Prossimi a concludere il percorso espositivo della National Gallery di Londra incontriamo un momento particolare. Nel punto di fuga dell’infilata di porte, in prospettiva e posizione strategica, appare dalla sala numero 34 Whistlejacket di George Stubbs. Oltre la posizione, le dimensioni concorrono all’impressione: quasi tre metri di altezza per due e mezzo di larghezza. È un formato colossale spesso destinato a ritratti equestri di potenti e regnanti, da Tiziano a Van Dyck. È un altro, tuttavia, il motivo decisivo per cui l’incontro con l’opera più famosa di un pittore non particolarmente celebre genera un’intermittenza nel cuore nonostante giunti a quel punto del museo abbiamo già ammirato centinaia di capolavori dei massimi maestri della storia dell’arte: si tratta di un ritratto equestre senza cavaliere.
Il soggetto è proprio Whistlejacket. Il grande olio su fondo monocromo oro raffigura un cavallo arabo da corsa e fu commissionato nel 1762 da Charles Watson-Wentworth, marchese, magnate e primo ministro Whig. Il purosangue è ritratto mentre si impenna e guarda in tralice a destra, fissando lo spettatore. Fu tutt’altro che la prima commissione per ritrarre dal vero cavalli importanti – pensiamo alla Sala dei cavalli affrescata da Giulio Romano a Palazzo Te, Mantova – e ancor meno il primo animale con un’identità specifica nella pittura occidentale – pensiamo a carattere puramente esemplificativo, spostandoci solo un paio di chilometri da Palazzo Te, al lagotto e agli altri cani Gonzaga nella Camera degli Sposi. Eppure, a Londra, in quella epifania inquadrata nell’infilata di sale abbiamo l’impressione di una prima volta. Whistlejacket ci appare il primo animale della National Gallery – mentre, ovviamente, in realtà ne abbiamo già incontrati chissà quante dozzine o centinaia.
John Berger, nel suo saggio capitale Ways of seeing, sintetizza la formula del male gaze nella ritrattistica. Sono innumerevoli le donne, spesso in veste mitologica o storica, nella pittura classica. Però, generalmente, l’uomo ritratto guarda lo spettatore mentre la donna (ninfa o Diana o cortigiana) aspetta lo sguardo dello spettatore maschio. Generalmente, l’uomo si presenta per ciò che fa, per il suo ruolo nella società di cui ostenta i segni; la donna rende disponibile ciò che ha (il corpo, l’aspetto). La sua presenza non è autonoma, necessita validazione. Questo vale, ancor di più, per quanto riguarda gli animali. La prima volta di Whistlejacket è quella del primo soggetto non umano autonomo della National Gallery. Non solo è un cavallo non cavalcato ma occupa interamente lo spazio dipinto sulla tela. E (ci) guarda. Razionalizzando lo stupore di fronte all’immagine del cavallo più celebre del settecento inglese possiamo tematizzare una rivoluzione ontologica: l’autosufficienza oltre il riconoscimento di specie.
Il Sud America è all’avanguardia della ridefinizione del numero e del confine delle soggettività, per motivi culturali che sicuramente hanno a che fare con le radici animiste e le differenti cosmogonie che sottendono l’immagine del mondo – siano ad esempio il culto della Pacha Mama o la mitologia amazzonica sciamanica degli Yanomami raccontata da Davi Kopenawa con il suo confine poroso e continuamente attraversato tra umano e non umano al posto della gerarchia biblica tra enti con l’uomo vertice e compimento della creazione, generato il sesto giorno a immagine della divinità. Seguendo il paradigma deep ecology, l’Ecuador è stata la prima nazione a riconoscere costituzionalmente i diritti della natura e in Colombia e Bolivia i fiumi sono persone giuridiche con diritto di rappresentanza in tribunale.
Alessandra Sanguinetti, newyorkese, è una delle più importanti e celebrate fotografe contemporanee. È giustissimo perché ci sono pochi sguardi altrettanti unici. Molti dei suoi libri hanno ambientazione sudamericana, specificamente argentina. Tra loro On the sixth day, pubblicato nel 2005 e appena riedito da Mack in edizione aggiornata e espansa con immagini inedite, il cui territorio è circoscritto a una piccola fattoria situata nella provincia rurale di Buenos Aires.
Prima di parlare delle fotografie introduciamo la struttura. Il libro è in partitura, non ci sono linee narrative evidenti bensì movimenti associativi e ritmici che lo innervano conferendogli respiro e senso complessivi. Le immagini parlano – ma parlano da sole. Come si diceva a proposito del cavallo di Stubbs e come era negato alle donne nella pittura classica canonica, le fotografie di On the sixth day hanno autonomia ontologica, non sono legate a didascalie o testi che, completandole, ne dirottino o incanalino l’aura verso il discorso, il significato univoco. Gli unici testi sono, in fondo al libro, la dedica (a tutti gli animali da fattoria per tutto ciò che subiscono, per quello che ci danno e per quello che ci prendiamo da loro), un testo poetico in esergo e i ringraziamenti che mescolano donne e uomini con nomi e cognomi a animali anonimi ossia tutto ciò che vive e si muove attorno alla fattoria.
Il libro è strutturato per blocchi di immagini funzionanti come movimenti sinfonici e sono separati da pagine bianche come ognuno emergesse dal silenzio o dall’indeterminato caos non creato (il sesto giorno). Infatti il primo blocco, dopo una immagine introduttiva edenica di margherite selvatiche in fiore, mostra alcuni animali emergere parzialmente sfocati e sciolti da una luce bianca. La cornice metaforica della creazione biblica si presta a interpretazioni non solo poetiche e suggestive bensì altrettanto antropologiche e politiche. Il sesto e ultimo giorno di attività Dio crea gli animali, poi l’uomo e la donna e li esorta «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». È qui la prima radice culturale dell’antropocentrismo e dell’assoggettamento degli animali non umani, una rivoluzione rispetto al concerto interspecie animista quando l’uomo era uno tra tanti.
Il lavoro di Sanguinetti stupisce – è unico – per diversi motivi. Innanzitutto On the sixth day sorprende per la scarsità di sapiens, poi perché fino a libro inoltrato (lo splendido ritratto estatico di quella che supponiamo essere la matriarca della fattoria) non vediamo un volto o un corpo umano intero ma arti, infine perché ci rendiamo conto che tutte le fotografie sono scattate ad altezza animale e i rari umani inquadrati da quella prospettiva. La matriarca vista dal basso verso l’alto ha anche qualcosa di minaccioso, della gigantessa. Si tratta di un rovesciamento dello sguardo che non può non implicare un ribaltamento della soggettività proprio come nei primi dipinti in cui una donna, ritratta con le sue caratteristiche individuali, sfidava lo sguardo maschile guardandolo fisso, da pari a pari.
E infatti gli animali della fattoria di On the sixth day guardano in camera con frequenza da attori nouvelle vague e ci pare ogni volta di riconoscervi emozioni complesse e specifiche. Ci pare, non ne siamo certi perché come è noto se un leone potesse parlare non potremmo capirlo e soprattutto non dovremmo pretendere di poterlo tradurre, di ridurlo ai nostri codici linguistici perché il riconoscimento dell’autonomia ontologica dei soggetti non umani passa anche dal trattenersi dall’antropomorfizzare, dal riconoscimento dell’alterità.
Il realismo magico è la cifra di Sanguinetti ed è perfetto per lasciare a cavalli, maiali, tacchini, agnelli, oche un resto ineffabile, un’aura perturbante. Ci sono inoltre elementi formali, estetici – anche il senso dello spazio è magico se all’altezza animale si intersecano i cieli altissimi e gli orizzonti vastissimi della pianura argentina, assi di coordinate fatte non per orientarsi ma per perdersi – e scelte tematiche. La fattoria secondo Sanguinetti non è per nulla edulcorata, disneyficata: è piena di morte, una morte non sanificata fatta di carcasse in decomposizione, animali sgozzati per farne cibo, embrioni morti e mangiati da altri animali, sangue. È uno sguardo senza commento, che registra i cicli vitali come i fenomeni naturali non rinunciando per questo motivo all’empatia ma senza forzature moraleggianti. Rifiutando il testo, rifiuta anche l’apparato informativo e l’individuazione e l’individualizzazione – sapiens e altri animali possono perciò essere pari – quindi la narrazione che prevede un ordine e la prospettiva etnografica che prevede una gerarchia di sguardi e il distacco di colui che osserva e studia.
Il capolavoro di Sanguinetti è probabilmente il dittico dedicato a Guille e Belinda (The Adventures of Guille and Belinda and The Enigmatic Meaning of Their Dreams e The Adventures of Guille and Belinda and The Illusion of an Everlasting Summer, entrambi pubblicati da Mack) che segue per due decenni la vita di due cugine, sempre nell’Argentina rurale. Si tratta di un progetto fluido che ha complementi, per esempio, nei video altrettanto incantevoli che ritraggono le cugine ballare e cantare, pubblicati dalla fotografa sul suo profilo Instagram. Se c’è una poetica e una teoretica che lega le opere di Sanguinetti è la vicinanza, lo stare addosso alla vita senza incanalarla dentro una struttura prefissata e senza edulcorarne il mistero, l’incanto e la violenza. Realismo – magico. E non dare nessuna gerarchia tra soggetti. Non è un caso – è particolarmente significativo ricordarlo in questi giorni – che Alessandra Sanguinetti sia anche un’attivista impegnatissima per i diritti del popolo palestinese.
La fattoria di Sanguinetti ribalta l’ideologia del sesto giorno: lo spaziotempo dell’ordinamento gerarchico secondo antropocentrismo biblico (e poi capitalista, occidentale per estensione) diventa lo spaziotempo sospeso e orizzontale della convivenza e della coesistenza («siamo tutti vivi insieme» anche se alcune vite restano drammaticamente funzionali al sostentamento di altre, noi abbiamo bisogno degli animali). È una chiave neo-animista: secondo la definizione di Donna Haraway l’animismo è «a powerful proposition for rethinking relationality, perspective, process, and reality».
Le fotografie di On the sixth day sono intensamente relazionali: mostrano i rapporti ambivalenti che intercorrono tra animali e uomini come relazioni non mediate tra animale e animale, spesso con incontri di specie non legate da rapporti di necessità (galline e maiali; struzzi e cavalli). Questo, come detto, il portato concreto, politico e antropologico del libro, il suo realismo. Poi c’è il magico ed è nel modo in cui gli animali spogliati da relazioni di dipendenza e sintassi sono ritratti e incontrano il nostro sguardo. Ancora sono numerosi gli antecedenti nell’arte figurativa, da Rousseau il doganiere a Paul Klee a Franz Marc e così via. Gli animali non hanno bisogno di noi per avere diritto all’esistenza. Così sembra dire l’ultima sezione onirica del libro con gli animali che si dirigono altrove dandoci le spalle. E gli animali si fanno psicopompi sulla soglia di un’alterità ieratica e irriducibile, non mappata e deterritorializzante.
Anche in questo caso ci riferiamo a John Berger e a un’altra fondamentale raccolta di saggi, Why look at animals?. «We live our daily lives in a constant exchange with the set of daily appearances surrounding us – often they are very familiar, sometimes they are unexpected and new, but always they confirm us in our lives. (…) Yet it can happen, suddenly, unexpectedly, and most frequently in the half-light of glimpses, that we catch sight of another visible order which intersects with ours and has nothing to do with it (…) Dogs, with their running legs, sharp noses and developed memory for sounds, are the natural frontier experts of these interstices. Their eyes, whose message often confuses us for it is urgent and mute, are at- tuned both to the human order and to other visible orders». E inoltre: «Several years ago, when considering the historical face of art, I wrote that I judged a work according to whether or not it helped men in the modern world claim their social rights. I hold to that. Art’s other, transcendental face raises the question of man’s ontological right».
Immagine di copertina: dal profilo Instagram di Alessandra Sanguinetti