Civil War è un film su una guerra civile negli Stati Uniti d’America: una e insieme anche tutte le guerre civili futuribili nella nazione che, nei decenni passati, si fregiava di essere la principale esportatrice di benessere e democrazia nei vari angoli del globo. Quasi una guerra di cartapesta, un fondale senza profondità contro il quale vanno in scena episodi e topoi universali di (stra)ordinaria distruzione, morte, anarchia e lacerazione del tessuto sociale.
Le immagini del regista Alex Garland mostrano molto, ma al tempo stesso non indicano nulla di specifico; anche quando i luoghi sono riconoscibili o espressamente menzionati (New York, Virginia e West Virginia, Washington), l’impressione è quella del classico corredo iconografico di macerie, cecchini, esplosioni, accampamenti e strade deserte, solamente trasportato nei luoghi simbolo dell’american way of life (i suburbs, la highway, lo stadio, il parco-divertimenti, i palazzi del potere economico e politico bombardati e assediati). Un repertorio mutuato da guerre finzionali, o troppo lontane dagli occhi degli occidentali, e riproposto qui, quasi come in un collage, dentro un contesto inedito, incongruo, tipicamente associato alla pace, in cui il nemico non si distingue più immediatamente in virtù dei suoi tratti somatici.
In una delle sequenze più tese, quella in cui i reporter sono tenuti sotto tiro da un soldato, il dialogo si incarta sulla definizione degli schieramenti (ironicamente, il militare è interpretato da Jesse Plemons, nella realtà marito dell’attrice protagonista Kirsten Dunst), quasi a farsi beffe del grande Paese e pluribus unum, che ha da sempre l’arroganza di definirsi come un intero continente: «Siamo americani», «Ok, ma quali americani? Sud America? Centro America?», «…Florida», «Ah, Florida… Centro America». Tutto ciò che dal film si apprende per certo è che un’alleanza tra California, Texas e Florida è ormai prossima a far cedere il governo federale, ma sia per lo spettatore sia per i protagonisti le motivazioni del conflitto restano oscure (tanto da divenire quasi ininfluenti), mentre le dinamiche della violenza appaiono inintelligibili e determinate solo da emozioni o reazioni elementari, binarie: morire/sopravvivere, terrore/eccitazione, fuga/rivalsa. Le immagini del panorama bellico, dal canto loro, sono piatte, incapaci di dare un senso a ciò che si sta guardando. Così, in Civil war, la war resta un’ipotesi distopica come tante, mai messa veramente a fuoco per la catena di eventi unica e irripetibile che essa, di fatto, dovrebbe essere.
Più in primo piano nel film si sviluppa il rapporto tra due civilians, due donne, entrambe fotografe di guerra. La prima è una veterana del mestiere e si chiama Lee, proprio come Lee Miller; ma a differenza della sua omonima, che a Seconda guerra mondiale finita si adagiava nella vasca del Führer a lavarsi di dosso l’orrore del campo di Dachau, mentre si fa il bagno la sera Lee si lascia assalire dalle immagini e dai ricordi delle guerre passate e presenti che le sono passate davanti agli occhi. Già prima della metà del film dichiara amaramente il fallimento della vocazione a cui ha dedicato la propria vita: «Ogni volta che scattavo la foto di uno sparo credevo di lanciare un avvertimento affinché questo non succedesse mai più, e invece eccoci qua». L’altra protagonista è la novellina Jessie, ragazza gen z per cui scattare foto comporta abbattere qualsiasi distanza tra sé stessa e l’immagine cercata. Jessie non esita a gettarsi senza protezioni nel centro dell’azione, fotografa in analogico e usa il contatto col proprio corpo per tenere in caldo il liquido per sviluppare i negativi. Non sa (non vuole?) evitare di farsi coinvolgere da ciò che sta fotografando, di lasciarsi trascinare dall’atmosfera (di volta in volta pericolosa, euforica, terrificante) delle varie situazioni, fino a adeguare e quasi confondere la propria posizione di osservatrice con la piega presa dagli avvenimenti. Il suo è l’approccio opposto a quello controllato e calibrato di Lee, secondo cui per fare una foto è necessario mettere a distanza la realtà, “registrare”, così che “altri” si facciano toccare dall’immagine e “facciano le domande”.
È in questa scelta di filtrare la narrazione attraverso lo sguardo e l’operato di due fotogiornaliste che si intuisce come la riflessione di Civil War non si porti tanto sulla guerra in sé, quanto piuttosto sulle immagini attraverso cui prende forma l’esperienza della guerra. A cominciare dalla reazione apparentemente più paradossale, ma in fondo fin troppo familiare per noi quotidiani spettatori di telegiornali e consumatori di news: quella della negazione. È l’atteggiamento “berkleyano” della provincia statunitense, nella menzione all’indifferenza delle famiglie d’origine di Lee e Jessie, e mostrato nel film attraverso la scena del negozio di vestiti: se non la vedo, la guerra non esiste, meglio “cercare di starne fuori”, come dice la commessa. Basta però un leggero movimento di macchina a rivelare i cecchini appostati sui tetti della cittadina, che fino a quel momento l’inquadratura aveva sapientemente nascosto. Secondo Garland, le immagini sono parte della guerra tanto quanto lo sono le armi; lo si capisce bene nella parte finale del film, con l’ingresso delle truppe dell’alleanza a Washington, e poi all’interno della Casa Bianca. In questa lunga e movimentata sequenza, a ogni uccisione corrisponde una foto; le morti sullo schermo cinematografico sono viste attraverso le foto dei personaggi, con un parallelismo tra sparo e scatto fotografico, ma pure con una sottile operazione di mise en abyme. In questa saldatura tra immagini e fatti si compie anche la resa dei conti tra i modus operandi di Lee e Jessie, nel momento in cui ormai, di fronte alla capitolazione dei centri di potere, non è più possibile mantenere un distacco dagli eventi. Mentre Jessie fotografa forsennatamente ogni azione, Lee è in affanno, sopraffatta e impietrita; per quanto incapace di scattare, resta però l’unica con la lucidità necessaria a capire la situazione, a individuare prima degli altri dove si trova il presidente e a condurre i soldati verso il loro bersaglio finale.
Sarà però questa anche la sua ultima intuizione di reporter, perché nel film di Garland la fine della guerra civile e del vecchio ordine sanciscono anche la fine di un certo modo di fare immagini, e l’affermazione definitiva di uno nuovo. Per richiamarsi al celebre titolo di David Wark Griffith, la “nascita di una nazione” è qui pure la nascita di un’immagine: un’immagine che, diversamente da come Lee intendeva il proprio mestiere, non si limita a documentare o certificare il reale, ma lo fa accadere, lo porta a esistere. Non è più l’obiettivo della macchina fotografica a cercare i fatti da rappresentare, ma sono i fatti a cercare l’obiettivo, ad avere luogo solo in funzione della loro rappresentazione, per sfruttarne l’effetto validante. Le nuove immagini non pretendono di porsi in una posizione distinta dalle cose del reale, ma sono anch’esse cose tra le altre; partecipano degli eventi – come le foto scattate da Jessie – senza cercare di metterli in prospettiva o dar loro una nuova luce – come d’altronde anche le immagini della guerra proposte dal film stesso.
Ci si può chiedere a questo punto cosa si dovrebbe pensare, secondo Garland, di questo nuovo tipo di immagine, quali cambiamenti essa introduca nel nostro modo di conoscere e giudicare il mondo. Su questi punti, il regista sembra essere pessimista (e si potrebbe leggere la sua dichiarazione di non voler girare più film come un riflesso di questo pessimismo); o quantomeno, così possono far pensare le ultime scene dell’esecuzione ingloriosa del presidente, impietosamente freddato sul pavimento dello Studio Ovale. In questa sequenza, le inquadrature gravitano sempre attorno al basso. La macchina da presa si dispone allo stesso livello dell’uomo, trascinato per le gambe mentre cerca di aggrapparsi alla scrivania; poi lo mostra steso a terra, dal punto di vista del giornalista che cerca di estorcergli un’ultima dichiarazione, a sua volta poi visto in controcampo da sotto; infine, per la fotografia finale dell’omicidio, la composizione trova le sue direttrici nei fucili dei soldati che sparano verso terra.
Garland chiude così la sua guerra civile su immagini schiacciate sull’inappellabilità della forza bruta, prone al nuovo potere, disponibili a umiliare gli sconfitti e onorare i vincitori chiunque essi siano. Ma, forse, il giudizio finale sta negli occhi di chi guarda; e allora Garland consegna un mandato allo spettatore, per rovesciare di senso anche l’immagine più meschina e farla diventare un atto di denuncia. D’altronde, può suggerirci il film, le immagini mantengono il loro senso finché c’è una comunità a riceverle e interpretarle, e perdono la loro funzione nel momento in cui questa comunità viene meno.