L’ultimo numero di The Passenger (marzo 2020), la rivista/libro pubblicata dalla casa editrice Iperborea, è dedicato all’India. Ed esce in un momento molto particolare nella storia indiana recente. La rivista, 192 pagine che trattano aspetti diversi della società, della politica e della cultura indiane, coglie perfettamente nel segno trattando in particolare questioni legate all’identità in transizione di un Paese che ha da sempre nella straordinaria diversità e della convivenza tra tradizioni e culture diverse uno dei propri segni distintivi.
Con undici contributi di famosi politologi, intellettuali e scrittori, per la maggior parte indiani, The Passenger tocca diversi aspetti della società e della cultura: dall’attualità, con particolare attenzione all’evoluzione socio-politica in corso negli ultimi mesi, ai rapporti di genere, alla letteratura, alla cucina, allo sport, alla scienza, alla meteorologia. Il filo rosso che lega tutti questi contributi è, come accennavo, la riflessione sull’identità complessa e in continua evoluzione di un Paese che, a 73 anni dall’indipendenza, ha vissuto negli ultimi mesi uno dei periodi più turbolenti della sua storia recente: la conferma al governo del Partito del Popolo Indiano (BJP) di Narendra Modi, nel maggio dello scorso anno, ha portato a politiche dall’effetto dirompente, di tale portata da fare riaprire il dibattito sull’identità di un Paese erede di un’antichissima civiltà ma in fondo giovane come stato nazione unitario. Tra le misure più controverse prese dal governo negli ultimi mesi possiamo citarne alcune, di particolare rilevanza: l’annullamento dell’autonomia del Kashmir, con alto significato simbolico dal momento che si tratta dell’unico stato indiano a maggioranza musulmana, per giunta al centro di un conflitto irrisolto con il vicino Pakistan; l’introduzione del registro dei cittadini nello stato dell’Assam, autentico laboratorio politico per una misura che, nei piani del governo, si vuole estendere in futuro a tutto il Paese e che potrebbe privare della cittadinanza milioni di musulmani indiani; un emendamento sulla legge di cittadinanza fortemente penalizzante nei confronti sempre dei musulmani e per la prima volta incurante della natura laica dello Stato indiano, riconosciuta espressamente nella Costituzione del 1950. Tutte queste misure, cui io aggiungerei la dura repressione del dissenso, portata in alcuni casi ben oltre i limiti imposti a uno stato democratico, non hanno solamente rafforzato l’evidente volontà politica del governo di proseguire lungo una strada di smantellamento dello Stato laico e di messa in discussione della natura democratica delle istituzioni, ma ha anche riacceso un dibattito sulle stesse radici identitarie della società indiana.
Proprio all’interno di questo dibattito va collocato uno degli articoli centrali della rivista, quello di Prem Shankar Jha, significativamente intitolato La sfida esistenziale dell’India. Jha, politologo di fama internazionale, analizza la recente evoluzione del paese dando per scontata la fine di un’epoca con la vittoria, non solo politica ma soprattutto ideologica e culturale, di un modello, quello della destra indù, che non considera più la diversità etnica e religiosa come un punto di forza dell’India, ma come una debolezza nel percorso di costruzione di uno Stato nazionale omogeneo ed esclusivo, dominato da élite appartenenti alla comunità religiosa maggioritaria. Aspetto centrale, e certamente suggestivo, dell’articolata analisi di Jha, è la necessità, per preservare l’anima profonda dell’India democratica e multiculturale, di rifiutare ogni sguardo nostalgico al passato, verso quell’India laica e multiculturale creata da padri nobili come Gandhi e Nehru ma oramai scardinata nei fatti dall’ondata del nazionalismo indù. Piuttosto emerge l’importanza di opporsi ideologicamente a questi tentativi di omogeneizzazione sociale attraverso una rilettura del passato di tolleranza e di apertura culturale insito nelle radici più profonde dello stesso induismo. Un’interpretazione senza dubbio originale, e considerata oggi necessaria per confrontarsi, rigettandola, con una visione estremista, esclusivista e settaria della società indù.
Su questo filone si innesta un altro interessante contributo, quello della nota scrittrice Arundhati Roy (Contro le caste, ieri oggi e domani). Roy analizza il sistema delle caste e la sua resilienza, fortemente legata alla permanenza di ineguaglianze e iniquità, che spesso sfociano in autentica violenza perpetrata dai gruppi dominanti della società nei confronti dei gruppi più deboli, sottomessi e discriminati. La scrittrice, con il suo consueto stile polemico e diretto, vuole innanzitutto sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale, che «abbagliata da un’immagine mansueta e idealizzata della cultura indiana, stenta a condannare apertamente il sistema delle caste, pur essendo in tutto e per tutto una pratica razzista e discriminatoria». Obiettivo della polemica di Roy sembrano essere innanzitutto gli intellettuali, sociologi e antropologi in particolare, attratti dallo studio del sistema delle caste, considerato come unicum indiano da analizzare e preservare, come se la violenza e le discriminazioni insite in questo sistema non fossero altro che effetti collaterali. Messo in guardia il lettore nei confronti delle interpretazioni al limite dell’indulgenza date nel passato e nel presente a questo sistema, attraverso il racconto di storie esemplari molto crude che suscitano sdegno e compassione (nel senso etimologico del termine) l’autrice si concentra sulla figura di Ambedkar, intellettuale e padre della Costituzione indiana. Ambedkar era un dalit, un individuo appartenente al segmento più basso della piramide castale. Roy ci riporta al suo messaggio rivoluzionario, troppo spesso depotenziato attraverso interpretazioni edulcorate del suo pensiero, abilmente strumentalizzate da politici e intellettuali inevitabilmente appartenenti alle caste superiori, che ancora oggi monopolizzano in India i posti di potere nella politica, nell’economia, nell’editoria e nel mondo accademico.
Il sistema delle caste si interseca con forme di sfruttamento economico insite in una società profondamente conformista, patriarcale e conservatrice, come non manca di ricordare Arundhati Roy. Ma in diversi articoli della rivista emerge anche la volontà di gruppi grandi e piccoli, e di singoli individui di opporsi a questa visione del mondo. Si tratta di una resistenza che prende le forme più diverse, da quella dei dalit, analizzata da Roy, a quella dei Kashmiri, mirabilmente descritta da Mirza Wahid nel suo articolo intitolato Il sangue dei tulipani; da quella delle donne e delle Hijra, transgender oggi riconosciute in India come terzo genere e protagoniste dell’articolo In/visibili di Tishani Doshi, a quella degli atei, invisi a tutte le comunità religiose e oggetto di minacce e violenze (Julia Lauter, Guai se non credi).
Tutto pare negare l’esistenza di un’India che guarda con ottimismo al futuro, in grado di presentarsi al mondo come Paese in rapida modernizzazione, con una società civile vitale e in perenne movimento. Ma se è vero ciò che ha detto Joan Robinson («Di ciò che è vero in India è vero anche il contrario»), ecco che ci vengono in soccorso Sushmita Mohanty (Il razzo sulla bicicletta), che ci descrive il peculiare percorso dell’ISRO (l’agenzia aerospaziale indiana), e Sonia Faleiro, con un contributo sulla lottatrice Vinesh Phogat divenuta simbolo di emancipazione per molte donne dell’India: una ragazza che grazie alla sua determinazione e ai suoi sacrifici è riuscita ad affrancarsi dal sistema patriarcale prevalente nel Paese e avere successo in uno sport considerato da sempre un’esclusiva dei maschi.
Nell’ultimo, molto significativo, articolo della rivista il prof. Arunava Sinha (“Un paese, molte letterature”) ci riporta alla realtà di un’India incredibilmente articolata e variegata, che quantomeno in letteratura continua a nutrirsi di diversità e che appare resistere ad ogni tentativo di omologazione. Sinha si serve delle sue recensioni di quattro libri scritti in quattro lingue indiane (Hindi, Bengali, Malayalam e Kannada) per darci una panoramica della ricchezza culturale insita nella diversità linguistica del Paese. Questo articolo mi riporta ad una metafora ideata dal politico e scrittore Shashi Tharoor, perfettamente calzante con la visione di Sinha. Tharoor ha descritto l’India come un Thali, piatto indiano in cui convivono molte ciotoline con diversi ingredienti, come alternativa al modello del Melting Pot statunitense. I cibi contenuti nelle ciotoline non si mischiano come in un pentolone ma ciascun ingrediente, pur mantenendo distinto il suo sapore e la sua essenza, contribuisce a rendere speciale un piatto che risulterebbe incompleto se solo ne mancasse uno. Così lo studio delle letterature indiane, al plurale, può aiutarci a capire l’essenza della complessità del Paese, come monito a rifiutare le spinte all’omologazione in corso. Attraverso l’esempio dei quattro libri, opera di scrittori provenienti da quattro angoli dell’India molto lontani tra loro, Sinha ci dà «una piccola guida alle tante voci dell’India di oggi». E anche un barlume di speranza sul futuro.
Photo credits: Steve McCurry, Holu, Rajasthan, India, 1996