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Posture. Poesie di gesti e piccole grandiosità

La poetica vibrante di Alberto Mori in una nuova raccolta che indaga l’uomo e il tempo.

La bestia senziente crea geometrie celestiali benché inconsce. L’uomo è le sue Posture (Fara Editore), dettagliate entro spazi scomposti, millesimati, versati. 

La «mano sgocciante» e le «velature ramate» che ritaglia Alberto Mori – rimatore e performer cremasco, pubblica dall’’86 – sbalzano uguali a graffiti ecosostenibili in 4d: «Terra ama suolo»; così si compongono pagine sotto le quali «il mento ruota e rivola», mentre «lapilli bianchi panoramici» danno l’atmosfera. Quasi un cinema, l’ultimo corto moriano che immobilizza gesti infiniti nella lor propria grandiosità grossolana («Cammina e parla/ Conversa nell’iPhone/ per decentri da argomenti»), con l’intento di torsioni e avvitamenti proletari, da minimo comun denominatore. Il massimo sta nella contemplazione volumetrica di quel «vuoto riempito/ dalla forma della carne», presente ma sfuggente.

Sempre la poesia di A.M. detta scompenso sulla sincope delle strofe ansanti, quando sboccia una neologia e «nello sforzo la strada scrive» – quel che il passante dimentica al pelo del selciato, sul pizzo dei tombini, nella fodera del paltò. È tutto vero. È tutto ricomposto col «glissaggio» della levità che se la ride: il ritmo del microscopio, l’ingrandimento da fototessera, lo slancio dell’elastico. Il fisico si mischia quasi tra gli oggetti e il suo posto è più d’un soprammobile, pur conservando certa fissità museale tale da incastonarlo – dove risiede il ritmo: una melodia classica smembrata per muoversi disossati.

Ogni brano dell’organismo si presenta nelle Posture senza la vergogna d’esser piccolo – solo un polso, solo un dito. «Le gambe sul bordo/ Dal peso passivo» delineano la nuotata verticale dell’autore: basso-alto: la pésca al paroliere epidermico: «Le cosce dal fondo riallargano/ sospinte a carpiare la risalita» splendida, flessoria. Assieme agli accessori della persona (guanti, tracolle…), quest’ibrida mappatura corporale imbriglia l’imbroglio dell’iride, persino in grado di parlar bene («Ciglia aperte/ Detto con gli occhi/ Retine calde/ nella pronuncia della luce») sopra a un mondo discutibile.

Eppure qualche malinconia – tracce, scarti – arruggina i manichini che A.M. veste e spoglia. Procede oltre la mediocrità della solitudine, alla quale bastano, per sostanziarsi, impercettibili apnee esercitate nella mischia urbana («Dall’uscita della metro/ la figura si ricompone/ nello spazio della folla»), che de-condensa spiriti (anime) e incellofana involucri (corpi) mediante velocità pubblicitarie. Forse si tratta di una forma nostalgica maggiormente fine, “sottilettata”, proiettata verso un passato senza led, byte, pixel, riemergente come reperto abbrustolito nei trafficati anfratti delle carreggiate contemporanee: «La vite ricopre il palo caduto/ appoggiato al tronco/ sostenuto dallo stesso albero»: ecco la scultura involontaria alla decadenza del progresso. Un tristo sorriso raccoglie il poliuretano del nostro esistere: un dato, una cifra, un fato: «Il raggio tramonta obliquo/ Il bambino porge/ la bottiglia di plastica alla madre/ Il cammino riprende/ nello spazio e nel tempo della strada».

L’attore, piegatosi, «Fruga nella borsa/ Cerca nell’invisibile»; magari estrarrà un utensile decisivo – potrà essere una chiavetta usb o la serraglia di San Pietro. Ma il dettaglio è (ancora) l’atteggiamento, quando ogni cosa si china, s’inclina, inchina a una memoria scrivente: «La sera sta calando/ L’ascolto dalla panchina/ L’orecchio sulla spalla dell’altro/ Da questa postura/ l’invisibile ora ricorda».

In copertina: “THE WAITING COMPOSITION 183”, Ovidiu Kloska

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