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Scrivere è attraversare una selva oscura. Una conversazione con Lukas Bärfuss

In “Koala” lo scrittore affronta la perdita del fratello attraverso la scrittura, perché l’alternativa al racconto è il fascismo

Ho appuntamento con Lukas Bärfuss nel tipico caos delle fiere librarie, tra le sportine sfreccianti che sventolano all’aria i più importanti brand editoriali e i valzer di saluti tra gli stand. Sin da lontano, a spiccare tra i lineamenti stravolti dei turisti festivalieri mi si rivela il volto di Bärfuss; non sfigurerebbe affatto in un film di Nicolas Winding Refn o di Gaspar Noé, mi dico. 
Oggi Bärfuss, classe 1971, è di fatto tra le più autorevoli voci letterarie di lingua tedesca. Il passaporto indica la nazionalità elvetica, ma nelle sue vene sembra scorrere una linfa letteraria senza recinti geografici. Un nomadismo narrativo che l’ha visto, negli anni, essere scrittore, saggista e drammaturgo; dopo una sfilza di mestieri che, nella poco lucente parabola occidentale, lo hanno portato dall’essere un rappresentante di tabacco sino alla condizione di senzatetto, ha saputo trovare la propria voce dapprima nella scrittura drammaturgica e successivamente nel romanzo, firmando opere come Hundert Tage (2008), Hagard (2017) e Krieg und Liebe (2018). 

L’occasione della nostra intervista è la pubblicazione italiana, presso L’Orma Editore con la traduzione di Margherita Carbonaro, di Koala, romanzo atipico che lo ha portato a vincere il Schweizer Buchpreis, il più importante premio letterario svizzero, una narrazione inconsueta che conduce allo specchiamento la vicenda umana del fratello maggiore dello scrittore, al quale sin dai tempi degli scout è stato affibbiato il soprannome di Koala per la sua indole schiva e irrequieta che lo condurrà al suicidio, e la storia secolare del marsupiale australiano, passato negli anni dall’essere oggetto di massacri al divenire il simbolo di un intero Paese. Un’indagine, quella del bisturi lessicale dell’autore svizzero, che dal racconto intimista deflagra in un’incursione storica e filosofica, alla ricerca delle radici della violenza contro il mondo e, in ultima analisi, contro se stessi.
Mentre ci accingiamo ad iniziare la nostra conversazione, Bärfuss posa lo sguardo sui miei appunti scritti a matita. Ne è colpito. Estrae la sua piccola agenda, mi mostra pagine scritte fitte, con una scrittura minuta ed elegante: «È il mio nuovo libro», mi dice. Cerco di decifrare quella mappa addentrandomi in una lingua, il tedesco, che non padroneggio. «Scrivere su questa agenda mi permette di essere uno scrittore ovunque: il taccuino sta in una valigia, in una tasca». Mi fa pensare a Koala, alla possibilità che la storia personale di un essere umano possa aprirsi sul mondo, che un dolore privato possa librarsi come canto cosmico, alla ricerca primigenia dell’istinto che tiene in vita l’essere umano e, fatalmente, al principio inverso che lo porta con determinazione a ricercare la propria fine. 

Bärfuss

Koala è forse, tra i suoi lavori, quello più radicale. Un’opera nella quale la memoria della storia di suo fratello si intreccia con la spietata colonizzazione europea dell’Australia. Come è nata in lei la necessità di un racconto che tenesse insieme questi due poli, apparentemente inconciliabili?
Scrivere questo romanzo non mi è sembrato affatto radicale. Al contrario, è stata una scrittura molto naturale. Mi è bastato seguire questo nome, Koala: mi sono messo alla ricerca, alle calcagna di questa parola, e la mia idea di immaginazione si è fatta universale. Non credo nei confini tra i generi e le possibilità della scrittura: la forza della letteratura ha la capacità di mettere insieme nel qui e ora cose solo apparentemente diverse. Ci sono diversi gradi, in questo processo. C’è anzitutto un’immaginazione viva, accessibile, nella quale ci si può muovere come nel proprio giardino; è la parte più semplice, che richiede di tradurre in un sistema astratto questa immaginazione. Poi è arrivata la parte più dolorosa, il pensiero che mi portava a immaginare mio fratello. Radicale forse è il gesto compiuto da mio fratello. Da un atto talmente radicale poteva forse nascere soltanto un libro radicale. La mia non è stata una scelta artistica, si tratta piuttosto di una decisione materialistica. Questo libro è un corpo a corpo con la realtà.

La sensazione, da lettore, è che la sua scrittura in questo libro riesca a raggiungere una nuova foma di auto-fiction: una scrittura nella quale la microstoria, quella che restituisce la vita delle persone comuni, possa essere raccontata non più “accanto” alla macrostoria, ma più dall’interno, alimentandola.
È interessante questo riferimento alla microstoria, penso soprattutto ai lavori di Carlo Ginzburg. Tra gli altri, le sue ricerche hanno mostrato come nel piccolo si possa osservare l’intera struttura del grande. Questa rappresentazione del micro nel macro è un punto di osservazione importante: l’universo funziona veramente in questo modo. La suddivisione della materia del cosmo segue le onde del Bing Bang, e questo assomiglia in modo molto forte all’elettrocardiogramma del cuore, ad esempio. Mi piace molto l’immagine del doppio imbuto, della luce che si concentra in un punto e poi si allarga specularmente. La scrittura guarda a quel punto in cui la luce si concentra.

Il Koala nel suo romanzo è descritto come un animale lento, disinteressato. Un animale da sempre marchiato come “pigro” in questa società veloce, nella quale bisogna sempre essere efficienti. Cosa la colpisce di questa creatura?
Anzitutto, si tratta di un animale molto dolce. È un essere che non smette di entusiasmare perché è così particolare, così “altro”. La scienza ci dice che il suo sviluppo evolutivo è particolarmente variegato, e questo per noi è una sorpresa. Noi esseri umani siamo abbiamo tutti una visione antropomorfa, e quando facciamo un incontro con un animale, che sia una colomba, un cane domestico o una bestia selvatica, tra noi e lui si sviluppa subito un qualche tipo di linguaggio. Immediatamente. Col Koala si deve sviluppare una lingua molto particolare, ed è una questione di temporalità perché il tempo ritmico di questa creatura è molto ridotto, molto lento. Attraverso il contatto con questa creatura, anche noi possiamo decidere di rallentare il nostro tempo. E quando rallentiamo tutto cambia, possiamo vedere ogni cosa diversamente, e soprattutto possiamo scoprire altre cose che prima non notavamo.

Non si tratta di un punto di vista solo occidentale. Anche gli aborigeni hanno un rapporto molto particolare con il Koala.
Gli attribuiscono una funzione ambivalente. In termini mitologici, nella loro cultura il Koala ha la figura del trickster, che in antropologia delinea un essere al di fuori delle regole convenzionali. Per gli aborigeni, il Koala è una creatura che cambia continuamente forma, ma che ha anche poteri creatori. Ad esso viene attribuita la scoperta dell’acqua: quasi un controsenso, se consideriamo che il Koala non beve. C’è una storia aborigena sul mito della scoperta dell’acqua, che ora non saprei ricordare a memoria, nella quale il Koala si disseta e per questo perde la coda.

Di fatto, questo animale può essere letto come un simbolo della resistenza contro le leggi della società odierna.  È come se nella natura potessimo trovare le risposte per la costruzione di un modello di vita migliore, per il futuro. Crede di aver scritto un romanzo politico, in qualche modo?
Fondamentalmente sì, è politico. È la postura di base di tutta la mia scrittura: essere interventista, fare azione, essere in qualche modo rivoluzionario. Altrimenti la forza creativa dell’uomo non avrebbe alcun senso. Si tratta in qualche modo di un sentimento ambivalente: è una forza che ha una potenza distruttiva, che ti cambia e ti trasforma la vita, e allo stesso tempo può ispirare e cambiare un’enorme quantità di persone. Questa forza creativa per me è stata una salvezza, mentre per mio fratello è stata una causa di morte. Quello che cerco di fare attraverso la scrittura è trasformare i dolori in creazione artistica e azione politica. È un compito che sento fortemente, e che condivido con tanti esseri umani: scrivere questo libro mi ha aiutato, e credo abbia aiutato anche molte altre persone. Ma non l’ho scritto con un’intenzione politica alla base: è stata una scrittura notturna, in una fase molto difficile della mia vita.

Bärfuss

Una narrazione, quella che attraversa quest’opera, che scava nel lutto causato dalla perdita di un fratello. La sensazione è che la sua scrittura rappresenti un attraversamento del dolore.
Mi piace molto questa idea dell’attraversamento. Credo che, per scrivere, la prima virtù sia il coraggio. Perché la scrittura non ti dovrebbe mai portare in una zona nella quale vuoi andare. C’è una selva oscura che devi attraversare e non c’è modo di aggirarla, puoi solo passarci all’interno. Nel lutto mi sento a mio agio, trovo che sia fonte ed effetto del pensiero. Il lutto è analitico, e inoltre si accorge immediatamente se stai utilizzando dei toni falsi. Al lutto è possibile tutto, si può piangere, ridere, mangiare o digiunare, fare l’amore. Credo che sarebbe una buona idea pensare politicamente il lutto. Pensiamo spesso alla rabbia come un motore politico, perché la rabbia è reattiva, rapida e immediata. Ma il lutto è più potente, anzitutto perché dura più tempo. Lo si vede chiaramente nella longevità della chiesa cattolica, che vive nel lutto per la perdita di Dio. 

Crede che oggi stiamo perdendo qualcosa?
Sì, in questo momento stiamo perdendo molte cose. La nostra cultura, soprattutto. Viviamo un mondo che cambia rapidamente, basta pensare all’economia e alla fine imminente del sistema basato sul petrolio, che per anni ha alimentato la nostra vita mostrandoci il progresso. Oggi sappiamo che il progresso a quel prezzo non può continuare, ed è importante parlare il più possibile con gli altri di queste perdite, che sono tanti piccoli lutti nella nostra esistenza. Perché l’alternativa è il fascismo. È così: una politica senza lutto è il fascismo.

In fondo, è possibile leggere Koala anche come un romanzo sul silenzio, sull’impossibilità di trovare le parole. Prima nel rapporto tra i due fratelli, poi nell’implausibilità stessa di raccontare il dolore.
Non so come sia da voi in Italia, ma nella regione nella quale sono cresciuto le persone erano particolarmente laconiche. Da quelle parti, un individuo che parla molto è subito visto di cattivo occhio. Solo i venditori di bestiame parlano molto, in quei luoghi. Immerso in quel mondo, sono cresciuto sentendomi un estraneo, così come è accaduto a mio fratello. Mio nonno era un gitano, un viandante: il modo di vivere nomade è anche il modo di vivere di chi racconta. È un’immagine nota quella del poeta viandante, che viaggia e si muove continuamente raccontando le proprie storie. È sorprendente come, ancora oggi, una delle più grandi minacce della vita borghese siano i senza dimora: nella storia della Svizzera, i nomadi sono sempre stati vissuti come un pericolo. Un pericolo dunque legato al gesto stesso del raccontare.

Dunque l’essere umano ha bisogno, forse oggi più che mai, di racconto?
Walter Benjamin ha molto parlato dell’elemento orale e performativo della narrazione, nel suo saggio sul narratore e su Nikolaj Leskov, nel quale analizza il racconto immediato del reale, sul quale poi si avventa la borghesia con un processo di rielaborazione. Quello che sento, e che condivido con mio fratello, è l’amore per le storie, e l’idea che la vita esista soprattutto per permetterci di raccontarci reciprocamente delle storie, fino alla fine.

Grazie a questo suo romanzo, anche il suo album familiare è diventato una storia.
Su mio fratello esistono molte storielle; quando si va a Thun, il paese nel quale viveva, parlando con le persone sulla sua figura nasce un racconto dopo l’altro. Nostro padre è stato a lungo in prigione, perché era un truffatore. Un truffatore è una persona che racconta molte storie perché ti vuole vendere qualcosa. Forse proprio perché raccontava molto, si è sempre sentito distante dalla sua società, popolata di persone silenziose. E in fondo anche io, decidendo di diventare scrittore, ho trovato un modo per fare la stessa cosa, ma evitando di finire in galera.

E chi non trova una via di fuga, finisce con lo scegliere di togliersi la vita, come ha fatto suo fratello. Nella società della perfezione, il suicidio sembra aprire una crepa innominabile, un rifiuto della vita che si presenta a noi come un tabù sociale da una parte, e un mistero insondabile dall’altra.
La cosa importante che il lettore deve sapere è che, persino quando sembra non ci siano più soluzioni, c’è sempre un motivo per non togliersi la vita. Chi sta leggendo questa intervista, potrebbe cercare il numero dell’emergenza anti-suicidi, e memorizzarlo sul proprio smartphone come si fa col numero della polizia o dei vigili del fuoco. Perché, anche se fa comodo non parlarne, tutti possiamo finire in questa situazione: la depressione è un problema clinico, medico, che falcia tante vite. Io non l’ho mai vissuta in vita mia, ma non è certo un merito. È un compito costante della società e della sanità pubblica quello di occuparsi di questa malattia. Poi c’è il mistero, l’aspetto filosofico: come si legge nel libro, la possibilità di scegliere se vogliamo vivere o no è alla base della nostra libertà. Ma alcune situazioni di dolore possono diventare più importanti della nostra stessa vita. E la nostra libertà di scegliere ha un senso anche per questo.

Immagine di copertina di Frederic Meyer
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