Un pomeriggio feriale di metà novembre, un pomeriggio un po’ più libero del solito, mi trovo di fronte al cinema Arcobaleno di viale Tunisia, a Milano. Proiettano un nuovo film di Martin Scorsese, dal titolo Killers of the flower moon. Pago il biglietto, salgo un paio di rampe di scale ed entro in una delle due sale al primo piano, qualche minuto prima dell’inizio. Mentre raggiungo la poltroncina, dò un’occhiata alla sala. Nessuna sorpresa. È il pubblico del primo spettacolo. Persone anziane, da sole o in coppia, sedute qua e là in posizione centrale, con il cappotto piegato sulle ginocchia. Non più di una ventina di spettatori. La luce si abbassa, un velo d’ombra scende sul velluto delle poltrone e inizia il film.
Il film è ambientato negli anni venti in Oklahoma, nel villaggio di Fairfax. Racconta una vicenda realmente accaduta, o almeno credo sia accaduta per davvero, cioè ricordo di aver letto da qualche parte che Martin Scorsese si sarebbe ispirato a fatti reali; forse, sempre che la memoria non m’inganni, il film è tratto da un libro di storia pubblicato negli Stati Uniti, nel quale un giornalista ha ricostruito da capo tutta la vicenda. Nonostante si tratti di un episodio eccezionale rispetto al corso principale della storia americana, non ne avevo mai sentito parlare.
In sostanza in Oklahoma esisteva una tribù indiana, gli Osage, diventata ricca e benestante grazie alla proprietà di alcuni terreni dove era stata scoperta la presenza di giacimenti petroliferi. Gli indiani Osage avevano così ottenuto un nuovo tenore di vita. Indossavano abiti raffinati, secondo la moda degli anni Venti, magari conservando, grazie a un tocco sublime di stile e consapevolezza (in sensibile anticipo sul gusto etnico), qualche accessorio della tradizione indiana. Inoltre guidavano formidabili e spumeggianti automobili di lusso, dotate di clacson fragorosi con cui sfrecciavano festosamente lungo la strada che tagliava in due il villaggio di Fairfax. Sembravano felici. Anche le case degli indiani, che non abitavano più nei teepee, erano case di valore, degne di un servizio su una rivista di interni: le camere da letto erano arredate con pregevoli e spaziosi armadi di legno disposti davanti al talamo, prodotti di un’ebanisteria illuminata in cui la tradizione dei nativi si sposava con quella dei coloni, mentre nelle scene girate nelle sale da pranzo si vedevano splendide credenze luccicanti e confortevoli poltrone di pelle sistemate accanto alla finestra, forse a ritagliare uno spazio domestico dedicato alla lettura e alla meditazione. Gli Osage erano una vera e propria borghesia, ma indiana.
Sprofondato nel buio della sala, nel liquido nero del cinema Arcobaleno, a Milano, il film altera il mio stato mentale, entro in uno stato, mi azzarderei a dire, onirico, e fertile, la visione della quotidianità a Fairfax mi procura un effetto straniante, ma benefico, terapeutico, mi assale un brivido di gradevole incredulità e stupefazione, come se il mondo raccontato da Scorsese fosse un universo alternativo, una versione alternativa della storia americana, uno spazio-tempo parallelo dove bianchi e indiani vivono in pace e comunione, prosperano, sono ricchi, agiati, ma soprattutto spensierati (è questo il dono che più gli invidio mentre siedo in poltrona: la mente sgombra e la serenità e la forza che ne deriva), si sposano tra di loro come nei miti greci e condividono in armonia alcuni vizi (il bere, l’amore, gli affari) insieme a una sana e vigorosa propensione per il piacere e per il lusso. I costumi degli indiani si fondono con i costumi dei discendenti degli europei. I bianchi sono attratti dagli indiani. E viceversa. Comunicano e imparano ad amarsi. Nel villaggio di Fairfax l’avvicinamento tra bianchi e indiani accade con euritmia e naturalezza quasi irreali, senza frizioni e grazie alle magiche leve del denaro e del piacere. Resto commosso e affascinato anche dalla storia d’amore tra Leonardo Di Caprio e una donna indiana. Si amano, non c’è dubbio. La prova sono l’affettuosità degli abbracci, la lucentezza delle pupille, il gioco degli sguardi che s’intrecciano e saettano sullo schermo dell’Arcobaleno. Di Caprio è un vero principe azzurro, lei è dolce e formosa, non è la sinuosa Pocahontas, ma mostra una grazia reale, non artefatta, credibile, quindi più seducente. Sono fatti l’uno per l’altro. Condividono sincere pulsioni epicuree e sembrano destinati a vivere insieme un’esistenza fatta di piccoli e grandi piaceri. La scena della festa di matrimonio, con il ballo e i violini country, corona il legame tra Di Caprio e la donna indiana (Molly). Mentre osservo la sequenza, inquadratura dopo inquadratura, riaffiorano dalla memoria sprazzi di una vecchia scena di ballo. Kris Kristofferson e Isabelle Huppert volteggiano sopra il pavimento di un fabbricato vuoto, nel film I cancelli del cielo. Di fronte a loro suona una orchestrina country e un giovane violinista imberbe li osserva e gli sorride come un dio dell’amore. Mi chiedo se anche Scorsese, mentre girava, sia tornato con i ricordi a quel precedente, a quel modello.
Poi, a circa un’ora dall’inizio del film, esco dalla sala per scappare in bagno. Dopo un paio di minuti rientro e mi accorgo che qualcosa è cambiato. Avverto una blanda vertigine alle gambe, uno sbandamento, fisico, una perdita dell’equilibrio, come se lo spazio di fronte a me, nel buio, si fosse leggermente piegato, un po’ come quando dalla passerella, per montare su una barca, si mette piede sopra il ponte e si sente lo scafo oscillare sotto il pelo dell’acqua. C’è qualcosa che non quadra nello spazio, anche se non capisco che cosa. All’ambigua sensazione di procedere su un piano inclinato mentre raggiungo la poltroncina, si aggiunge il dubbio che il film, nel frattempo, sia cambiato, come se avesse deragliato e si fosse tuffato in un’altra dimensione.
L’atmosfera del film si è fatta cupa, negativa. Non è più la Fairfax di prima. Non è il cosmo socialmente desiderabile che avevo lasciato prima di andare alla toilette. Di Caprio è provato, affaticato. I rapporti tra i personaggi si sono trasformati, deteriorati. Se prima si sorridevano amabilmente, ora le fronti sono corrugate, le facce si sono guastate in smorfie tese e guardinghe. Domina la paura, il sospetto, la paranoia. Inoltre sono in scena dei personaggi che non avevo ancora visto durante il film, senza che mi siano stati presentati. Da dove arrivano? Chi sono? Che intenzioni hanno? Non ho una risposta. E poi c’è una novità: Di Caprio è -misteriosamente- a processo di fronte a un giudice e mentre con il viso stravolto fa ingresso nell’aula del tribunale, lo zio (interpretato da Robert De Niro) gli lancia un brutto sguardo di sfida e di minaccia. Eppure, fino al momento prima di andare in bagno, lo zio era stato il punto di riferimento morale e affettivo di Di Caprio. Era stato per Di Caprio una specie di secondo padre. E allora? Che cos’è successo in quel paio di minuti che ho trascorso in bagno? Forse si è determinata un’ellissi, è stato operato un salto temporale, mentre aprivo il rubinetto, m’insaponavo le mani e poi le mettevo sotto il getto dell’asciugamani elettrico; o forse un flashforward ha spostato in avanti tutta la trama, tutto l’universo del film. Sono cose che nel cinema succedono, penso. Basta inserire una pagina di sceneggiatura che giustifichi un’accelerazione della trama e lo spettatore ci crederà, accetterà il trucco. Peccato, però, perché non ci sto più capendo niente. Inoltre Molly, la moglie indiana, di colpo è molto malata. È sofferente, supina sopra un letto di ospedale, ha lo sguardo spento, circondata da medici e infermiere. Che cosa le è capitato? Di Caprio, dal canto suo, non è più il principe dagli occhi limpidi e distesi di poco prima. Tutt’altro. Pare stia complottando contro la moglie. Sono confuso, disorientato. Vago all’interno di uno spazio deformato, instabile, privo di appoggi, dove i vecchi punti di riferimento sono scomparsi.
E poi, dopo una cinquantina di minuti, succede un altro fatto che non mi aspetto: compaiono i titoli di coda, il film finisce e il pubblico lascia la sala. Ma come? Non avevo letto su internet che il film era stato criticato per la durata eccessiva, che superava le tre ore? Eppure ne sono passate forse un paio dal mio arrivo al cinema Arcobaleno. Esco dalla sala stordito, ma anziché scendere le scale e uscire nella luce bassa del crepuscolo, in viale Tunisia, mi afferra un dubbio, quindi entro nella sala accanto, mi richiudo la porta alle spalle e scopro che anche nella sala accanto è proiettato il film di Scorsese, Killers of the flower moon, ma il vero Killers of the flower moon, quello per il quale avevo pagato il biglietto, il film che avevo iniziato a vedere circa due ore prima, dove mi ero seduto per la prima volta, mentre l’altro Scorsese, nella sala più piccola dov’ero entrato dopo la veloce pausa in bagno, era il Killers of the flower moon dello spettacolo precedente. Decido di sedermi di nuovo e di riprendere la visione. Gli spettatori, tutti signori e signore anziane seduti al centro della sala, si voltano e nel buio mi lanciano uno sguardo di rimprovero, come per ammonirmi e domandare: «Dov’eri stato tutto questo tempo?»; o meglio, a essere precisi, è più un «Dove è stato lei tutto questo tempo?», dato che a Milano, fra estranei, con gli occhi ci si dà del lei, e mai del tu.
Immagine di copertina: una scena di Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
(C) Melinda Sue Gordon/Apple Tv