Nell’attuale panorama culturale, il concetto di disobbedienza si distingue come una forma primaria di “dissenso globale”, una risposta alle macchine coercitive che permeano la nostra quotidianità. Lontana dal semplice atto di negare, di dire “No!”, disobbedire si configura come un’azione capace di sfidare le convenzioni del potere, di generare nuove soggettività e forme d’organizzazione, creatività e resistenza. Tuttavia, la sua comprensione e integrazione nel contesto politico contemporaneo rimangono sfuggenti.
Marco Scotini, curatore della mostra Disobedience Archive, ci guida, attraverso un viaggio ventennale, nell’esplorazione del significato e delle implicazioni della sua proposta di disobbedienza. Fiore all’occhiello della 60a Biennale d’Arte di Venezia, intitolata Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere (a cura di Adriano Pedrosa), Disobedience Archive si propone di indagare le pratiche di attivismo artistico utilizzando una vasta gamma di materiali visivi che fungono non solo da documenti, bensì da strumenti per la riflessione critica e la proliferazione di nuove prospettive.
Diversamente dalla concezione tradizionale di mostra, Disobedience Archive presenta un archivio in continua trasformazione, senza forma definita o sede fissa; infatti, dal 2005 è ospitata in istituzioni prestigiose come il Van Abbemuseum di Eindhoven, Raven Row di Londra, Massachusetts Institute of Technology di Boston, il Castello di Rivoli e il Bildmuseet di Umeå, assumendo ogni volta una configurazione spaziale che integra l’allestimento nella visione stessa dell’archivio.
La versione proposta in occasione della Biennale di Venezia (visitabile fino al 24 novembre 2024), dal titolo The Zoetrope, è suddivisa in due macro-sezioni: Diaspora Activism, che si confronta con i processi migratori transnazionali, e Gender Disobedience, che invece si confronta con le soggettività nomadi, intese come frattura del binarismo eterosessuale.
Abbiamo iniziato la conversazione da questo multiforme approccio alla disobbedienza, che genera un vero e proprio “manuale d’uso per l’azione insorgente”.
Che cosa significa “disobbedire” e quali sono le implicazioni di questo concetto nell’ambito del sistema culturale contemporaneo?
L’affermazione contemporanea – quotidiana e capillare – di macchine di coazione all’obbedienza sempre più potenti tradisce un’ammissione originaria e inconfutabile: il riconoscimento di fatto che la disobbedienza sia diventata ormai la forma del dissenso globale.
Nonostante tutto, dalle proteste anti-WTO di Seattle del 1999 alle strategie messe in piazza dalle lotte per la Giustizia Climatica e dal movimento anticoloniale per la Palestina oggi, non siamo riusciti ancora a ricondurre l’agire disobbediente (la molteplicità delle sue storie e delle sue geografie) su un piano politico vero e proprio. Forse la ragione sta nel fatto che l’idea di dissenso contemporaneo rifiuta il modello politico modernista che abbiamo ereditato. Di fatto, disobbedire non significa semplicemente destituire, negare qualcosa. Disobbedire è, all’opposto, un’azione innovativa, sperimentale, fondativa. Affrancarsi da una rappresentazione o da un ordinamento richiede un alto grado di autoaffermazione alternativa, di progettualità antagonista, di nuova produzione di soggettività.
Dalle proteste anti-Wto dell’inizio del nuovo millennio fino alle rivolte di Black Lives Matter, un’identica tensione trasformativa del mondo non ha mai cessato di agire. Un nuovo orizzonte comune, trasversale a centro e periferie, si è aperto e continua sempre più ad aprirsi: un immane laboratorio di conflitto si afferma attraverso una molteplicità di focolai molecolari irrimediabilmente concatenati tra loro, all’interno dello stesso spazio globale. Al declino irreversibile del modello politico fondato sulla rappresentanza e al consolidamento della nuova centralità neoliberista dell’economia, le mobilitazioni insorgenti rispondono con una devastante sperimentazione politico-sociale che disarticola le classiche modalità di esercizio del potere.
Il NO attuale, il rifiuto all’obbedienza, il dissenso contemporaneo non ripropongono una posizione dialettica con il potere, ma si affermano come forze di creazione e sperimentazione: di linguaggi, dispositivi, istituzioni e soggettività.
Lo spazio a cui si espongono è quello di nuovi immaginari e nuove possibilità di vita che trovano impegnati tanto modelli estetici quanto forze produttive e movimenti sociali. In questo senso quello che definiamo attivismo si lega ormai indissolubilmente ai modi di produzione estetica e comunicativa. Disobbedienza, allora, non come violazione deliberata della legge, neppure solo come processo sociale di contestazione. Piuttosto come processo autonomo di costituzione di soggettività alternativa e di organizzazione innovativa indipendente: cioè, apertura a un divenire continuo.
Con quali criteri sceglie i materiali che documentano e analizzano le forme di azione e resistenza contemporanee?
Il progetto Disobedience è un’indagine sulle pratiche di attivismo artistico che sono emerse dopo la fine del modernismo, inaugurando nuovi modi di essere, di dire e di fare. Un diverso tipo di rapporto tra arte e politica caratterizza l’attuale fase del capitalismo, in cui è impossibile comprendere i cambiamenti radicali della società se non attraverso la trasformazione dei linguaggi che essa produce e ha prodotto come soggetto politico e oggetto mediatizzato. Per questo motivo, i materiali che compaiono all’interno del progetto sono molto eterogenei, ma quello che li caratterizza è che spesso sono degli archivi visivi in sé, per loro natura. Usano found footage, estratti di documenti televisivi, animazioni, materiali di diversa provenienza e girati con intenti diversi. Tre esempi fondamentali possono essere Parco Lambro di Alberto Grifi del 1977, Handsworth Songs di Black Audio Film Collective del 1986 e Videograms of a Revolution di Harun Farocki e Andrei Ujica del 1992. Questi tre film (dei capolavori) sono presenti nell’archivio dal 2005 e sono sempre stati la guida per selezionare tutti gli altri video da differenti latitudini del mondo.
Perché il progetto è concepito come un archivio in continua trasformazione e in che modo questo approccio si differenzia dalla concezione tradizionale di mostra? Quale versione viene proposta alla Biennale di Venezia?
Nei venti anni dalla sua concezione il progetto espositivo Disobedience Archive si è proposto come una videoteca itinerante e in espansione, senza una forma definita e senza una dimora fissa: si presenta più come un contro-dispositivo o una cassetta degli attrezzi che può essere utilizzata ovunque, piuttosto che come una collezione da esporre in un luogo designato. In questo senso, è un progetto a lungo termine, un archivio mai finito ma sempre “in costruzione”: qualcosa che, di per sé, non è meno politico. Quello che si mette in scena è un archivio generativo e non conservativo, per cui i materiali vengono ogni volta de-archiviati e re-archiviati, secondo un montaggio sempre variato. In questo senso, uno spettatore può aver visto Disobedience Archive in tre o quattro edizioni, e ogni volta percepisce una narrativa diversa. Siamo, dunque, ben lontani da una classica mostra per quanto itinerante. Il progetto per la Biennale, in due macrosezioni, nonostante inserisca tra i quaranta artisti invitati, una decina di nomi già presenti nelle versioni precedenti, è totalmente inedito.
Qual è il ruolo dell’allestimento e come si integra nella visione dell’archivio come strumento per la produzione critica di spazio, relazioni e conoscenza?
Ogni volta che viene presentato, Disobedience Archive deve essere configurato in una nuova struttura spaziale. Non c’è mostra dell’Archivio che non sia anche produzione di un display appropriato, come parte integrante del progetto, perché l’archivio non esiste se non nel tempo dell’esposizione.
Ogni volta è necessario capire come disarmare esteticamente e temporaneamente le configurazioni di uno spazio espositivo già dato: in modo capillare, locale e immanente. Un’esposizione, in questo modo, dovrebbe mostrare i mezzi, le relazioni e le ideologie sottostanti alla produzione dello spazio, e diventare uno spazio di produzione: di sensibilità, di relazioni e di comprensione specifica degli oggetti, del contesto e dell’esperienza. Una mostra di questo tipo viene immaginata per produrre domande critiche sulla produzione artistica, sulla politica e sulle loro implicazioni.
Marcelo Exposito ha recentemente affermato che Disobedience consiste sia nell’esibizione dei suoi materiali che dei soggetti che li consultano, mettendo allo stesso tempo in atto una produzione politica di soggettività. Dopo aver incorporato i modelli dell’aula scolastica, del parlamento, del parco, ecc., a Venezia la forma che l’archivio assume è quella di uno zootropio, un dispositivo ottico che serviva a creare effetti di movimento prima che fosse inventato il cinema. Le implicazioni di questo dispositivo con l’aspetto sociale sono molte perché, quando la struttura è ferma, le immagini sono fisse e staccate l’una dall’altra ma quando il dispositivo ruota su se stesso, ecco che le immagini si trasformano in flusso in movimento. Ma il display ha anche un senso rispetto alle strutture dell’associazionismo attivista che è sempre temporaneo e mai permanente come invece nel caso delle forme politiche del modernismo.
Quanto il modo di mostrare oggetti e immagini può influenzare il modo in cui li vediamo e li comprendiamo? Disobedience Archive presenta 40 video di lunghezza diversa che però superano di gran lunga il tempo che uno spettatore può dedicare alla visita. Che tipo di relazione la mostra instaura con il pubblico?
Questa è una domanda che va dritta al cuore dei dubbi che il pubblico si pone, da sempre, di fronte a Disobedience Archive. Nonostante siano passati venti anni dalla sua prima presentazione a Berlino e sono stati scritti molti testi a proposito del suo format espositivo, dalla Biennale di Venezia si sono ancora levate alcune voci (per fortuna poche) che hanno lamentato l’impossibilità per uno spettatore di vedere tutti i video o il fatto che la presenza di così tanti documenti filmici «non permette un corretto apprezzamento delle opere». Queste critiche tradiscono un problema di fondo che non è di Disobedience Archive ma del nostro conformismo visivo.
Di fatto, per una modalità del visivo normativizzata le opere all’interno di una mostra si dovrebbero poter vedere tutte, una dopo l’altra, fino al termine del percorso espositivo. All’opposto, la proposta di Disobedience Archive – in cui i materiali sono disposti l’uno accanto all’altro – è quella di creare una possibilità spettatoriale in cui sta al pubblico decidere la propria selezione.
Ora questo pubblico che recalcitra di fronte ad una molteplicità di video, entrando in una biblioteca non si pone neppure il problema di dover consultare tutti i libri che vi sono conservati. Ne sceglie uno e se lo legge. D’accordo con Trevor Paglen, penso anch’io che un museo democratico dovrebbe avere molti punti in comune con una biblioteca. Hai di fronte una potenzialità, in cui ogni materiale ha lo stesso valore. Questo potenziale può essere attualizzato con le differenti scelte di ciascuno: ciò presuppone un pubblico attivo che partecipa al funzionamento del dispositivo e organizza il materiale che ha di fronte. Dunque, non c’è una successione prescritta da seguire, né alcuna gerarchizzazione.
In che modo i contenuti presenti in mostra contribuiscono a rendere visibile la Storia attraverso una molteplicità di prospettive?
Compito delle immagini video e filmiche che compongono l’archivio Disobedience è anche quello di rivelare il carattere mediatizzato della storia. Da un lato, far vedere ciò che le corporate media, in quanto agenti centrali dell’autoritarismo politico, nascondono o sottraggono alla vista. Dall’altro, riappropriarsi dell’espropriazione violenta dell’esperienza: produrre la storia, dunque, e renderla visibile.
La storia, trattata come un problema di politiche della rappresentazione è al centro di questi materiali filmici che vanno dal documentario alla controinformazione, dal film-saggio fino al cinema agit-prop, dal videoattivismo al cinema comunitario di base. Questo cinema disobbediente incarna una molteplicità di proposte e attua una strategia d’azione trasversale alle divisioni canoniche stabilite dal “potere”, quali l’ambiente, i corpi, la psiche, il lavoro, la società e i flussi semiotici, per intervenire nel tempo della vita come tale.
Al contrario del cinema militante, queste nuove immagini, si impegnano e si sottraggono allo stesso tempo, negandosi agli stereotipi, alle imitazioni, alle definizioni che codificano e reificano lo spazio del politico. Agiscono come dispositivi di profanazione e rivendicano un potenziale di sperimentazione rispetto alla direzione politica o al comando. Cartografano una politica dell’immanenza, mai data una volta per tutte, ma come qualcosa che viene costantemente conquistato attraverso il pragmatismo dell’esperienza. Per questo motivo, Disobedience Archive non è solo un campionario di lotte e proteste, ma anche un archivio di immaginari, di modi di vivere, di produrre, di guardare, di apprendere e di autorappresentarsi.
Quali sono le sfide e le criticità che emergono nel tentativo di creare uno “spazio comune” tra attivismo e pratiche artistiche?
Ricordo che nel 2004, mentre stavo lavorando a Berlino per la prima presentazione di Disobedience Archive al Kustraum Kreuzberg/Bethanien, si parlava del nuovo connubio tra arte e attivismo come di una zona grigia in cui la politica cessava di essere tale e l’arte rinunciava altrettanto alla propria identità modernista. In entrambi i casi c’era un rifiuto della rappresentazione o rappresentanza classica. L’alleanza tra estetica e attivismo era a monte e non a valle come nel caso dell’impegno politico di tipo novecentesco.
Quando oggi sento la parola “artivismo” penso che sia un trend molto usato proprio perché svuotato dei suoi veri contenuti. Che, al contrario e fuori delle mode, continuano ad agire e continuano a sfidare i modi di pensare tradizionali. Alla Biennale di Venezia continuano a concepire l’autore come un’unica figura mentre nel caso dei Collectif des Cinéastes Pour le Sans-Papiers si trattava di formazioni che contavano centinaia di membri al loro interno per cui l’autorialità viene concepita coralmente. Rintracciare i diritti di proiezione, in questo caso, diventa impossibile rispetto alla nostra idea di soggetti individuali.
Come il modello alternativo di pensiero fornito da Disobedience Archive può trasformarsi in azione concreta?
Tutto quello che vediamo in Disobedience Archive è già accaduto: da qui deriva la natura ambivalente di questi materiali filmici che sono tanto sperimentazioni linguistiche che documenti politici, allo stesso tempo. Al primo maggio del 1971 risale la manifestazione inaugurale parigina del Fronte Omosessuale d’Azione Rivoluzionaria filmato dalla femminista Carole Roussopoulos. Nel 2015, la Macedonia, attraverso un provvedimento compiuto in maniera analoga anche dalla Serbia, decide di chiudere le proprie frontiere meridionali, mentre centinaia di migranti, giunti a Idomeni con la speranza di attraversare il confine, rimangono bloccati alla frontiera e decidono di ribellarsi sotto la telecamera di Maria Kourkouta e Niki Giannari. Giusto qualche esempio del ricco campionario. L’obiettivo di Disobedience Archive è però quello di proporre un manuale d’uso per l’azione insorgente che faccia passare queste azioni molecolari alla macro-scala politica.
Disobedience Archive (The Zoetrope), visitabile fino al 24 novembre 2024 in occasione della 60a Biennale d’Arte di Venezia, è un progetto di Marco Scotini che è stato realizzato con Arnold Braho, project assistant, con il coordinamento di Andris Brinkmanis, e con Lilia Di Bella e Chiara Figone di Archive Appendix che hanno sviluppato il concept visivo.