Credere nelle favole può essere una cosa che si dice a chi ha una visione delle cose alquanto edulcorata, basata su realtà ammorbidite, purgata dai conflitti veri del vero vivere.
Ciò non vuol dire che chi ci crede non sia, forse più di altri, colpito e offeso dalle difficoltà della vita. A me da piccolo piaceva la favola del brutto anatroccolo non perché fossi scemo (o forse sì) ma perché mi serviva. Mi sentivo (ero) brutto e impacciato e in molti attorno a me si prendevano il compito di ricordarmelo nei modi più brutali. Era una questione di speranza, di fede nel cambiamento, e anche di vendetta. Ciò che c’era non mi piaceva e non mi bastava. Credere è una delle risorse più potenti in dotazione all’essere umano e narrazioni come la favola scaturiscono dall’inesausto conflitto tra le condizioni di vita degli uomini e i loro desideri. E si può dire ne siano l’espressione più diretta e immediata. La favola lavora su una gamma basilare di pulsioni, entra per via primordiale, una via sempre aperta.
Ora, nell’esempio del brutto anatroccolo, ci si concentrava sul destino dell’individuo, non c’era coscienza collettiva, le condizioni del sistema restavano invariate ma avveniva una scalata sociale: chi mi vessava veniva battuto, e io vincevo (anche il privilegio di vessare a mia volta). Così è in molte trame favolistiche, che ci piacciono particolarmente perché si adattano alla nostra società di singoli in gara: vogliamo un successo e un benessere da guadagnarsi nella corsa della vita contro chiunque provi a fermarci (siano essi nostri pari, superiori o inferiori). Queste favole, si dice, ti corazzano, ti preparano ad avere la speranza e l’energia sufficiente alla lotta.
La favola che mi interessa di più però, e di cui è imbevuto I calcagnanti – l’esordio letterario di Nicolò Moscatelli pubblicato da La nave di Teseo – è di un altro stampo. Preciso subito che I calcagnanti è in tutto e per tutto un romanzo d’avventura, come si è giustamente detto, e che – si è ben detto anche questo – è una storia fatta di altre storie; io vorrei dire della qualità di questa amalgama narrativa.
I calcagnanti affonda, e tenta di ricostruire, quel crogiolo di cultura popolare eminentemente orale e pre-industriale che fu il mare pescoso dei primi studiosi di folklore, e dei raccoglitori (come i Grimm, o come il nostro Pitrè) che ci hanno conservato tanti tesori – monetizzati poi egregiamente dall’industria culturale (scrive Moscatelli: «…diceva anche che le storie del popolo erano più importanti di quelle che i signori scrivevano nei loro libri, e che il giorno che i padroni fossero riusciti a portare via tutte quelle storie e il popolo se le fosse dimenticate e avesse potuto solo comprarle un tanto alla pagina, sarebbe stato il giorno che i padroni avevano vinto»).
Grazie a questo processo d’estrazione mediato dalla scrittura, i racconti delle classi popolari accumulati nel mondo feudale e contadino si trasmettevano alle classi più colte e altolocate, staccandosi dai loro originari contesti. Quei racconti popolari non erano campati in aria come si poteva pensare leggendoli a distanza di tempo, sulle pagine di un libro illustrato, no, le loro magie e meraviglie (come ricordano gli studi di Jack Zipes) si attenevano a situazioni che gli ascoltatori potevano facilmente riconoscere. Qualcuno raccontava a un uditorio di poveri emarginati la riscossa di poveri emarginati, che si realizzavano nei modi concepibili da quella società: riempirsi la pancia, arricchirsi d’improvviso, sostituirsi ai potenti (non che oggigiorno l’idea comune di successo sia così differente). I poveracci si riunivano intorno a quel fuoco verbale, sognando. Si riconoscevano negli ostacoli e nelle difficoltà che la favola metteva in campo, gli orchi, le streghe, i re e le regine, non erano astrazioni, si poteva capire bene, allora, di chi si stesse parlando. La strega di Hansel e Gretel era qualcuno che poteva avere la casa piena di ogni ben di dio mentre altri facevano la fame e dovevano sacrificare i propri figli. Le paure e le speranze si animavano, avvenivano catarsi, si immaginava un mondo diverso (si sublimava il malcontento o ci si compattava nell’azione comune).
Moscatelli riprende questa matrice di racconto popolare e la carica di ulteriori addendi sovversivi. Ci mette il rovesciamento tipico delle feste dei poveri, i carnevali in cui per un giorno i potenti venivano spodestati, le utopie del paese di cuccagna, le corti dei miracoli, le leggende brigantesche come quella che durante le feste d’oltremanica faceva travestire quieti artigiani in banditi di Robin Hood suscitando l’intervento delle autorità locali timorose di ribellioni (il 12 maggio del 1561 il Prevosto di Edimburgo condannò all’impiccagione un cordaio reo di essersi mascherato, nonostante le proibizioni, da Robin Hood; a un passo dall’esecuzione però i seguaci del bandito assaltavano la prigione liberandolo: chi leggerà il libro troverà nella trama qualche assonanza con questa storiella).
Moscatelli posiziona Timoteo, il suo ragazzino protagonista, tradizionalmente orfano, in una scuola di formazione perfettamente in linea con questo antimondo: una casa di tolleranza con annessa taverna in cui tiene banco fra’ Gaetano, suo Long John Silver e Tusitala, tutt’altro che pio, che istruisce il piccolo insufflandogli un corpus narrativo ribelle, una tavola rotonda non di cavalieri ma di banditi che gabbano i ricchi per conto dei poveri. E questo mondo di storie, custodito e lievitato da Timoteo, non è invenzione, come si vedrà, ma preparazione alla scoperta di una fratellanza clandestina, che non delude e che in quel sistema di nobili, canonici e gendarmeria si è acquattata aspettando di sferrare il colpo. Moscatelli, per dare stoffa a questo sottomondo, lavora di lingua, va a riprendere l’argot del vocabolario furbesco (o lingua zerga) il modo di parlare in codice usato dai furfanti e dai vagabondi. Questa è la chiave d’accesso che conferisce a Timoteo un nuovo senso d’appartenenza e un destino, quello d’essere un fuorilegge. Tra le parole preferite del mentore fra’ Gaetano ce n’è anche un’altra, “socialismo” (attestata nelle pubblicazioni europee a partire dal 1827), che dice di un recupero dei materiali popolari in senso ideologico. Scrive Zipes: «Solo contrastando con fermezza la maniera in cui la nostra ragione e la nostra immaginazione sono usate contro di noi possiamo imparare a usarle per il nostro bene».
Si potrebbe allora inserire, per quel che compete il genere favolistico e avventuroso, questa prima prova di Moscatelli all’interno di quell’arcipelago di racconti che negli ultimi anni (vedi il New Italian Epic dal lato del romanzo storico) reagiscono al disimpegno cinico, al nobile intrattenimento di maniera o reazionario, riabitando i generi popolari con sguardo militante. La lotta prima, si sa, è nel campo dell’immaginazione, là si alimentano alternative al realismo capitalista.
I calcagnanti affida la reazione al desolante mondo esterno a un ricordo, all’utopia e alla speranza più favolosa e ancora coinvolgente, quella del socialismo che, in questi tempi di paura trionfale, potrebbe sempre servire.