in questo senso, non si risolve, come (giustamente) teme Cangiano, nella semplice condanna del classismo o nel riformare la discriminazione legata alla classe, ma si propone invece precisamente di abolire le classi, i generi, le sessualità, le razze messe in valore dal capitale.

Per concludere, va sottolineato quanto la categoria di classe, trattata nell’ultima parte di Guerre culturali e neoliberismo, goda di una discussione ampia e sfaccettata che non può che garantire l’importanza del testo per i più ampi dibattiti che si stanno articolando in Italia. Le vicende legate all’ex-Gkn e il festival di letteratura working class organizzato in collaborazione con Alegre sono solo la punta dell’iceberg di un sentimento che in Italia non si è mai sopito e a cui Cangiano infonde nuova linfa. Anche qui come in altri assi di oppressione, si tende a volte a rimarcare la questione identitaria per rivendicare diritti propri ad alcune categorie, dimenticando così il sistema di impoverimento e sfruttamento che regola le nostre posizioni all’interno del mercato. «Si tratta dunque», puntualizza perspicacemente Cangiano, «di rimettere al centro dell’attenzione la questione per cui gli interessi delle cosiddette “minoranze” sono, anche e anzitutto, interessi di classe, dal momento che la classe non è un’essenza condivisa, ma un nocciolo posizionale che, nelle differenze, ci accomuna». Quasi sempre dimentiche di questo “nocciolo posizionale” fondante, le guerre culturali rischiano così di portare a una parcellizzazione vittimaria delle identità, le quali non riescono più a concepirsi nel loro fare comune ma devono sempre e comunque combattersi sull’essere diverse. Per evitare il culturalismo messo a frutto dal capitalismo, le guerre culturali, argomenta giustamente Cangiano, devono rimaterializzarsi, perché altrimenti la «domanda di un modo diverso di vivere» non potrà che essere trasformata anch’essa in «merce».





Photo credits
Copertina – Foto di David Matos su Unsplash


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