«Ma se sono matto, per me va benissimo.» È nell’ultimo capitolo, interrogandosi sulla propria sanità mentale e sentendosi a proprio agio nell’essere fuori di testa, out of mind, che il cerchio narrativo di Herzog, protagonista del romanzo eponimo di Saul Bellow, si chiude e ritorna al principio, al celebre incipit: «Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog.» Tuttavia Herzog è un grande romanzo non tanto sulla follia quanto sul disadattamento dell’uomo comune, nella fattispecie dell’intellettuale americano (Herzog è un filosofo mancato), nel mondo moderno.
Un fallito, questo è Moses Elkanah Herzog, un uomo con due matrimoni falliti alle spalle e una gran confusione mentale e esistenziale che scrive senza sosta lettere che non spedirà mai: lettere ai giornali, agli uomini pubblici, agli amici, ai parenti e anche ai morti, che siano i suoi genitori o Vasilij Rozanov o Heiddeger o Nietzsche; d’altronde Herzog scrive persino a Dio. «Il mio equilibrio nasce dall’instabilità», pensa di fronte al fratello Will, sempre nel finale, e la frase potrebbe riguardare non solo se stesso, il personaggio “Herzog”, ma tutta l’opera, il romanzo Herzog, la cui struttura è imperfetta, deambulante, in un traballio che alterna la prima e la terza persona e la stesura delle succitate lettere, che sono – come scriveva Agostino Lombardo ne La ricerca del vero (il saggio è ora compreso ne Il grande romanzo americano, edito da minimum fax) – «l’àncora di salvezza che egli continuamente getta a se stesso, per non annegare nel mare tempestoso in cui si dibatte».
Herzog è un libro che danza con le parole (con le opinioni!) e i sentimenti e che spesso sbaglia volutamente i passi del ballo, calpestandosi i piedi da solo o addirittura inciampando e rovinando a terra. Il lettore è portato a danzare e a cadere e rialzarsi con un Saul Bellow mai così “instabile” narrativamente, in un difficile equilibrio stilistico e strutturale che si rafforza proprio nell’instabilità del personaggio e dei suoi pensieri o dei suoi atti, come quando Herzog medita di uccidere l’odiata Madeleine (le prime cento pagine del libro sono straordinariamente misogine) oppure quando guida fra le strade di Chicago con la figlioletta accanto e la vecchia pistola del padre nascosta nella tasca della giacca – e il capitombolo, il passo sbagliato della goffa danza esistenziale del povero Moses Herzog, è inevitabile e vicina: l’incidente incombe.
«Herzog, comunque lo si osservi, non ha una vera trama, e ogni lettura è possibile» ha scritto forse troppo perentoriamente Alessandra Calanchi nel secondo Meridiano dedicato a Saul Bellow. L’affermazione in effetti può essere discussa, ché sono molti i colpi di scena del romanzo, le digressioni, i ricordi, i pensieri filosofici e non (ma comunque narrativi: Herzog sarebbe stato sfogliato con diletto sia da Pascal che da Stendhal) e per l’appunto le lettere che compongono la trama di Herzog; pure in questo “comporsi” c’è un conseguente “scomporsi” che segue la mutabilità emotiva del personaggio e perciò è vero che in Herzog non c’è una vera trama, come scrive Calanchi, non in senso classico, e che ogni lettura è possibile e accettabile. In Rileggere Saul Bellow, per esempio, Philip Roth osserva con ragione che Moses Herzog è il Leopold Bloom della narrativa americana; come nell’Ulisse, qui è infatti il personaggio a tessere la trama e non viceversa. Ma c’è di più: Herzog, il personaggio Moses Elkanah Herzog, definisce non soltanto la trama ma anche e soprattutto lo stile, il ritmo, il nerbo, persino le malinconie e i malumori del romanzo che porta il suo nome. Herzog (il libro) coincide alla perfezione con “Herzog” (il personaggio) – il romanzo è nervoso come il personaggio, instabile e inafferrabile e elettrizzante come il personaggio che lo veste e lo guida o lo maltratta.
In Sabato, romanzo pubblicato l’anno della morte di Bellow (2005), Ian McEwan usa una lunga epigrafe di Herzog. Il brano inizia così: «Per esempio? Be’, per esempio, che cosa significa essere un uomo. In una città. In un secolo. In transizione. In una massa. Trasformato dalla scienza. Sotto il potere organizzato. Soggetto a tremendi controlli. In una condizione determinata dalla meccanizzazione. Dopo il fallimento di radicali speranze. In una società che non aveva nulla della comunità e che svalutava la persona…» – ed è tratto dalle pagine che precedono la scena di sesso con Ramona, amante di Herzog. Più avanti, poche righe dopo la citazione apparentemente “sociale” o persino “politica” scelta da McEwan, il personaggio continua a riflettere:
«Qui c’è un uomo che, qualunque sia la sua età, la sua storia, la sua condizione, le sue conoscenze, la sua cultura, il suo grado di sviluppo, in questo momento ha un’erezione. Moneta valida in tutti i Paesi. Riconosciuta dalla Banca d’Inghilterra. E perché mai adesso dovrebbero ferirlo i ricordi? Le nature forti, diceva Nietzsche, sanno dimenticare ciò che non riescono a dominare. Certo, diceva anche che lo sperma riassorbito era il grande carburante della forza creativa. Sii riconoscente ai sifilitici che predicano la castità.»
Questo lungo paragrafo, tra profondità e disperazione sociale e apodittica ironia, è esemplare dell’inafferrabilità tanto di “Herzog” quanto di Herzog, del personaggio e del romanzo – tutto, tutto sfugge in ogni direzione narrativa e filosofica.
Qual è stato il lascito italiano di Saul Bellow? Oltre all’affetto di non molti ma preziosi e gaudenti lettori contemporanei, i già citati Meridiani a lui consacrati offrono un buon percorso di lettura, sebbene manchino due titoli importanti del vasto corpus romanzesco bellowiano, Il dicembre del professor Corde e Ne muoiono più di crepacuore, due libri ormai quasi scomparsi dai nostri circuiti editoriali; i Meridiani avrebbero potuto essere tre e non due. L’anno scorso Mondadori ha però portato nelle librerie il bel volume dei Racconti, comprendente una postfazione inedita in cui Bellow fa una sorprendente ode alla concisione narrativa (cosa ne avrebbe detto il grafomane Herzog?). Vagando fra le nostre biblioteche, capita invece di incrociare romanzi che potrebbero essere definiti “herzoghiani”; ci riferiamo nella fattispecie a Contessa, di Ottiero Ottieri, uscito nel 1976 e ripubblicato recentemente da Utopia, oppure alle opere di Alessandro Piperno, che tiene sempre a mente le grandi lezioni di Bellow – si pensi all’uso della prima e della terza persona in Con le peggiori intenzioni o in Il fuoco amico dei ricordi. Un altro autore italiano che amava molto Saul Bellow è infine Ennio Flaiano, il quale disse, a proposito di Herzog (in un’intervista del 1972, pochi mesi prima di morire), di averlo amato al punto di non averlo voluto finire; e in effetti l’infernale televisore giapponese che vomita pensieri in Oh Bombay! non è lontano dagli sfoghi epistolari di Moses Herzog.
Insomma, Herzog e “Herzog”, il romanzo e il personaggio di Saul Bellow, per quanto non popolari come negli anni Settanta, godono ancora di buona salute – se non mentale di certo letteraria. Il che, vista l’opera e dati i tempi, non è poco. Herzog di fatto è un romanzo difficile, che richiede la partecipazione attiva del lettore, per non dire la sua complicità e spesse volte la sua indulgenza per alcuni effetti che possono apparire grossolani ma che non minano la grandezza e la bellezza del libro e che sono, a conti fatti, necessari alla sua struttura. Ecco: si spera che in tempi di lettori vieppiù passivi e di romanzi fin troppo scorrevoli asserviti a un pubblico non di lettori bensì di spettatori di serie televisive, questo piccolo esercizio di ammirazione letteraria invogli anche soltanto un lettore autentico a scoprire o riscoprire le commoventi e divertenti opere di Saul Bellow. Herzog continua a danzare.