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Utopia in quattro quarti. Perché la techno di Berlino è patrimonio Unesco (e vi fa incazzare)



Una di quelle notizie affascinanti o sbilenche, a seconda di come la si guardi; e di sicuro una notizia che sarà arrivata anche a voi, sì, voi che state leggendo, visto che è rimbalzata un po’ su tutte le testate, anche quelle italiane, anche quelle più generaliste. «La techno di Berlino è diventata ufficialmente patrimonio UNESCO»: questa headline è girata un po’ dappertutto, raccogliendo qualche applauso, molta meraviglia, qualche punto di domanda, la giusta dose di giubilo, un po’ di infastidito scetticismo e, infine, in qualche caso proprio aperta ostilità.

Partiamo dal fondo, dall’aperta ostilità. Anche perché è il caso più bizzarro. Al di là di chi considera la techno una musica da subumani nemmeno degna di essere chiamata musica e figuriamoci addirittura patrimonio culturale – nel 2024, persone così esistono ancora – le ostilità più puntute sono arrivate proprio dai più accaniti cultori della materia. Più accaniti, e più stagionati: quelli che hanno visto nascere la techno negli anni ’80 a Detroit, l’hanno vista diffondersi in Europa, ne hanno analizzato ma anche supportato l’imprevedibile destino che l’ha resa una musica snobbata e sfottuta in patria (a partire spesso dalla natìa Detroit, che a parte il festival Movement per il resto dell’anno celebra ben poco techno e derivati) ma popolarissima in Europa, in primis grazie all’esplosione del fenomeno dei rave in Inghilterra a fine anni ’80. Fenomeno che ha cavalcato due culture musicali cugine, spesso promiscue ma in origine distinte, ovvero la house nata a Chicago e la techno concepita a Detroit, e le ha unite in un calderone solo: visto che erano più le cose che univano (l’uso praticamente esclusivo di strumentazione elettronica, l’accento su una parte ritmica in quattro quarti clamorosamente ed ancestralmente funzionale al ballo, gli arrangiamenti scarni ed essenziali) che quelle che dividevano e differenziavano, soprattutto nel momento in cui ciò che contava era fare festa, una festa catalizzata dall’irruzione dell’extasy nel mercato delle sostanze edonisto-psicotrope, scardinando il perbenismo thatcheriano da un lato ma abbracciandone, bel paradosso, l’etica imprenditoriale fai-da-te senza rete dall’altro. Se quella era la situazione, e lo era, si pensava in primis a far festa con questo irresistibile suono nuovo, i discorsi musicologici su distinzioni stilistiche e background d’appartenenza arrivavano dopo, e non erano il fulcro di tutto. Con buona pace di chi il concetto dei rave e delle TAZ lo aveva adottato e portato avanti prima ancora che techno, house, breakbeat, drum’n’bass e quant’altro esplodessero nel mondo come consumo di massa – ovvero i travellers, i senza dimora in fuga perpetua dal Sistema. Loro il potenziale rivoluzionario o per lo meno radicale della techno, come momento di ballo e di liberazione completamente antitetico al pop più canonizzato, lo avevano colto. Lo avevano colto eccome. Prima e meglio di altri.

Berlino
L’entrata del Berghain, Berlino

A rimettere le cose un po’ a posto, e a non far perdere alla house ma soprattutto appunto alla techno – la più rigorosa e dura fra le due, musicalmente e concettualmente – il suo portato ideale, escapista ed utopico in favore del mero consumo e della mera commercializzazione, è stata Berlino. Una città che nel grande, felice, assurdo marasma seguito alla caduta del Muro aveva abbracciato subito una musica così estrema, escapista, scardinatrice d’ordine e consuetudini costituiti; ma al tempo stesso, pur essendo americana, una musica così profondamente tedesca (…non lo diciamo a caso: tutta la prima generazione di producer techno era letteralmente stregata dalle geometrie sonore dei Kraftwerk, con l’epifania della definizione perfetta coniata da Derrick May: «La techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in un ascensore»). C’era un senso e c’era un motivo insomma se il lato più ideale della techno avevo preso le basi nella capitale tedesca nell’arco degli anni ’90, offrendo una declinazione diversa dall’Inghilterra dei rave e del thatcherismo, diversa dall’Europa del Mediterraneo ancora legata al modello della musica da ballo come entità da balere e discoteche dove baccagliare, diversa dal funzionalismo favolistico nordico.

È stata Berlino ad accogliere più, meglio e più profondamente la techno di Detroit al suo zenith creativo: dopo infatti i grandi fondatori – i tre di Belleville, Derrick May, Juan Atkins, Kevin Saunderson – è arrivata una generazione di producer dal talento strepitoso e dotati di una consapevolezza di sé e della dimensione artistica/ideale/sociale della techno pari al talento: Underground Resistance, Jeff Mills, Robert Hood, Drexciya, Kenny Larkin, Carl Craig, Claude Young, citando un po’ alla rinfusa. Tutta gente che di certa Berlino alternativa è diventata bandiera, idolo, reference culturale obbligatoria e rispettatissima.
Ecco. I super-esperti della materia odierebbero però questo citare nomi alla rinfusa (…ti spiegherebbero che Mills e Hood originariamente facevano parte loro stessi di Underground Resistance, che Drexciya musicalmente erano più techno che electro, che Carl Craig s’è venduto presto al mercato, cosa che ha provato a fare pure Kenny Larkin senza riuscirci del tutto, eccetera eccetera). Esattamente come gli stessi super-esperti ritengono Berlino, nei confronti della techno, un po’ madre, un po’ però matrigna stronza, truffaldina ed approfittatrice.

Seguiteci. Questo è un punto importante. La ritengono madre: perché effettivamente ha accolto tutti i nomi di cui sopra dando loro spesso casa, altrettanto spesso contratti discografici, ma anche e soprattutto rispetto e conoscenza, perché si sa, i tedeschi, anche quelli più fricchettoni ed assurdi, sono tremendamente seri. Ma la ritengono anche matrigna stronza, truffaldina ed approfittatrice: perché Berlino ha preso la musica techno di Detroit, ne ha succhiato il rigore ideale e la propensione al futuro, e facendo finta di rispettarla e di custodirla ne ha invece usato gli stimoli&canoni per creare una mera e piatta equipollenza fra techno e ballo, techno e clubbing, techno e sciame di persone che vogliono prima di tutto una musica che sia una perfetta colonna sonora per sudate fattanze da weekend, e stop. La libertà confusa e vitale della Berlino di fine anni ’90 e ancora ancora dei primi 2000 è stata il passepartout per ballare sempre, ballare ovunque, ballare fino all’alba e oltre, abbracciare il dancefloor come dimensione infinita dell’esistenza e bandiera del proprio essere alternativi. Se a questo appunto aggiungiamo che questa musica così giusta al momento giusto era pure, come detto prima, un po’ tedesca, ecco che: bingo. Tutto torna.

E ai veri puristi e cultori tutto questo dà fastidio. Molto fastidio. Questa sovrapposizione di techno, Berlino e clubbing suona loro come insopportabile superficialità, come luogo comune distorto, furbo ed in ultima analisi carognesco e/o commercialmente strumentale.
Ora capite perché se arrivate festanti dal vostro amico super-appassionato di techno esclamando «Visto? La tua musica è diventata patrimonio UNESCO! Non sei contento!?» lui, invece di abbracciarvi felice, vi guarderà con disprezzo, per poi andarsene scuotendo la testa, maledicendo Berlino e tutto l’hype attorno a Berlino. Ora probabilmente vi è un po’ (più) chiaro perché questo potrebbe succedere, o vi è già successo.

Berlino
Berlino, Unplash

Questo atteggiamento di estremo rigore è tipico però dei puristi che pensano solo al loro oggetto d’intesse, alla loro conoscenza settoriale ed al loro amore, ignorando però – consapevolmente o inconsapevolmente – il bigger picture. Un picture in cui entrano quelli che, alla notizia della techno come patrimonio UNESCO, si sono meravigliati, si sono sorpresi o si sono addirittura indignati.
Che è la maggioranza silenziosa. Soprattutto quella un po’ più agée: quella che non ha potuto sperimentare quanto bello e divertente fosse trasformarsi in Easyjet ravers – definizione diventata subito molto popolare che descrive chi prendeva un vettore low cost e si catapultava a Berlino per fare quello che nella propria città e nella propria provincia non poteva fare, o non poteva fare così intensamente: ballare dal venerdì alla domenica e oltre, drogarsi senza che nessuno ti guardasse male o volesse approfittare di te, essere libero da ogni occhiata moralista ed ogni pregiudizio. A Berlino, si poteva. Più che in qualsiasi altra città europea. Più che forse in qualsiasi città al mondo. Ibiza magari se la gioca – ma Ibiza è un’isola, è una vacanza, Berlino invece è una città, è o almeno potrebbe essere anche e soprattutto quotidianità.

Chi non ha vissuto tutto questo, almeno come piccoli assaggi (anche non per forza berlinesi, eh) se non proprio per grandi scorpacciate, non può capire quanto la techno e in generale la musica da dancefloor elettronica siano stati a cavallo del passaggio di millennio un fenomeno sia sociale che culturale enorme e sui generis, profondamente innovativo, per certi versi addirittura liberatorio: una delle cose più grosse ed importanti successe nell’ultimo mezzo secolo. Chi pensa che la musica techno sia ancora una non-musica di scarso valore (manca la melodia!, è solo ritmo!, è roba che puoi fruire solo da drogato!) è come chi dice che, in fondo, il calcio sono solo ventidue stronzi che corrono appresso ad un pallone. Il calcio effettivamente è ventidue stronzi che corrono appresso a un pallone, ok; ma è anche un fenomeno globale di impatto pazzesco come poche altre cose al mondo, una forma di religiosità collettiva, così come un gioco di complesse alchimie tattiche, di suprema attenzione alla cura del corpo, di senso di comunità, di capacità di reggere pressioni e mind tricks che manco un giocatore di scacchi ad alto livello.
Allo stesso modo la techno – la più iconica delle espressioni sonore della club culture, anche se non per forza la più commerciale e remunerativa – muove masse ed appassionati a dismisura e lo fa tanto quanto i grandi nomi del rock e del pop, così come è di suo una forma d’arte con tutte le sue regole, i suoi canoni, le sue evoluzioni, le sue sottigliezze, le sue idiosincrasie, le sue complessità. Vi pare che tutto questo non possa essere un UNESCO, nella sfera dei patrimoni culturali intangibili?

Berlino
Maor Attias

I problemi sono due, e sono correlati. Il primo è che questo riconoscimento arriva quando Berlino ha imboccato già da un decennio – per convinzione o per necessità, visto i disastrosi bilanci finanziari istituzionali formatisi negli anni «poveri ma sexy» (copyright, l’ex sindaco Wowereit) post caduta del Muro – la strada verso la normalizzazione, smettendo sempre più di essere una città senza orari, senza regole, senza obblighi, senza limiti, senza banali e terrene speculazioni economiche. Il secondo è che la stessa anomalia berlinese a tempo di techno ha scoperto che la techno stessa e il clubbing non sono più o non sono più tanto una way of life alternativa, quanto invece un comodo e seducente modo per guadagnare soldi (tanti) e rispettabilità sociale (tanta) sfruttando la voglia di divertirsi di chi ancora crede nei sogni utopistici, o nello sballo del sabato sera di chi per qualche ora si crede un eroe ma poi il lunedì è pronto a ritornare diligentemente nei ranghi. I dj sono diventati costosi, avidi ed esigenti quanto i musicisti pop un minimo di successo, i promoter pensano al fatturato e non agli ideali, il pubblico consuma club culture con le stesse dinamiche con cui il pop consuma le boy band, Madonna o Taylor Swift. «La techno di Berlino diventa patrimonio UNESCO»: ma cosa è la techno di Berlino oggi? È davvero una entità ancora così unica, così tipica, così particolare? Serve proteggerla, serve certificarne il valore sotto l’egida UNESCO?
…eh.

Bene. Se avete letto tutto, vi meritate il piccolo colpo di scena finale. In realtà, la techno non è diventata un patrimonio UNESCO globale tipo il Taj Mahal, la Grande Muraglia cinese, i Sassi di Matera, Gerusalemme. No. State calmi. In realtà, è stata solo la divisione locale tedesca dell’UNESCO a considerare patrimonio la «Technokultur in Berlin», al pari di altre cosette tipo la abitudine in certi luoghi a praticare il mountaineering, alcuni vini fruttati, una festa locale bavarese a nome Kirchseeoner Perchtenlauf dove ci si veste da pupazzoni pelosi. Cose così.
Tanto rumore per nulla?



In copertina:
Dan Witz, Brite Nite 2, 2014

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