Il corpo ha ragioni che la ragione spesso ignora: potrebbe essere una conclusione da trarre alla fine della lettura del libro di Francesca Marzia Esposito Ultracorpi. La ricerca utopica di una nuova perfezione (minimum fax). Un libro affascinante, un saggio narrativo, come lo definisce l’autrice, che esplora i corpi mediatizzati di oggi: corpi alienati, in fuga dalle relazioni con gli altri, corpi-materia, con masse estreme per potenza muscolare e esilità, tra percezioni alterate di sé, mutazioni nei modi di esibirsi e, alla fine, di essere.
«Io la magrezza, mio fratello l’enormità. Io la danza, lui il body building»: si racconta di un fratello e di una sorella, della potenza di attrazione dei loro corpi simmetrici, uno ipertrofico e uno anoressico, tutti e due alla ricerca apatica del massimo rendimento ma senza volontà di vincere, per dominare piuttosto il caos rappresentato da loro stessi, per costringere quel caos a darsi una forma. Le due frasi che l’autrice mette in esergo, una di David Foster Wallace e una di Jean Baudrillard, chiariscono il suo pensiero sulla perfezione che diventa imperfezione e trasforma la bellezza in deformità, quando la si vuole abbracciare nell’assoluta infallibilità e nella ricerca di un’energia che finisce per tendere alla morte.
«È un fortino di guerra, la famiglia» scrive nel primo capitolo, perché è naturalmente lì, tra “i fratelli furiosi”, “le madri buone”, “i padri artisti”, “le sorelle sempre accanto” a cui il libro è dedicato, che tutto nasce.
«Scegliamo di fare rivoluzioni piccole, insubordinazioni limitrofe. Lotte minori. Fatte di rabbia male incanalata. Per troppa sete di vita si sfida la morte (…). Incarniamo due estremi opposti: il corpo sottile e il corpo spesso. Due corpi corazzati in modi diversi che proteggono la stessa debolezza. Iperprotetti da noi stessi, ci illudiamo di trovare un po’ di pace. Un po’ di quiete.»
Bisogna divorare il libro e correre verso la fine per trovare l’aggancio che descrive così bene il tempo in cui viviamo: la leggerezza, che in era analogica rinviava alla libertà dai ruoli, si stacca dal concetto di levità per agganciarsi alla fasullaggine «dello scintillio delle cose profane, alla luccicanza del vivere». L’entusiasmo per tutto ciò che è “s-materiale” – assenza di peso, anoressia – si ricompone simmetricamente con il suo contrario, la vigoressia: “vigor, forza” e “orexis”, che può essere tradotto con “fame di grandezza”. I superman trasformati in farmacie ambulanti, medicalizzati, vittime di iper-allenamento al punto da presentare sempre più frequentemente disturbi, patologie, fratture e altri traumi e le ragazze delle scuole di danza, manipolate dalle insegnanti che le spingono verso un ideale di magrezza che diventa subito disfunzionale, in menti nemmeno adolescenti che si affacciano alla vita.
Da questo libro si deduce che il materialismo della società dei consumi analogica è superato. Ora è l’espansione del mercato dello spirito e della ricerca di autostima che ci guida mentre si fa sempre più largo la farmaceutica della felicità, una pillola per qualsiasi disturbo. La convinzione che l’abbondanza è la condizione necessaria e sufficiente per essere felici è obsoleta: dopo il workout, svuotati e sfatti, i bodybuilder «sono bestioni placidi, chiusi nel silenzio buono della stanchezza». E le ragazzine obbedienti che vogliono gratificare le loro maestre di danza diventano magre, con le costole che «rastrellano la schiena», «le teste dei femori che affiorano dai glutei» quando si piegano per allacciarsi le scarpe.
A dire il vero manca nel libro di Francesca Marzia Esposito la rifrazione ricercata del benessere interiore che solo l’autostima sembrerebbe concedere: in era digitale, il body building può essere una reazione ad atti di bullismo subiti da corpi gracili ma qui è un esercizio che viene raccontato più come una cupa discesa di chi lo pratica nell’urgenza del tempo reale, nella consacrazione del presente assoluto, nell’autosufficienza, senza legami tra passato e futuro («nello sguardo di Vladir si percepisce il suo essere sganciato dal mondo circostante»). Le storie di questi Mister Muscolo che a forza di cesellare il corpo perfetto lo trasformano nel grottesco paradosso di Schrodinger («il corpo è vivo o è morto?») preconizzano la portata desolante e tragica di un’esistenza la cui solitudine acquista senso solo se sostenuta dalla forza compensativa del virtuale:
«In una delle ultime registrazioni se ne sta all’aperto, in un posto dimenticato da Dio. Sembra un’aia, un cortile di altri tempi, con una baracca col tetto di lamiera capitata su una striscia di terra anonima, tra spiazzi arsi dal caldo. L’immagine è sbiadita dalla luce accecante del sole che consuma i margini della strada, gli spigoli delle case. Un tizio con la cazzuola si sposta dietro di lui, come se fosse stato messo lì per fornire le coordinate di un mondo arcaico. E da quella realtà antica, Vladir mostra al mondo ipertecnologizzato di TikTok il suo fantasmagorico bicipite.»
I corpi strani si portano dietro l’attrazione, dice Francesca Marzia Esposito, perché siamo attratti da qualcosa di diverso da noi, che non conosciamo. Corpi misterici, che rimandano all’inumano, al soprannaturale, all’insondato, che generano un’attrazione horror «non nel senso di raccapricciante, ma come manifestazione di una dimensione ambigua, che si fa ombra e immagine mentale». Ci rinviano a dettagli conosciuti ma quelle braccia, quelle gambe non sono come le nostre e «in questo ci fanno esperire l’incolmabile distanza tra realtà e utopia». Sono corpi soglie, quelli weird, «sono corpi portali» che aprono ad altre dimensioni, che mettono in contatto il nostro concetto di umano con l’idea espansa di esso.
Non ci può essere identificazione, nessuna logica della similitudine, solo dissomiglianza, presa di distanza. Schwarzenegger e Carla Fracci raccontano due corpi nella costellazione delle stelle, uno assetato di muscolatura, l’altro di perfezione eterea, tutti e due corpi vivi e morti nello stesso tempo, vivi e vibranti di forza l’uno e di linfa artistica l’altro, morti nel loro essere cavati «dalla tetra materia». Come Roberto Bolle, con le sue «fattezze disneyane, tra il principe azzurro e il Ken della Mattel», contemporaneo nel suo classicheggiante e mitologico splendore, ma al tempo stesso con «qualcosa del cyborg, dell’iper-umano, del virtuale, del corpo aumentato, che non cambia, non intristisce, non invecchia».
I culturisti raccontati nella prima parte del libro sembrano animali in via di estinzione, molti di loro muoiono giovani stroncati da infarto, perché gli anni Venti del nuovo secolo sono consacrati alla sottigliezza, siamo nell’epoca dell’ultrapiatto, dello slim, del sottile. La nuova arcadia digitale funziona come agente di infantilizzazione degli adulti, una delle inclinazioni dell’user da social network non è tanto quella di imporsi come un “grande” nei confronti degli altri, quanto piuttosto di ritornare piccolo. Vecchi che vogliono assomigliare ai giovani, giovani che rifiutano di crescere mentre si sviluppa il mercato del consumo regressivo: in un capitolo dedicato a Barbie si cita «una platea di centomila e rotti individui che segue su Instagram il body builder sposato con la bambola e ne rimane catarticamente ipnotizzata».
Ultracorpi fissa su carta un momento capitale della mutazione dell’umanità, improvvisamente diventata fluida, infantofila, weird, mostruosa. È un libro dove inseguire la perfezione del corpo non ha più nulla a che vedere con i principi dell’armonia e della bellezza. Il nuovo canone, nell’economia immateriale che caratterizza questa nostra epoca, è quello che proporziona il corpo per accumulo o per sottrazione: ipernutrito o tenuto a digiuno, spossessato da qualunque ideale trascendente, il corpo raccontato da Francesca Marzia Esposito è sordo, ateo, adattato alle costrizioni emotive, al transitorio, al contingente. I corpi pompati in palestra e quelli sottoalimentati nelle scuole di danza sviluppano in maniera ipertrofica il loro potenziale metafisico, in un delirio di onnipotenza che fa schiantare i body builder e sprigiona una forza irragionevole nelle anoressiche, «una condizione quasi simile all’estasi», in un deserto di solitudini che ci vede vuoti e pieni, «senza soluzioni».