«La vita o è stile o è errore». Lo scrisse Giovanni Arpino nell’incipit di uno dei suoi ultimi romanzi, Passo d’addio (Einaudi, 1986). La vita può essere qualcosa di preimpostato, che bisogna accettare così com’è, oppure qualcosa che si può provare a cambiare, ma con il rischio di tornare al punto di partenza, e parafrasando Samuel Beckett con l’unica possibilità di «fallire ancora, fallire meglio».
I venticinque anni più o meno sono così: o si accetta il corso ineluttabile degli eventi, oppure si prova a diventarne artefici, ma non è detto che il successo sia assicurato, anzi, il rischio di fallire e di non poter tornare indietro è alto. Tutto ciò il Premio Campiello 2021 Bernardo Zannoni ha provato a descriverlo con il suo nuovo romanzo, 25 (Sellerio, 2023), un libro che per stile e contenuti è molto distante dal precedente I miei stupidi intenti, ma che comunque è riuscito a far parlare di sé.
25 è ambientato in un paese di mare senza nome e senza coordinate geografiche specifiche. Rispetto a I miei stupidi intenti, il protagonista non è un animale, ma un ragazzo che la bandella del libro definisce «una strana creatura». Gerolamo, per tutti Gero. Un ragazzo col sogno della fotografia, che all’alba dei venticinque anni non riesce a dare una svolta alla propria vita: sovrappeso, passa le giornate a fumare e a frequentare il bar di Barracus, vive facendo la spola fra la villa dei nonni – di cui non paga le bollette, preferendo quindi restare al buio – e la casa di zia Clotilde. Il tentato suicidio dell’amico Tommy mette in moto nel ragazzo una serie di riflessioni che lo conducono a un bivio: restare bloccati per sempre nel proprio immobilismo oppure provare ad andare avanti?
Il nuovo romanzo di Zannoni sta facendo molto rumore non tanto per quello che descrive, quanto per come lo fa. Molte sono le critiche. Se infatti, nonostante il topos ambizioso del racconto di animali che ha i suoi antecedenti in Esopo, La fattoria degli animali di Orwell e Il vento fra i salici di Kenneth Grahame, I miei stupidi intenti risultava coeso e coerente dall’inizio alla fine, con personaggi psicologicamente approfonditi e un ruolo specifico nella narrazione, qui in 25 si incontrano invece diverse ingenuità. Alle volte presenta dei buchi logici a livello di trama con personaggi che appaiono all’improvviso per poi scomparire e ritornare per diventare i deus ex machina della storia, coloro che dal nulla danno al protagonista la chiave di volta dei propri dubbi esistenziali, talvolta narra eventi fantascientifici fini a se stessi che non risultano coerenti con il resto della trama e per cui la sospensione dell’incredulità risulta difficile. Si percepisce una tensione mai risolta fra evitare di narrare un racconto autobiografico – come lascia presagire la presenza di un paese di mare, che potrebbe essere collocato in Liguria, dove Zannoni è originario – e quello invece di scrivere un racconto di pura finzione – come si evince dai nomi stranieri e dalla presenza di episodi fantastici fuori contesto.
La psicologia dei personaggi si approfondisce poco e molti di loro sono ridotti al ruolo di mera comparsa. Di Gero, ad esempio, non si saprà mai il perché di tanta paura nei confronti della vita adulta, viene preclusa al lettore ogni possibilità di capire come mai compie certe determinate scelte. Accanito tabagista e inetto alla vita, Gero sembra uno Zeno Cosini senza il conflitto paterno, un bohémienne che vive alla giornata proprio perché gli va di farlo e al lettore risulta difficile quindi simpatizzare con la sua autocommiserazione.
Nei Miei stupidi intenti Zannoni ha dimostrato una buona maestria narrativa, cercando modi nuovi – o meglio, poco usati al giorno d’oggi – di raccontare territori già esplorati in precedenza. Leggendo 25, viene da pensare che forse l’autore di Sarzana abbia volutamente adottato un non-stile per raccontare qualcosa su cui tanto si sta già scrivendo e si scriverà. Un non-stile, dunque, adatto a raccontare la confusione dei venticinquenni e la loro paura a fare il grande passo.
Caratteristiche della scrittura di 25 sono il minimalismo, ma anche il grigiore a livello lessicale e la ricorsività. Zannoni, infatti, usa una prosa piatta, senza slanci stilistici e distante dal ritmo veloce dei Miei stupidi intenti. Il lessico ricorre molto al campo semantico del vuoto e del niente, ma allo stesso tempo tende a ribadire gli stessi concetti più e più volte, rimarcando così l’immobilismo del protagonista. Gero stesso viene definito «fatto di fumo», «uomo di niente», «persona invisibile» e inodore. È un ragazzo che vive alla giornata, annebbiato dal fumo delle sigarette e incapace di vedere una prospettiva di futuro davanti a sé:
«Si chiese che vita fosse la sua. Se fosse un uomo o meno. Non sapeva darsi una risposta, cadeva nel vuoto dell’ignoranza, nel rimorso di non averlo affrontato prima. Provò a chiedersi se fosse felice. Scavando dentro di sé capiva di non provare niente: non giocava da nessuna parte, non andava da nessuna parte. Una forte angoscia gli strinse lo stomaco, il sudore gli gelò il collo. Buttò la sigaretta, tra le dita ne tormentava già un’altra. Un pensiero, il più intrusivo, gli diceva che non era più un bambino. Il suo tempo faceva ombra. Trattenne un colpo di tosse, ritrovò l’equilibrio. Guardando indietro, costretto ad affacciarsi ai ricordi, si accorse che la sua vita fin lì era stata incredibilmente lunga. Dentro questa eternità, una spirale di immagini insipide, non fu in grado di trovare nulla. Oltre il muretto il vuoto lo chiamava».
Quella di Gero è una vita passata ad annaspare sul posto, a fissare il vuoto senza mai attraversarlo, anzi, aspettando che un miracolo si presenti all’improvviso sperando di poterla cambiare per sempre. Gero è come le persone che osserva al bar di Barracus: un ignavo, che «vive di niente, diretto da nessuna parte, [che] rosicchia la realtà giorno per giorno», intento a infrangere il record del flipper fermo dal 1999 senza mai provarci davvero per timore di scatenare la rabbia del barista, se non addirittura per timore di aprire la porta di infinite possibilità che un’impresa del genere potrebbe comportare. Tutti loro vivono in quella che il suo amico Amon definisce una «Grande Gabbia», da restringere sempre di più per essere felici. Per gli ignavi, la Grande Gabbia è una comfort zone in cui rifugiarsi, poiché essere prigionieri dell’immobilismo e della mancanza di alternative è meglio di rischiare e cambiare il corso degli eventi anche al costo di perdere tutto.
Tuttavia, il protagonista arriva alla seguente conclusione: la condizione di immobilismo e prigionia è dovuta alla debolezza causata dalla mancanza di opportunità. Riconoscere questa condizione porta, però, paradossalmente a un nuovo punto di partenza per ricominciare e trovare una propria strada.
«Nessuno era colpevole di niente: era solo il tempo in cui vivevano, la vita che gli toccava elemosinare, un miraggio perduto. Lui però non aveva più paura. I dubbi si erano trasformati in uno sprone, e in qualche modo, avevano preso a definirlo. Lui era le sue debolezze, e quella era una grande certezza. Poteva tirare un sospiro di sollievo. Avrebbe trovato una strada, qualcosa sarebbe successo».
Tornando a Giovanni Arpino, dopo aver letto 25 viene da chiedersi: i venticinque anni sono stile oppure errore? E per quanto riguarda il romanzo in sé, si può parlare di errore di stile o stile dell’errore? Molti opterebbero per la prima possibilità, ma forse Zannoni ha dimostrato ancora una volta la sua bravura narrativa con una prova non esente da sbavature ed errori, che rispecchia quello che alla fine sono i venticinque anni: un susseguirsi di errori, ma anche di paure e ansie, un continuo cercare di fare un passo avanti rischiando di inciampare, sempre in attesa di un miracolo, con la sensazione di non essere mai in grado di svoltare veramente. E forse è questa la forza di 25: raccontare i venticinque anni con la stessa esitazione di chi vive alla giornata in bilico fra diventare grandi e restare immobili nel desiderio di prolungare per sempre la propria giovinezza.
Photo credits Louie Castro-Garcia su Unsplash